La responsabilità delle banche in Italia ai sensi del D.Lgs. 231\2001

1.    La responsabilità delle banche in Italia è disciplinata in via generale dal D.Lgs.
231/2001[1] (di seguito il Decreto) e in via speciale dal Testo Unico Bancario (TUB)[2]. Il primo prevede un modello di responsabilità amministrativa a carico degli enti[3] per reati commessi, nel loro interesse, da persone che rivestano una posizione apicale o che siano comunque subordinate al controllo dei soggetti che hanno funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria. Il TUB invece attribuisce alle autorità di supervisione (in primo luogo la Banca d’Italia) compiti riservati dal Decreto al giudice ed al pubblico ministero[4]. Il TUB prevede anche che l’azione delle autorità di supervisione possa svolgersi in tempi più rapidi o comunque indipendentemente rispetto all’attività giurisdizionale e che il giudice debba essere informato dei provvedimenti presi dalle autorità di supervisione e dell’evoluzione dell’assetto organizzativo della banca[5]. Queste deroghe parziali alla normativa generale trovano la loro fonte nel D.Lgs. 197/2004 [6] che, in attuazione della Direttiva 2001/24/CE sul risanamento degli enti creditizi, ha modificato proprio il Testo Unico bancario prevedendo nuove funzioni in capo alla Banca d’Italia. Quest’ultima, ad esempio, nella fase delle indagini può intervenire con relazioni scritte che vengono equiparate a delle consulenze di fatto[7]. È sempre la Banca d’Italia, sulla base dell’art. 70 del TUB, che può nominare uno o più commissari straordinari con il compito di gestire gli istituti di credito colpiti dalla sanzione interdittiva prevista agli artt. 9 ss. del Decreto, compito che il Decreto affida per gli altri enti al giudice. Il TUB prevede anche che l’azione delle autorità di supervisione possa svolgersi indipendentemente o comunque con tempi più rapidi rispetto all’attività giurisdizionale e che il giudice debba essere informato dei provvedimenti presi dalle autorità di supervisione e dell’evoluzione dell’assetto organizzativo della banca[8]. Ancora più ampie sono poi le eccezioni alla normativa generale nella fase dell’esecuzione dove il ruolo riconosciuto dal TUB a soggetti estranei alla giurisdizione penale viene a mutare profondamente i tratti della fase esecutiva sotto un duplice profilo. In primo luogo la normativa processuale speciale consente all’autorità amministrativa di modificare il contenuto delle sanzioni (irrogate in sede penale) le quali perdono la propria natura originaria per trasformarsi nei diversi strumenti ordinariamente predisposti per fronteggiare le varie situazioni di crisi, strumenti che non hanno necessariamente natura di sanzioni. A titolo di esempio si pensi al caso in cui all’interdizione temporanea dell’esercizio dell’attività bancaria decisa dal giudice subentri la liquidazione coatta amministrativa di cui all’art. 80 TUB, un provvedimento che conduce alla dissoluzione dell’ente. In questo caso l’autorità di supervisione ha la facoltà di incrementare l’entità della sanzione andando oltre le previsioni dell’autorità giudiziaria. Viene, in secondo luogo, sottratta al controllo del giudice la competenza a conoscere dell’esecuzione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato, prevista dall’art. 74 del Decreto, in quanto, contro i provvedimenti adottati direttamente dalla Banca d’Italia o, su sollecitazione di questa, dal Ministro dell’Economia, unico ricorso esperibile sarà quello ordinariamente ammesso per gli atti delle predette autorità. Il complesso di norme rappresentato dal Decreto risulta così incentrato intorno al ruolo di sorveglianza nel settore di raccolta e erogazione del credito svolto dalla Banca d’Italia.

