Il malfunzionamento della democrazia francese all’origine della mancanza di libertà economica.

Nell’Economic Freedom of the World 2011, redatto sulla base dei dati del 2009, la posizione della Francia del 2010 è scesa dal 37° al 44° posto. Il punteggio di “4,72” per la voce “Dimensione del governo” pone la Francia al 105° posto. Alla luce del recente, repentino aumento della spesa centrale e del crescente debito pubblico, non vi è dubbio che la posizione della Francia nel Economic Freedom Index, il quale richiede due anni per la raccolta di tutti i dati, sarà molto peggiore nel 2013, soprattutto, e paradossalmente, in virtù delle recenti iniziative del governo che cercano di affrontare la “crisi del debito”.
Il pacchetto di austerità annunciato dal primo ministro François Fillon a fine agosto è infatti un buon indicatore della mancanza di serietà dei politici che dovrebbero riformare questo paese. Con un debito pubblico ufficiale dell’85% del PIL, un deficit di 95 miliardi di euro previsto per quest’anno, e un costo finanziario del debito che diventerà il primo punto del bilancio statale di quest’anno, il pacchetto di 12 miliardi di euro appare, nel suo ammontare, già irrisorio. Ma il fatto che, di quei 12 miliardi di euro di “risparmi di bilancio”, solo 1 miliardo si suppone riguardi tagli alla spesa reale, ci dà un senso di quanto appaia ironica l’espressione “risparmi di bilancio”: in questo caso si intende più tasse, che significa austerità per i contribuenti francesi, non certo per lo Stato francese.
In realtà, la trappola della retorica della “regola d’oro”, di moda anche in Spagna e qui in Italia, ha prodotto il suo effetto: nel concentrarsi esclusivamente sul “ritorno al pareggio di bilancio”, il governo ha distratto l’attenzione dalla questione, più cruciale, del ritorno al pareggio di bilancio mediante una seria riduzione della spesa pubblica. Infatti, la spesa pubblica francese (compresa la previdenza) rappresenta ormai quasi il 56% del PIL. La Germania, che ha uno stesso livello di servizi pubblici e di previdenza, le autostrade “gratuite”, e che ha dovuto affrontare i costi della sua riunificazione, ha una spesa pubblica che ammonta solo al 47% del PIL.
La Francia, come molti altri paesi, è in realtà una democrazia che funziona male, e questo, in gran parte, spiega la sua situazione attuale. Non è come la Grecia, naturalmente, ma forse non così lontana. Da un punto di vista sociologico, ci sono alcune somiglianze nel funzionamento delle politiche di entrambi i paesi. Eppure, si è ancora in tempo per evitare alla Francia una “fine come quella greca”, ma sono presenti molti ostacoli istituzionali nello stesso modello francese che sono all’origine dell’attuale condizione. Qualsiasi riforma seria dovrebbe anche affrontare i nodi strutturali del funzionamento (o, meglio, del malfunzionamento) della democrazia francese.

