Per il centenario della nascita del dott. Baffi

Relazione al Convegno “Studi sulla moneta e Nuovi studi sulla moneta” organizzato in occasione del centenario della nascita di Paolo Baffi
Teoria, statistica, storia: sono – è a tutti noto, ma sempre vale ricordarlo – le tre dimensioni del sapere che, secondo Schumpeter, l’economista di qualità deve padroneggiare. L’imperativo schumpeteriano è riferito ai padri fondatori della scienza economica e agli innovatori – non moltissimi, in verità – che l’hanno fatta davvero progredire nei paradigmi analitici e nei teoremi basilari. Ma quello stesso imperativo si estende a coloro – come i banchieri centrali – su cui ricade la pesante responsabilità di assumere decisioni non differibili di politica economica, decisioni che toccano gli interessi di tutti.
Specie nel governo della moneta e della finanza, non può esservi iato fra buona prassi e consapevolezza analitica. Fu Henry Thornton, banchiere, a chiarire nel 1802 i limiti del quantitativismo monetario di Adam Smith e del suo stesso amico David Ricardo, anch’egli un cosiddetto “pratico”. Così, non inscriverei Keynes fra gli economisti accademici, allorché nel 1936 propose una teoria della moneta più generale di quelle di Marshall, Fisher, Hayek.
Fra i policy makers che io ho avuto l’opportunità di conoscere, e segnatamente tra i massimi dirigenti delle banche centrali, il dottor Baffi spicca, quanto a padronanza di teoria, statistica, storia. Credo di poter affermare che questo giudizio, nutrito di stima, di ammirazione, era condiviso dagli economisti che ebbero la ventura di essere suoi collaboratori nel Servizio Studi della Banca d’Italia. Guardavamo al dottor Baffi come a un economista di alta qualità.
Analitico nel delibare la questione, il Governatore Baffi era proprio per questo sicuro di sé, a decisione presa. Lo era proprio perché la sua decisione si alimentava di teoria, di statistica, di storia. Talvolta si contrappone un Guido Carli “politico”, privo di dubbio, a un Paolo Baffi “studioso”, rispettoso del dubbio. Credo che i due illustri Governatori si sentirebbero entrambi dimidiati. Avevano, fra l’altro, condiviso per tre lustri il Direttorio della Banca d’Italia, con reciproca osmosi di esperienze e di stili.
Che il dottor Baffi compendiasse la triade di Schumpeter risulta chiaro dai suoi studi sulla moneta, opportunamente ripubblicati. La centralità e la finezza della sua analisi empirica, quantitativa, econometrica sono state ampiamente illustrate da Mario Sarcinelli. Per il concreto agire di un banchiere centrale la dimensione detta da Schumpeter “statistica” è più che doverosa. Non meno evidente in questi scritti è la dimensione di teoria economica, monetaria e non monetaria. Per convincersene basti scorrere, nell’ordine alfabetico, la lista degli autori citati nell’indice dei nomi, in fondo al secondo dei due volumi. Bohm Bawerk, Fisher, Harrod, Hawtrey, Hayek, Hicks, Keynes, Knight, Myrdal, Robertson, Sraffa, Wicksell ricorrono con una frequenza rara negli scritti e nelle memorie dei governatori di banche centrali. E il riferimento ai massimi teorici della economia politica è nei saggi del dottor Baffi parte integrante, necessaria, ai fini dell’analisi delle questioni di politica economica oggetto della trattazione.
Spendo qualche parola in più per la terza dimensione, la dimensione storica. È forse la dimensione meno ovvia in un banchiere centrale, specie se si pensa alla storia come a mera erudizione. È vero il contrario: il decisore privo di senso storico – quindi privo di senso autenticamente politico – può fare disastri.
Ora posso dirlo, dall’esterno. L’attenzione per la storia – non solo per la storia economica – è un positivo tratto che caratterizza la Banca d’Italia come istituzione. In larga misura ciò è merito del dottor Baffi. Rievoco un piccolo episodio. Ero da poco in Via Nazionale e mi chiedevo dove fossi capitato. Per capirlo – prendendola un po’ alla lontana, come è giusto fare – studiavo Stringher, 1900-1913. Il responsabile del Servizio Studi era il dottor Ciampi, che severamente e opportunamente ci richiamava ai nostri doveri quotidiani, strettamente operativi. Quindi nel settore monetario del Servizio Studi dei primi anni Settanta, Fazio all’econometria, Cotula ai conti finanziari, Savona ai titoli, Padoa Schioppa alle banche, il sottoscritto alla cosiddetta base monetaria: efficiente divisione del lavoro, di una buona squadra. Non sembrava esservi spazio per divagazioni storiche. L’allora Direttore generale Baffi lesse tuttavia il mio saggetto su Stringher e convocò il dottor Ciampi e me nel suo studio. Il Capo del servizio temeva una rampogna, il mio scritto non riguardando la base monetaria del mese in corso. Nondimeno, pur richiamandomi all’ordine, mi rassicurò: mi avrebbe comunque giustificato di fronte ai rilievi del Direttore generale. Non fu necessario. Il dottor Baffi apprezzò le pagine su Stringher. Ci spiegò che la storia economica è, oltre che interessante, preziosa ai fini della politica monetaria corrente.