2. In via generale invece, il dibattito sulla responsabilità degli enti introdotta dal Decreto ha innanzitutto coinvolto la dottrina giuridica italiana circa la natura della responsabilità. Molti studiosi ne hanno sostenuto la natura penale sulla base della presenza di elementi tipici di quest’ultima quali l’attribuzione al giudice penale della competenza a giudicare sulle violazioni del Decreto, l’applicazione del principio di legalità e la previsione della retroattività della legge più favorevole[9]. In tal senso deporrebbe anche il disposto dell’art. 8 del Decreto il quale prevede che tale responsabilità possa sussistere in capo alla persona giuridica anche quando l’autore del reato non sia identificabile o non sia imputabile. Saremmo cioè in presenza della concretizzazione in capo agli enti del principio della personalità della responsabilità penale sancito dall’art. 27 della nostra Costituzione. Secondo questa interpretazione, l’ente, nel disposto dell’art. 8 del Decreto, viene considerato un centro autonomo di imputazione della responsabilità ed equiparato così alla persona fisica[10]. Altri commentatori[11] invece sono contrari ad una piena equiparazione con la responsabilità delle persone fisiche[12] ritenendo impossibile adattare i principi base del diritto penale con la natura delle persone giuridiche. Essi richiamano in primo luogo l’art. 27 della Costituzione il cui dettato costituirebbe un ostacolo insuperabile alla previsione di forme di responsabilità penale pura per gli enti. Sullo stesso punto, vi è poi chi[13] ha parlato di “rischio di annacquamento” della norma costituzionale in tema di responsabilità[14], con inevitabile svuotamento della ratio per la quale la norma è stata formulata. Effettivamente i criteri di imputazione soggettiva ed oggettiva indicati nel Decreto, insieme alla più ampia disciplina generale, palesano il tentativo di adeguare i canoni classici della responsabilità penale dei soggetti a quella degli enti. I problemi maggiori sono ovviamente legati alla modulazione dell’elemento psicologico che nelle persone giuridiche risulta di difficile quantificazione. Ad assumere importanza è la volontà dell’impresa, intesa come l’insieme di scelte consapevoli che guidano una determinata politica aziendale, formatasi attraverso le persone fisiche che ne compongono gli organi. D’altra parte, la tendenza ad una tutela penalistica è visibile anche in quelle previsioni del Decreto che prevedono sanzioni tipiche del diritto penale e l’utilizzo di tutti i meccanismi previsti da questo genere di processo (dalla fase delle indagini passando attraverso quella del dibattimento fino a quella dell’esecuzione) con adattamenti legati solo all’esigenza di renderli compatibili con la natura della persona giuridica. Come si può verificare dalla Relazione introduttiva al Decreto, l’intera normativa è costruita avendo come punto di riferimento la persona giuridica come principale centro di imputazione della responsabilità nascente da reato.

L’estensione della responsabilità penale agli enti è giustificata dal grande rilievo delle imprese nell’ordinamento giuridico. In molti casi i danni causati dagli enti sono talmente gravi che la responsabilità nei confronti del singolo autore materiale dell’illecito non è sufficiente a garantire un livello adeguato di deterrenza. Il soggetto fisico può non essere identificabile a causa della complessità dell’organigramma societario e della frammentazione del processo decisionale aziendale. Ma anche qualora sia possibile individuare una persona fisica responsabile, la sanzione rischia di essere comunque insufficiente in proporzione al danno cagionato poiché la capacità risarcitoria del singolo spesso non è paragonabile a quella dell’ente per il quale presta il proprio servizio. La pena dunque non potrebbe avere un effetto deterrente per l’impresa che sarà incentivata a commettere ulteriori illeciti[15].
Il dibattito sulla natura penale della responsabilità degli enti ha un rilievo ulteriore rispetto alle banche, per le quali, come abbiamo visto sopra, una serie di competenze ricadono sulle autorità di supervisione di settore. Si è tentato di spiegare tale fenomeno da una parte con la celerità che l’attività di indagine di questi organismi consente rispetto all’attività giudiziaria, dall’altra con la maggiore conoscenza della materia propria delle istituzioni di controllo. Tali istituzioni sarebbero infatti in grado di fornire risposte più efficienti e concrete alle patologie dell’attività bancaria. Tuttavia, diversi studiosi contestano un tale trasferimento di competenze, osservando che l’affidamento alle autorità di supervisione di compiti normalmente in capo alla magistratura creerebbe un vulnus alle garanzie fondamentali in materia di processo penale[16]. Aver attribuito la giurisdizione al giudice penale, insieme all’aver considerato la responsabilità ai sensi del Decreto come penale, ha come conseguenza la necessaria applicazione di tutte le garanzie che questo comporta in termini di diritto di difesa e principio di legalità, garanzie che nell’operato delle autorità di supervisione non potrebbero mai essere rispettate. In altri termini, l’aspirazione ad un procedimento che sia il più rapido possibile (anche nell’interesse dello stesso ente indagato) non può andare a detrimento di quelle garanzie fondamentali espresse non solamente dalla Costituzione ma anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani.
Secondo altri autori, invece[17], il sistema vigente sembra essere in grado di commisurare le diverse necessità di celerità e tutele giurisdizionali inscrivendosi nel solco del processo penale, tenendo conto delle competenze altamente specializzate delle autorità di supervisione. Il meccanismo di accertamento di un’eventuale responsabilità a carico delle banche deve essere il risultato di un continuo dialogo tra autorità giudiziaria ed autorità di supervisione al fine di permettere alla prima di servirsi degli indispensabili strumenti informativi e conoscitivi della seconda. Il livello di competenze di cui dispongono le autorità di supervisione deve essere per gli organi giudiziari (pubblico ministero, giudice del dibattimento, giudice dell’esecuzione) un valore aggiunto per giungere all’accertamento dell’illecito.