Un Parlamento al traino
Una delle istituzioni fondamentali della democrazia è il Parlamento. Nella storia della democrazia britannica, il Parlamento è stata la prima istituzione a vincolare il re in materia di spesa. Il suo ruolo fondamentale è quello di controllare, verificare, e limitare la spesa dell’amministrazione. I “rappresentanti della collettività” hanno la missione di fare in modo che il denaro dei contribuenti sia ben speso.
Purtroppo, in Francia il Parlamento non esercita il suo ruolo. Dalla Costituzione della Quinta Repubblica del generale De Gaulle del 1958, il regime è sostanzialmente presidenziale, con un governo che “risponde agli ordini” e un Parlamento che non svolge il suo compito democratico. Un Parlamento al traino, insomma. In sostanza, vengono discusse solo le nuove spese.
Al di là di questo profondo difetto strutturale della Costituzione stessa, il famoso “cumulo degli incarichi” (che significa la possibilità per un parlamentare di essere anche, allo stesso tempo, un sindaco, generale o consigliere regionale) ha due conseguenze pregiudizievoli per il funzionamento di una sana democrazia: in primo luogo, il non essere in grado di lavorare seriamente sui grandi problemi della nazione e di conseguenza l’incapacità di vedere dove potrebbero essere realizzati seri risparmi; in secondo luogo, essenzialmente il compiere attività di lobby in Parlamento in relazione ai mandati locali che i parlamentari hanno come sindaco, ecc. il che significa tentare ancora di più di attirare fondi alle circoscrizioni locali.
Eppure, almeno quattro diversi enti potrebbero aiutare a frenare la spesa pubblica.
Nel 1999 nella legge organica relativa alla legge delle finanze (LOLF) era prevista la creazione di un ente speciale sul modello dell’inglese National Audit Office: la Mission d’Évaluation et de Contrôle. Tuttavia, esso non ha mai realmente avuto alcun potere e ha presentato pochissimi rapporti. Nicolas Sarkozy ha dichiarato nel 2007 che una “Democrazia irreprensibile è una democrazia in cui il Parlamento controlla l’esecutivo e ha i mezzi per farlo”. Di conseguenza è stato aggiunto un nuovo articolo alla Costituzione ed è stato creato anche all’interno dell’Assemblea Nazionale un nuovo Comité d’Évaluation et de Contrôle de la Dépense Publique. In verità anch’esso ha agito molto timidamente, e soprattutto nulla ha detto su come tagliare la spesa pubblica nel bel mezzo di una crisi del debito.
Un altro ente che dovrebbe controllare il modo in cui viene speso il denaro dei contribuenti è la Commissione delle Finanze (Commission des Finances) dell’Assemblea Nazionale (Assemblée Nationale) e del Senato (Sénat). Tutti coloro che elaborano rapporti per questa Commissione, – che  sono parlamentari -, dovrebbero controllare ogni aspetto del bilancio della nazione. L’unico problema è che essi non esercitano le loro funzioni in maniera soddisfacente: i collaboratori (administrateurs) fanno il lavoro per loro, e purtroppo questi sono funzionari pubblici, cioè, appartengono all’amministrazione – e implicitamente la rappresentano -, quando in realtà essi ne dovrebbero essere indipendenti, dal momento che loro compito è esaminare criticamente la spesa dell’amministrazione per conto dei rappresentanti della collettività. Abbiamo così tre diversi enti, che hanno il potere di controllare l’amministrazione, ma né i mezzi – né, a quanto pare – la volontà.

L’unico ente che ha davvero i mezzi per controllare la spesa e le politiche pubbliche è indipendente dal Parlamento, ma dovrebbe, attraverso il controllo della spesa, essergli d’ausilio: si tratta della Corte dei Conti, la quale redige rapporti, molto spesso molto buoni. Ma essa non ha alcun potere. Purtroppo alcuni di questi rapporti talvolta non sono resi pubblici, e la maggior parte di essi rimane nei cassetti o sulle scrivanie di alcuni ministri: il Parlamento, che ha il potere, ma non i mezzi, quasi non ricorre ai suoi rapporti, incomprensibilmente. La separazione di un ente (Corte dei Conti), che ha i mezzi per controllare e contenere efficacemente la spesa pubblica, ma non il potere, dall’ente (Parlamento) che ha il potere, ma non i mezzi, ci conferma con certezza che la spesa pubblica non potrà essere ridotta.
In ogni caso, i rappresentanti rappresentano realmente la nazione? Se ne può dubitare. Durante lo scorso mandato dell’Assemblea Nazionale (2002-2007), oltre il 50% dei rappresentanti erano o dipendenti pubblici o si mantenevano grazie a fondi pubblici. La cifra era del 72% per il partito socialista! (Verdier-Molinier, 2011:100). Quando i rappresentanti della collettività di fatto sono rappresentanti dell’amministrazione, ci si può chiedere come il Parlamento possa svolgere il proprio lavoro. Tanto più che l’amministrazione stessa è diventata una vera e propria lobby.