Nei Nuovi studi sulla moneta è contenuto almeno un saggio di stretta storia economica, sulla lira innalzata a “quota 90” nel 1926-27. Nei due volumi vi sono molte pagine sui costi e i benefici dei diversi regimi di cambio. Dell’esperienza di “quota 90” interessò il dottor Baffi il tragico errore che può commettersi allorché, pur essendo acconcia la scelta del regime, si sbaglia il livello del cambio. Dopo una magistrale disamina tecnica della vicenda, il saggio si conclude con queste parole, di formidabile sintesi, stile Baffi: “ Mussolini aveva nella rivalutazione della lira una buona causa, che trovava consensi: con ampiezza di mezzi, la coltivò oltre il punto nel quale essa cessava di essere tale”. Negli anni successivi ho approfondito, anche sulla base di nuovi dati e notizie, “quota 90”. La lira andava rivalutata, per far affluire capitali in grado di compensare un disavanzo di parte corrente che la restrizione della domanda interna e il deprezzamento del cambio non erano in grado di correggere a causa della ormai raggiunta rigidità verso il basso dei salari reali. Ma rivalutare – per ragioni di prestigio e politiche – da 150 a 90 lire per sterlina fu smodato. Nonostante la deflazione di salari nominali e prezzi, il cambio “reale” si apprezzò del 30 per cento fra il 1925 e il 1935. Gli industriali chiesero al regime compensazioni per la decurtazione di competitività e di profitti subìta. Le compensazioni vennero concesse, con tanta larghezza da spegnere lo stimolo alla ricerca dell’efficienza e dell’innovazione da parte delle imprese. I profitti “facili” contribuirono a far scendere a zero il contributo del progresso tecnico alla crescita del Pil nel periodo fascista. Qualcosa di analogo è avvenuto, mutatis mutandis, nel 1992-2008, fino alla stranezza di una produttività totale dei fattori negativa. Va ricordato che Baffi scriveva su “quota 90” e i suoi guasti in anni in cui si cercava di incantare serpenti valutari e si cominciava a discutere di irrigidimento dei cambi e di moneta unica in Europa.
I due volumi precedono l’esperienza di Baffi quale Governatore, nel 1975-79. Come Carli prima di lui, in politica monetaria il problema che egli dovette fronteggiare fu l’inflazione, al 23 per cento l’anno nel febbraio del 1977. Come Carli nel 1974, Baffi contrastò l’inflazione con restrizioni creditizie che la dimezzarono, ma che egli attenuò prima di averla estirpata. Decisiva, in entrambi i casi, fu una considerazione politica, cioè d’ordine storico. I due governatori, sulla scorta della storia d’Italia, erano consapevoli che stroncare l’inflazione con la sola politica monetaria avrebbe esacerbato la disoccupazione, con il rischio di far saltare un equilibrio sociale precario, minacciato financo dalla lotta armata contro il sistema. Carli, già nel 1971, aveva evocato esplicitamente “considerazioni attinenti all’ordine pubblico generale”. Baffi, con parole che precedettero di poche righe il riferimento commosso al Presidente Moro, il 31 maggio del 1978 affermò che “offrire possibilità durature di lavoro a questa ingente massa di disoccupati è il traguardo nei confronti del quale ogni altro obiettivo diviene strumento”. Giusto? Sbagliato? Voglio solo sottolineare che la questione non è tecnica – non è quasi mai solo tecnica – ma storico-politica. James Tobin diceva che nulla è più politico della moneta…
Concludo esprimendo gratitudine all’Associazione Carli e a Paolo Savona. Modo migliore del ristampare i suoi scritti non v’era, per ricordare Paolo Baffi: uomo d’azione e quindi di pensiero, ancor oggi un esempio per chi lo ha conosciuto, per tutti noi.

Evento collegato
Paolo Baffi, incontro di studio, 13 giugno 2011