3. In merito all’ipotesi di un reato commesso da una banca estera con operatività transfrontaliera in Italia, il Decreto non contiene alcuna specifica previsione. Al riguardo, l’ordinanza Siemens[18], prima decisione giudiziale emessa sul tema, sia pure con riferimento ad un caso non bancario, riconosce l’applicabilità della legge italiana anche ad imprese estere operanti sul nostro territorio ed anche la dottrina, nella sua quasi totalità, ha condiviso questa posizione. I giudici hanno affermato la necessità di applicare il Decreto anche agli enti esteri facendo leva in primo luogo sul principio di territorialità del diritto penale: le imprese che operano in Italia, a prescindere dal fatto che abbiano o meno nel nostro Paese la propria sede legale principale o secondaria, devono comunque rispettare gli adempimenti che l’ordinamento giuridico italiano prevede. Secondo l’ordinanza non è rinvenibile all’interno delle disposizioni del Decreto nessun articolo che possa giustificare un’esclusione a favore di enti esteri. Il tema si è riproposto nel caso specifico dell’attività bancaria. Nell’ambito del processo Parmalat, nel c.d. troncone banche, appena approdato alla sentenza di primo grado, le banche straniere sottoposte a procedimento penale ai sensi del Decreto per il reato di aggiotaggio hanno eccepito la giurisdizione del giudice penale italiano sulla base dell’impossibilità di applicare gli adempimenti previsti dal Decreto ad imprese che abbiano il proprio centro direttivo in un Paese straniero; la banca estera infatti non sarebbe in grado di rispettare le disposizioni legislative di un ordinamento diverso da quello nel quale presta i propri servizi. Anche in questo caso, però, gli organi giurisdizionali (segnatamente il Giudice per le indagini preliminari[19]) hanno respinto qualunque difetto di competenza[20]. Queste prime conclusioni della giurisprudenza circa le modalità di adattamento delle disposizioni del Decreto all’attività bancaria sono condivise dall’Associazione fra le banche estere in Italia (AIBE) nelle recenti linee guida alle associate. L’AIBE si è espressa a favore dell’applicabilità dell’intera disciplina del Decreto anche alle banche estere che operino in Italia sia attraverso una succursale sia tramite la prestazione diretta dei servizi bancari[21].
D’altra parte, in applicazione della legislazione comunitaria il TUB ha introdotto nell’ordinamento italiano il principio dell’home country control in base al quale le banche possono esercitare la loro attività in tutti gli Stati membri senza dover chiedere alcuna autorizzazione allo Stato membro in cui intendono operare. Da questo principio deriva l’armonizzazione minima delle condizioni di accesso e di esercizio dell’attività bancaria, realizzata la quale gli enti creditizi autorizzati in un Stato membro godono appunto delle libertà di stabilimento e di prestazione di servizi negli altri Stati membri della Comunità[22]. Il principio rientra nel più ampio quadro della libertà di stabilimento prevista ora dagli art. 49 e 54 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)[23]. Come abbiamo visto, secondo le prime pronunce della giurisprudenza italiana l’art. 6 del Decreto, nel disciplinare l’adozione di modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire i reati presupposti, richiede anche alle banche straniere, operanti in Italia non soltanto attraverso succursali stabilite in Italia ma anche attraverso filiali e attraverso la prestazione diretta di servizi da un altro Stato membro, l’adozione dei detti modelli. Questi adempimenti sembrano configurare un possibile contrasto con il principio della libertà di stabilimento e dell’home country control. Se la banca straniera deve rispettare gli adempimenti richiesti dal Decreto (pena l’azionarsi di una responsabilità di tipo penale), essa vede limitato il suo diritto ad essere sottoposta solo alla legge del Stato di origine. Questo tema non risulta essere stato ancora affrontato dalla giurisprudenza, italiana o comunitaria; né la dottrina sembra aver mai sollevato la questione.