Dipendenti pubblici: la più grande lobby francese
L’irrazionalità nella struttura degli enti che dovrebbero controllare la spesa pubblica fornisce un buon ritratto della irrazionalità della stessa amministrazione. Infatti, a dispetto degli sforzi fittizi di valutare e controllare, e a dispetto dell’impiego di fondi pubblici per sviluppare (per finta) un sistema di valutazione (uno spreco di denaro dei contribuenti), tutto in realtà mira ad impedire la valutazione e il controllo: la casta dei funzionari semplicemente odia pensare che si possa dubitare che essa non stia facendo del proprio meglio per servire la collettività.
Mentre il decentramento avviato nei primi anni ottanta avrebbe dovuto contribuire a ridurre l’enorme numero di dipendenti delle amministrazioni centrali, il loro numero in realtà… è aumentato del 14% tra il 1980 e il 2007. Il numero dei dipendenti pubblici per 100 francesi è di 8, mentre la media è 5 in Germania e nel Regno Unito. Quasi un lavoro su 4 è nel “pubblico settore”. Tra il 1980 e il 2007, mentre la popolazione è cresciuta del 18%, il numero dei dipendenti pubblici è aumentato del 36%. Nel governo locale l’incremento è stato del 71% ma nel quadro del decentramento. Eppure, come detto prima, esso non è stato compensato da un calo dei dipendenti delle amministrazioni centrali. Negli ospedali il numero di dipendenti è cresciuto del 54% (Corte dei Conti, 2010).
Che i funzionari di alto rango siano addestrati presso la École Nationale d’Administration può costituire un problema. Certamente ciò consente a funzionari statali di essere formati in un modo che si presume adeguato per la loro missione. Ma la formazione della Scuola è molto statalista, giacobina, macroeconomica ecc. Non c’è grande interesse verso la logica imprenditoriale e la libertà di iniziativa economica “anarchica”: lo spirito dell'”amministrazione” deve prevalere. Si può immaginare l’impatto sull’amministrazione del paese, quando l’80% delle posizioni direttive e il 40% del personale del Ministero delle Finanze, il 71% del personale dei gabinetti ministeriali, ma anche una buona parte del personale dell’Eliseo (50%) provengono dall’ENA (nel 2010, Verdier-Molinié, 2011:105).
Nella politica francese i funzionari pubblici tendono a occupare l’arena politica. Questo non risulta sorprendente, in quanto essi hanno il vantaggio di poter godere dell’aspettativa dalla propria amministrazione, se vogliono correre per le elezioni (e di essere reintegrati se perdono le successive elezioni), il che non è consentito a coloro che provengono dal settore privato. C’è dunque una “funzionarizzazione” della politica, una tendenza non molto salutare.

Uno stato sociale conservatore
È anche importante comprendere le radici dello Stato sociale francese per capire le difficoltà nella realizzazione delle riforme. Come documentato da Algan e Cahuc (2008), il modello dello Stato sociale attuale è stato plasmato durante la seconda guerra mondiale sotto il governo di Vichy. È interessante notare che questo modello è agli antipodi degli ideali della Rivoluzione francese proclamati durante la “Notte del 4 agosto” con la soppressione del privilegi. Non c’è da stupirsi che i suoi risultati, inoltre, producano l’effetto opposto rispetto al motto francese “Liberté, Égalité, Fraternité”. In realtà esso ha distrutto tutti e tre. Questo modello è non social-democratico, ma conservatore, con grandi  influenze dell’epoca pre-rivoluzionaria.
Mentre le social-democrazie insistono sull’uguaglianza, le nozioni di status e distinzione sono cruciali per il modello conservatore francese. La quantità e la qualità dei sussidi distribuiti dallo Stato sociale dipendono dallo status. È quindi un modello corporativo, che ricorda le corporazioni dell’Ancien Régime, con una molteplicità di regimi diversi per i diversi status e una profonda disuguaglianza in termini di sussidi ricevuti rispetto ai contributi corrisposti. Di qui il numero record di regimi pensionistici. Questo tipo di sistema genera un’opacità tra i diversi regimi e status. Dal momento che questo sistema è incardinato in uno Stato molto centralizzato e interventista, questa disuguaglianza di status genera diffidenza tra gruppi di diversi status.
Ogni gruppo difende poi i propri privilegi, a scapito di altri – e in genere in nome della “solidarietà”. Questa sistema corporativo-statutario, nel contesto di uno Stato centralizzato, è il peggior approccio al “dialogo sociale” – in effetti non ci può essere alcun dialogo pacifico e aperto quando ognuno diffida dell’altro. Nel contesto della riduzione della spesa pubblica, è quindi difficile avere un dibattito razionale su quali segmenti dell’amministrazione dovrebbero essere prioritariamente tagliati, ed è difficile costruire il consenso su questo problema. E tuttavia, la costruzione del consenso è a volte necessaria, quando devono essere attuati drammatici tagli.

Parte della spiegazione è anche nella mancanza di rappresentatività e di responsabilità da parte dei sindacati. I sindacati sono “parti sociali”, decidono il destino della maggior parte dei lavoratori  francesi per quanto riguarda non solo la regolazione del mercato del lavoro ma anche la gestione del sistema sociale di sicurezza, di cui sono in parte responsabili dietro corrispettivo. Eppure, il tasso di iscrizione è solo del 7% della forza lavoro (molto lontano dal tasso scandinavo di oltre l’80%). In virtù di questo mediocre primato, il loro finanziamento è pubblico. Essi hanno quindi un potere enorme rispetto alla loro rappresentatività reale e adoperano fondi altrui per finanziare le loro attività (invece di recuperare denaro dai servizi ai propri associati): gli incentivi vanno benissimo se si vuole un altro livello di corporativismo e lobby, ma costituiscono un ostacolo in più se si mira ad un dialogo sociale sano e trasparente.
Questa impossibilità può in parte spiegare perché il contenimento della spesa pubblica sia difficile in un tale contesto, caratterizzato da lobby. E anche quando viene concluso un accordo su qualche apparente riforma, tutto ciò avviene con costi enormi, per compensare coloro che “perdono i privilegi”. Pierre Cahuc e André Zylberberg hanno dato ampio conto di questo problema nel loro libro sulle riforme costose di Sarkozy (“Les réformes ratées de Nicolas Sarkozy”). Questo potrebbe spiegare perché il “presidente riformatore” non poteva ridurre la spesa pubblica – e in realtà l’ha aumentata.
Come ultimo ma non meno importante aspetto, la tassazione progressiva di questo stato sociale permette al 50% dei nuclei familiari di non dover pagare l’imposta sul reddito. Naturalmente, dato il livello delle imposte indirette, le stesse persone contribuiscono al bilancio della nazione, ma non “sentono la fatica” di firmare un grosso assegno alla fine dell’anno. Il collegamento tra il pagamento diretto delle tasse e la valutazione del cittadino dei servizi erogati da un’amministrazione è fondamentale per il contratto democratico tra i due soggetti. Ma la pedissequa applicazione da parte di generazioni di statisti del famoso motto di Colbert secondo cui “l’arte della tassazione consiste nello spennare l’oca in modo tale da ottenere il maggior numero possibile di piume con la quantità più ridotta possibile di starnazzi” ha alla fine generato, tra la gente esentata dal pagamento dell’imposta sul reddito, la sensazione che “altri stanno pagando”. Perché dovrebbero curarsi dell’andamento della spesa pubblica?