4. Quanto alle banche italiane, come noto esse operano all’estero soprattutto attraverso filiali, società controllate oppure attraverso lo strumento del gruppo multinazionale. Quest’ultimo però non è preso in considerazione dal Decreto all’art. 4, che disciplina semplicemente il reato dell’ente commesso all’estero. Il Decreto infatti non consente di imputare a soggetti determinati la commissione dei reati qualora questi vengano perpetrati nell’ambito di una politica di gruppo. Inoltre i principi di garanzia propri del diritto penale non consentono un’applicazione della responsabilità oggettiva addebitando alla capogruppo qualsiasi illecito posto in essere dalle proprie controllate. A questo riguardo la dottrina[24] ritiene applicabile la nozione di gruppo prevista dal TUB e dal nostro Codice civile dopo la riforma del diritto societario del 2003 e in secondo luogo propone di applicare la fattispecie penalistica di concorso di persone nel reato e quindi considerare responsabile la società controllante per gli atti illeciti commessi dalla controllata quando la prima abbia agito a titolo di concorso con la seconda, consapevole dell’attività illecita posta in essere dalla controllata. La capogruppo deve essere quindi a conoscenza del reato posto in essere dalla propria controllata.

5. Come abbiamo visto, il rapporto tra responsabilità penale degli enti ed attività bancaria è caratterizzato dalla presenza di diverse fonti normative in alcuni casi in conflitto tra loro. Un contributo di chiarezza potrebbe arrivare dai processi attualmente in corso di svolgimento in diversi tribunali italiani ed aventi come imputati proprio importanti banche ad operatività transfrontaliera. La recente assoluzione generale emanata dal tribunale di Milano sul caso Parmalat ha già indotto autorevoli commentatori[25] a criticare il sistema italiano rispetto a quelli stranieri che, prima facie, sembrerebbero più severi sia in termini di pene edittali che di condanne effettivamente erogate. In attesa della pubblicazione delle motivazioni, si può ricordare come il Decreto sia incentrato non tanto sulla commissione di un comportamento illecito nell’interesse dell’ente ma sull’adozione di un modello organizzativo adeguato ad evitare la commissione dei reati previsti dal Decreto stesso. È la categoria di “modello idoneo” ad assumere reale importanza all’interno delle disposizioni del Decreto in quanto elemento in presenza del quale la banca può essere dichiarata esente da responsabilità penale. Questo aspetto differenzia in maniera considerevole la disciplina del Decreto rispetto a molti modelli stranieri.
La comparazione con l’ordinamento del Belgio è emblematica in questo senso. Di recente gli amministratori della banca statunitense Citigroup sono stati condannati insieme alla stessa banca dal tribunale di Bruxelles[26] per la violazione contestuale della legge 16 giugno 2006 (relativa alle offerte pubbliche ed all’ammissione di strumenti di investimento sui mercati regolamentati[27]) e del Codice belga dei consumatori. La legge belga in materia di responsabilità penale delle imprese non ruota intorno al concetto di modello organizzativo, mutuando in maniera più diretta il proprio modello di responsabilità penale da quello delle persone fisiche e ponendo dunque l’accento in primo luogo sull’elemento oggettivo e soggettivo del reato. Secondo il nostro Decreto 231, invece, Citigroup non sarebbe imputabile qualora adottasse un modello organizzativo adeguato, e il punto centrale del giudizio, come nel caso Parmalat, sarebbe la valutazione dell’adeguatezza del modello stesso[28].
Più in dettaglio, la disciplina belga della responsabilità delle banche può essere definita penale non solo perché inserita direttamente all’interno del codice penale, ma anche per la struttura che la caratterizza[29]. Per quanto riguarda l’elemento oggettivo del reato, l’art. 5 del Codice penale belga prevede che la responsabilità dell’ente sussiste qualora venga commesso un reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso. Nel nostro paese, come abbiamo visto, l’ambito di applicazione dell’elemento oggettivo è più ristretto in quanto la responsabilità dell’ente risulta impegnata quando l’illecito è commesso da un soggetto in posizione apicale o a un suo subordinato. Nella disciplina belga, a differenza di quella italiana, il criterio di imputazione oggettiva prescinde dalla qualità delle persone fisiche che commettono il fatto rimproverabile. L’art. 5 c.p. richiede tre condizioni alternative: i reati devono essere intrinsecamente legati alla realizzazione dell’oggetto o alla difesa dei suoi interessi o di quelli dei quali i fatti concreti dimostrino che sono stati commessi pour son compte. Essenziale poi è conoscere, ai fini dei criteri di imputazione, l’oggetto sociale dell’impresa stessa.
Lo stesso art. 5 del Codice penale belga prevede poi, oltre a un criterio di imputazione oggettiva, anche che il frutto della condotta della persona giuridica sia attribuibile ad una precisa scelta dell’ente stesso. La differenza con la struttura del D.Lgs. 231/2001 risulta evidente, in quanto in Italia l’elemento soggettivo si esaurisce nell’adozione di un modello idoneo.
La parte più complessa della disciplina belga della responsabilità delle persone giuridiche concerne il concorso nel reato dell’ente e della persona fisica. In tal senso il secondo comma del citato art. 5 dispone una regola ed una eccezione; da una parte, regola generale è quella della responsabilità alternativa: risponderà dell’illecito chi, tra l’ente e la persona fisica, abbia commesso la c.d. faute più grave; dall’altra parte l’eccezione è rappresentata dal cumulo delle responsabilità (della persona giuridica e fisica), qualora quest’ultima abbia commesso il reato con consapevolezza e volontà. Occorre sottolineare come secondo certa dottrina[30] proprio questa parte della disposizione esiga la precisa identificazione della persona fisica affinché scatti la responsabilità dell’ente. Da questo punto di vista, la norma belga è meno chiara di quanto non lo sia quella italiana che all’art. 8 del D.Lgs. 231/2001 prevede che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile. La prima parte del secondo comma dell’art. 5 c.p. enuclea la regola per la quale qualora la responsabilità della persona giuridica dipenda esclusivamente dall’intervento di una persona fisica identificata, solo la persona che ha commesso il fatto più grave può essere condannata. In dottrina il meccanismo della responsabilità alternativa è considerato come una cause d’excuse absolutoire, poiché consente alla persona di non essere sottoposta in concreto alla pena per un fatto comunque considerato illecito sotto il profilo penale[31]. Perché possa concretarsi il c.d. décumul, debbono verificarsi due condizioni, da una parte vi deve essere identità tra il reato colposo commesso dalla persona fisica e quello dell’ente, mentre dall’altra, l’intervento deve essere messo in opera esclusivamente da una persona fisica determinata. I dubbi interpretativi si sono mossi principalmente sulla nozione di intervention della persona fisica. In linea di massima si ritiene che l’intervento in questione consista nell’atto materiale commissivo o omissivo della persona fisica, intervento che sia causalmente legato agli eventi contestati[32]. Il testo della norma sembra oscillare tra un’ottica antropomorfa per cui è possibile concepire un intervento esclusivo dell’ente, ed una invece derivata, per la quale è comunque sempre necessario passare attraverso un atto di una persona fisica.

L’interpretazione del secondo comma dell’art. 5 inoltre pone anche altre due questioni: chiedersi se sia possibile concepire un reato senza intervento della persona giuridica e domandarsi quale sia la disciplina applicabile nel caso di intervento di più persone fisiche individuate. La prima ipotesi è generalmente individuata nel concetto di “cultura di impresa” in base alla quale, come espresso nella Relazione Ministeriale[33], non è possibile l’identificazione della persona fisica intervenuta. La seconda ipotesi invece attiene alla situazione nella quale l’illecito sia stato commesso da più persone, circostanza che comunque pare essere esclusa dal dettato della norma. Si è già detto che, qualora il reato sia stato commesso esclusivamente da una persona fisica, deve essere punita solo quella che ha commesso il “fatto più grave”. Resta da capire cosa si intenda per fatto più grave.
L’analisi comparata delle due diverse normative dimostra che, a differenza della legge belga, la disciplina italiana ruota intorno al concetto di modello organizzativo idoneo alla prevenzione dell’illecito, la corretta elaborazione ed osservanza del quale consente all’impresa di non impegnare la responsabilità prevista dal Decreto; non vi è dunque una trasposizione precisa della struttura della responsabilità penale delle persone fisiche. Il Belgio invece non conosce l’esperienza dei modelli organizzativi[34] e si caratterizza per la scelta, operata nell’art. 5 c.p., di modulare più strettamente agli enti la struttura tipica dell’illecito penale delle persone fisiche[35]. Viceversa, su un aspetto il nostro Decreto ha senza dubbio una portata maggiore: nell’ordinamento belga non esiste nulla di simile all’art. 8 del Decreto il quale prevede la possibilità che l’ente sia responsabile anche se l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile. Anzi, l’ordinamento belga si pone agli antipodi di una tale concezione, prevedendo in maniera specifica la necessaria identificabilità del soggetto che commette l’illecito nell’interesse o a vantaggio della società. Va dunque registrata, da questo punto di vista, una portata maggiore della norma italiana[36].
I recenti casi giurisprudenziali in Belgio, oltre a rappresentare un caso di applicazione concreta della disciplina della responsabilità delle persone giuridiche a norma dell’art. 5 del Codice penale, hanno inoltre messo in luce un’altra importante tendenza, quella al trasferimento di competenze alle autorità di supervisione. Lo svolgimento del processo a carico di Citibank in Belgio, ad esempio, ha mostrato che l’intervento dell’autorità di supervisione (la CBFA[37] si è rivelato fondamentale sia nella fase delle indagini sia in quella del dibattimento vero e proprio. Va infatti segnalato che è stato proprio sulla scorta di un’indagine della CFBA sull’attività di Citibank che ha avuto origine l’inchiesta penale della magistratura belga. La sentenza di primo grado del Tribunale di Bruxelles a carico di Citibank e di alcuni suoi dirigenti prende in considerazione un’attività commissiva posta in essere da un istituto di credito attraverso soggetti facenti parte del vertice dell’organigramma societario. La condotta posta in essere dalla banca belga ha rappresentato il frutto di una vera e propria politica societaria finalizzata, rispetto ai fatti contestati, alla commissione di azioni illecite in violazione delle norme sulla tutela e sul corretto funzionamento del mercato del credito soprattutto in danno ai risparmiatori che avevano acquistato obbligazioni garantite da Citibank. Dalla sentenza citata emerge con chiarezza il ruolo decisivo svolto dall’autorità di supervisione belga nell’accertare le violazioni alle norme in materia di corretto funzionamento del mercato del credito. La CBFA attraverso relazioni ed interventi, anche in sede processuale, ha fornito un importante aiuto all’attività svolta dal tribunale nell’accertamento degli illeciti contestati.