Decentramento alla francese
Un’altra caratteristica del panorama francese è il decentramento amministrativo, varato nel 1982. Nella sostanza, il decentramento è una buona scelta. Significa più democrazia locale, maggiore adattabilità alle esigenze locali, un’amministrazione più vicina alla gente e, si suppone, anche meglio controllata, ecc. Ma perché tutto questo diventi effettivamente realtà, deve essere soddisfatta una condizione: la responsabilità. E purtroppo questo è esattamente ciò che ai politici non piace, in quanto ostacola la costituzione del loro piccolo “regno”.
Il modo migliore per evitare la responsabilità consiste nell’aumentare la complessità all’interno dei diversi livelli di amministrazione. I francesi chiamano questi livelli con il nome di una torta: la “Millefoglie”. I governi locali: communes, la intercommunalité, il syndicat de communes, il département, la région, il governo centrale: État, e naturalmente ora l’Europa: sette livelli di amministrazione (Bramoullé 2007). Questo incremento nel numero dei livelli di amministrazione non risponde a criteri di efficienza. Quando Nicolas Sarkozy ha suggerito che forse si dovrebbe pensare alla soppressione del livello dipartimentale, i cui compiti sarebbero stati redistribuiti in parte ai comuni e in parte alle regioni, questo ha creato un “shock” nella classe politica: era stato affrontato un tabù. Potrebbe prevalere l’irrazionalità amministrativa. O meglio, abbiamo visto politici e burocrati molto razionali che non vogliono perdere il loro potere, qualunque sia il costo per la finanza pubblica. Questo episodio è una chiara dimostrazione che la politica non è al servizio della nazione.
Inoltre si scopre che, a parte funzioni molto specifiche come le scuole secondarie, il reddito minimo, i benefici per le persone anziane, ecc. ogni livello è anche competente per altre funzioni pubbliche (disoccupazione, sviluppo, cooperazione internazionale…): senza compiti chiari e limitazioni chiare ed ampie, ogni livello può impegnarsi in svariate politiche pubbliche e far crescere la spesa al proprio “ristretto livello”: se gli importi non sono cospicui a livello locale, la loro aggregazione può costituire un ampio ammontare, che fino ad oggi non è stato valutato. Soltanto gli sprechi evidenti a livello regionale sono stimati, da Colonna d’Istria e Stefanovitch, al 10% del bilancio delle regioni.
Questo tipo di decentramento incontrollato costituisce certamente una forma di rifiuto delle economie di scala e della specializzazione nella stessa amministrazione, ed è un ricettacolo di sprechi e di eccedenze di personale, rappresentando anch’esso uno spreco, anche se non “evidente” come i cocktail costosi o i viaggi costosi, i quali finiscono per essere vacanze per il personale dell’amministrazione.
La complessità nei livelli di amministrazione è aggravata dal fatto che nessuno dei livelli di governo locale gode di autonomia fiscale. Il governo centrale è in realtà il primo contribuente del loro bilancio (oltre il 50%). È quindi più facile per i governi locali spendere denaro proveniente dalle tasche “altrui”. Inoltre, il finanziamento di progetti è “incrociato”, con più fonti provenienti da diversi livelli della “Millefoglie”, il che rende difficile capire chi sia responsabile e per cosa e chiamare i politici locali a rispondere delle loro decisioni. Ad esempio, un progetto lanciato da un sindaco che vuole avvantaggiarsene per le prossime elezioni, può essere finanziato dai vari livelli dell’amministrazione: “Il nostro sindaco è stato in grado di ottenere fondi per la nostra piscina comunale” è l’unica idea che la gente si forma durante l’inaugurazione. Tranne per il fatto che questa è davvero una «finzione attraverso la quale ognuno si sforza di vivere a spese di tutti gli altri» (Frédéric Bastiat). Niente è gratis, e dal momento che tutti si comportano allo stesso modo, alla fine ognuno è tenuto a pagare. In questo tipo di sistema è impossibile ritenere un decisore pubblico responsabile, sulla base di una chiara analisi costi / benefici. E senza responsabilità, la democrazia, nazionale o locale, resta un miraggio.

Conclusioni
La Francia non è la Grecia. Ma non è uno Stato di diritto e i recenti eventi sulla possibile corruzione da parte di personaggi molto vicini al presidente, il fatto che il Presidente Chirac abbia finito per “sfuggire” al suo processo, ecc. servono a ricordarci che c’è una classe di politici che trae beneficio da regole speciali. Anche questo è tipico di una democrazia che non funziona, e si va ad aggiungere ad un Parlamento che non funziona, in quanto non svolge il suo ruolo di tutela degli interessi dei contribuenti, a una lobby di dipendenti pubblici che anch’essa beneficia di regole speciali ed è allergica alle riforme, a un modello sociale basato sul corporativismo e sull’interventismo centrale che bloccano possibili riforme verso una minore spesa e una maggiore libertà economica, a un decentramento senza responsabilità che incrementa la spesa.

*Emmanuel Martin: Atlas Economic Research Foundation. La traduzione dell’articolo è di Fulvio Costantino.