6. In conclusione, anche alla luce del confronto con la legislazione belga, e visto il ruolo decisivo svolto dall’idoneità del modello organizzativo in Italia, la valutazione delle caratteristiche della responsabilità degli enti e delle banche in Italia dipende dal modo in cui la nostra giurisprudenza di legittimità interpreterà il concetto di idoneità del modello. I criteri che individuerà la Corte di Cassazione saranno decisivi per potenziare oppure ridurre sensibilmente la portata del Decreto anche nei confronti dell’attività delle banche. Se la giurisprudenza farà prevalere un’interpretazione restrittiva del concetto di idoneità del modello, non solo sarà ridimensionata la portata applicativa del Decreto stesso ma il profilo della volontarietà delle condotte dell’ente diventerà secondario rispetto al concetto di idoneità che invece assumerebbe il ruolo principale. Una tale interpretazione allontanerebbe la responsabilità prevista dal D.Lgs. 231/2001 da una natura di tipo penale. Al contrario, se la Corte dovesse individuare dei criteri interpretativi più ampi per l’idoneità del modello, il Decreto si configurerebbe allora come il veicolo dell’estensione della responsabilità penale alle persone giuridiche in un’ampia gamma di fattispecie, vale a dire in tutti quei casi in cui un atto illecito sia stato commesso nell’interesse dell’ente anche a prescindere dall’individuazione e dall’imputabilità della persona fisica che ha agito per conto di esso.

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Note

1.  Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 140 del 19 giugno 2001.

2.  Decreto Legislativo 1 settembre 1993, n. 385 e successive modifiche e integrazioni.

3.  Ai sensi dell’art. 1 le disposizioni del D.Lgs. 231/2001 si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica. Non si applicano invece allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

4.  Queste deroghe parziali alla normativa generale trovano la loro fonte nel D.Lgs. 197/2004 che, in attuazione della Direttiva 2001/24/CE sul risanamento degli enti creditizi, ha modificato proprio il Testo Unico bancario prevedendo nuove funzioni in capo alla Banca d’Italia, funzioni che coprono l’intero spettro del processo penale, dalla fase delle indagini preliminari (quindi del procedimento) passando per quella del giudizio vera e propria, fino all’esecuzione della pena.

5.  V. art. 68 e 69 TUB.

6.  Decreto Legislativo 9 luglio 2004, n. 197, “Attuazione della direttiva 2001/24/CE in materia di risanamento e liquidazione degli enti creditizi“, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 82 del 5 agosto 2004.

7.  Così dispone l’art. 97-bis TUB.

8.  V. art. 68 e 69 TUB.

9.  Così T. Padovani, Diritto Penale, Milano, pg. 86.

10.  V. O. Di Giovine, in Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in AA. VV. (a cura di G. Lattanzi), Reati e responsabilità degli enti. Guida al D. Lgs. 231/2001, Milano, 2008, pg. 123-132.

11.  V. ancora O. Di Giovine la quale ha parlato di un sistema geneticamente modificato che il legislatore avrebbe sperimentato con questo decreto, in op. cit., Milano, 2008, pg. 15-16.

12.  V. G. De Vero, il quale ha ipotizzato la nascita di un terzo binario in cui le sanzioni per gli enti si accosterebbero alle pene in senso proprio ed alle misure di sicurezza. G. De Vero, Riflessioni sulla natura giuridica della responsabilità punitiva degli enti collettivi, in AA.VV. (a cura di G. De Francesco), La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia “punitiva”, Torino, 2004, pg. 89 ss.

13.  Sul punto v. F. Bricola, Il costo del principio “Societas delinquere non potest” nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in (a cura di S. Canestrari e A. Melchionda) Scritti di diritto penale, Milano, 1997, pg. 2981ss.

14.  V. A. Alessandri, il quale anche dopo l’emanazione del D. Lgs. 231/2001 ha continuato a nutrire perplessità riguardo all’opportunità di una responsabilità penale pura, per la difficoltà di riconoscere nei confronti degli enti la funzione rieducativa della pena, Art. 27, in Commentario alla Costituzione, (a cura di G. Branca), Bologna, 1975, pg. 404 ss.

15.  Sul punto v. G. Becker, Crime and punishment: an economic approach, Journal of Political Economy, 1968, pg 169-217.

16.  Sul punto v. C. Piergallini, L’apparato sanzionatorio, in AAVV. (a cura di G. Lattanzi), Reati e responsabilità degli enti. Giuda al d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231, Giuffrè, 2008 e A. Presutti, Art. 45, in A. Presutti, A. Bernasconi, C. Florio, La responsabilità degli enti. Commento articolo per articolo al d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231, Padova 2008.

17.  Vedi ad es. A. Bernasconi, op. cit., 2009.

18.  Tribunale Ordinario di Milano, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, Ordinanza di applicazione di misura interdittiva N. 2460/03.

19.  V. Ordinanza, Tribunale di Milano, Giudice per le indagini preliminari, Dr. C. Tacconi, 13 giugno 2007.

20.  Il caso Parmalat rileva sotto un ulteriore profilo: la difesa ha eccepito la giurisdizione del giudice italiano partendo dalle posizioni già contestate nel caso Siemens ma adattandole al caso specifico di enti che svolgono un’attività di raccolta e gestione del credito. Ad essere chiamato in causa è stato il TUB, in particolare l’art. 97-bis il quale prevede alcuni adempimenti che il Pubblico ministero deve effettuare quando ad essere iscritta nel registro delle notizie di reato per un illecito di cui al Decreto sia una banca. Si tratta di obblighi informativi che il Procuratore della Repubblica deve richiedere direttamente alle autorità di supervisione competenti (CONSOB e Banca d’Italia). L’ultimo comma di tale disposizione stabilisce che questi adempimenti trovano applicazione nel caso di banche estere solo se queste in Italia abbiano una succursale. Sarebbero così esclusi così gli enti creditizi che in Italia operino senza l’utilizzo di succursali. Il giudice ha però respinto questa esclusione stabilendo che, nel caso di banche estere non aventi la propria succursale in Italia, non sarà applicabile solo il dettato dell’art. 97-bis del TUB e non l’intero D. Lgs. 231/2001, proprio perché non vi è disposizione del Testo Unico Bancario che autorizzi una tale esclusione. In altri termini, l’art. 97-bis, nell’escludere dagli adempimenti previsti le banche estere che operino senza l’utilizzo di una succursale in Italia, si riferisce, secondo la giurisprudenza, ad un solo articolo del TUB senza riferirsi all’intero Decreto. Nulla autorizza ad estendere l’eccezione stabilita dall’art. 97-bis all’intera disciplina in materia di responsabilità amministrativa nascente da reato. Si segnala sul punto la posizione di E. Fusco, Applicabilità del D. Lgs. 231/2001 alle banche estere, disponibile in: <http://www.rivista231.it/Legge231/Pagina.asp?Id=585>.

21.  Sul punto v. AIBE, Linee Guida dell’Associazione fra le banche estere in Italia per l’adozione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, ai sensi del D. Lg. 231/2001, 2010.

22.  V. R. Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 2007, pg. 370-376.

23.  Per un quadro aggiornato sulla libertà di stabilimento si rimanda a P. Santella, Prospettive del diritto societario europeo, in Rivista di diritto societario, n. 4, 2010, pg. 770 ss..

24.  Per un’analisi completa ed esauriente sul tema si rinvia a E. Scaroina, Il problema del gruppo di imprese. Societas delinquere potest, Milano, 2006.

25.  Sul punto si rinvia alle considerazioni espressa da M. Onado, in Solo in Italia le banche la fanno sempre franca, Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2011.

26.  V. Tribunal de Premier Instance de Bruxelles, 1 dicembre 2010, Parquet: N° 61.97.8129-08, N° 61.99.3356-09, N° 61.99.3365-09.

27.  La Legge 16 giugno 2006 rappresenta il recepimento della Direttiva 2003/71/CE avente tra i suoi obiettivi principali quello di garantire agli emittenti un ampio accesso ai mercati finanziari e contestualmente di proteggere gli investitori attraverso un costante flusso di informazioni complete ed affidabili dirette proprio agli investitori affinché questi possano compiere scelte consapevoli.

28.  Peraltro, nel caso Parmalat l’assoluzione pronunciata dal Tribunale di Milano nei confronti sia dei dirigenti che delle banche estere sembra sia stata pronunciata nel merito (perché il fatto non sussiste). Nel caso specifico i giudici potrebbero non aver avuto bisogno di effettuare alcuna valutazione circa l’idoneità del modello organizzativo.

29.  L’art. 5 del c.p. belga prevede altresì che, qualora ad impegnare la responsabilità della persona giuridica sia una persona fisica identificata, questa possa rispondere insieme all’ente solo se ha commesso l’illecito con piena coscienza e volontà (“sciemment et volontairement”). L’incriminazione contestuale in capo all’ente ed alla persona fisica è possibile solo se la seconda abbia commesso gli illeciti contestati con piena consapevolezza. In caso contrario ad essere responsabile sarà solo l’impresa. Per un’analisi sul tema si consiglia anche E. Pavanello, La responsabilità penale delle persone giuridiche di diritto pubblico. Societas delinquere potest, Padova, 2009, pg. 171-194.

30.  Così . B. Gervasoni, La loi du 4 mai 1999 instaurant la responsabilité pénale des personnes morales : incidences en droit de l’environnement , in Aménagement-Environnement, n. 3, 2001, pg. 211-212.

31.  V. F. Kefer, Deux résponse au sujet de la responabilité pénal des personnes morales, in Rev. Droit. Pén. Crim., 2004, pg. 949.

32.  V. P. Hamer-S. Romaniello, op. cit., pg. 23.

33.  Rapport de Commission de la Justice de la Chambre, Doc. Parl., Camera, sess. Ord. 1998-1999, n. 2093/5. pg. 21.

34.  Fatta eccezione per alcuni documenti di indirizzo pubblicati dall’Autorità belga di vigilanza bancaria (Commission Bancaire, Financière et des Assurance) che raccomandano agli istituti di raccolta e gestione del credito l’adozione di meccanismi di controllo interno finalizzati alla prevenzione dei reati tipici dell’attività bancaria. Il loro contenuto ricorda in molti punti quello dei modelli organizzativi ma risulta difficile un’ulteriore equiparazione soprattutto perché si tratta di adempimenti previsti da una Circolare e dunque frutto di una fonte di rango secondario, subordinata alla legge. V. Circulaire CBFA PPB-2007-6-CPB-CPA relative aux attentes prudentielles de la CBFA en matière de bonne gouvernance des établissements financiers.

35.  Per un esame completo del meccanismo del cumulo delle responsabilità e sull’art. 5 del Codice penale belga in genere vedi A. Masset, La responsabilité pénal dans l’entreprise, in Guide Juridique de l’entreprise, éditions juridiques Belgique, 2001.

36.  La giurisprudenza di legittimità belga ha inoltre ribadito la necessità di adattare la generale disciplina della responsabilità degli enti all’attività bancaria, confermando anche in questo Paese le specificità degli enti creditizi. In particolare v. Cass., 12 giugno 2007, N° P.07.0246.N.

37.  http://www.cbfa.be/eng/links/li.asp