Un moderno oracolo di Delfi per i beni culturali: tempo di bilanci

I paesi maggiormente all’avanguardia in materia di erogazioni liberali destinate a istituzioni museali sono senza alcun dubbio i paesi di cultura anglosassone, primi fra tutti Regno Unito e Stati Uniti. Qui le donazioni contano molto e consentono ai musei di realizzare al meglio la loro missione. Ma in che modo? In Inghilterra, se il museo appartiene alla Charities Aid Foundation, per i donatori è vigente un regime fiscale agevolato, esteso anche a elargizioni effettuate attraverso titoli o azioni. Inoltre è possibile donare oggetti o tutto quanto possa contribuire alle attività e alle iniziative dei musei, da opere d’arte fino a materiali per i servizi. Il museo, a sua volta, si fa carico di rendere trasparenti la destinazione del contributo privato e i vantaggi che ne derivano. A supporto della sensibilizzazione del pubblico si lanciano vere e proprie campagne pubblicitarie con messaggi del tipo: “Una donazione di 100 sterline rende possibile l’accesso libero ai piani della collezione a 2500 visitatori”. Donazioni che possono essere effettuate sul sito web del museo attraverso carta di credito o assegno, oppure attraverso una procedura messa a disposizione del visitatore all’ingresso.
I risultati sono brillanti. Nel caso di Musei come la National Gallery, i proventi dei privati costituiscono una risorsa insostituibile. Molte attività, soprattutto quelle espositive, sono rese possibili grazie all’apporto del corporate sector, dei trust, delle fondazioni private e di singoli individui. Soltanto nel periodo 2006-2007 la media annuale delle entrate si è attestata sui 14.7 milioni di sterline e le donazioni ricevute durante l’anno, escluse quelle relative alla capitalizzazione da acquisizione di opere, hanno raggiunto nel 2006-2007 i 5.4 milioni di sterline. Stesso discorso nel caso della Tate Gallery: per la vita e il mantenimento del museo è rilevatne l’apporto del privato attraverso lo strumento delle erogazioni liberali.
Negli Stati Uniti il Metropolitan Museum conta su una rete di 66 grandi donatori che versano annualmente più di 5 milioni di dollari. A ciò si aggiungano i contributi di circa 135000 “piccoli” donatori che arrivano a versare fino a un massimo di 500 dollari pro capite e che contribuiscono per il 69.5% al fondo donazioni del museo. Anche a Chicago un museo importante per la conservazione e valorizzazione di collezioni naturalistiche e antropologiche come il Field Museum gode di sottoscrizioni superiori ai 10 milioni di dollari. Fatto sta che in un contesto in cui le fondazioni filantropiche (Ford, Rockfeller, Carnegie, etc.) sono uno strumento di redistribuzione privata, l’identità personale si plasma attraverso sia la proprietà, sia attraverso le cose di cui ci si priva. Il dono è espressione della proprietà, non equivale a dissipare, anzi la proprietà non può essere piena senza la potestà di concederla. Probabilmente anche per la mancanza di un passato feudale gli americani sono stati eccezionalmente liberi di fare quello che volevano del loro denaro. La famiglia ha avuto meno importanza che in Europa e la ricchezza si è sottratta più facilmente al controllo esercitato entro le mura domestiche. Nel 1848 John Stuart Mill citando i “Travels in North America” di Charles Lyell così elogiava questo aspetto del modo di vivere americano:
Non solo è frequente che i ricchi capitalisti lascino una parte della loro fortuna in dotazione di istituzioni nazionali, ma le persone donano anche in vita generose somme di denaro per gli stessi scopi. Qui non ci sono né una legge che obblighi all’uguale ripartizione della proprietà fra i figli, come in Francia, né d’altra parte il costume del maggiorasco o primogenitura, come in Inghilterra, cosicché i ricchi si sentono liberi di dividere le loro sostanze fra i propri parenti e la comunità [1].
Sono quindi i fattori istituzionali in primis che incoraggiano o scoraggiano i comportamenti cosiddetti pro-sociali e in particolare, disincentivano o incentivano l’agire diverso da quello guidato da interesse monetario puro e da incentivi di prezzo. La logica del dono non ha corso se viene ostacolata da sistemi di regole che ne condizionano negativamente lo svolgimento. Il riferimento implicito di Stuart Mill era infatti a quegli istituti del Codice Napoleonico orientati fortemente verso la limitazione della potestà di testare dei singoli proprietari. Il Codice stabiliva infatti che il diritto di elargire denaro a estranei o parenti non direttamente discendenti fosse strettamente circoscritto. Si fissò così una riserva o percentuale delle proprietà complessive che non poteva essere regalata ma doveva passare ab intestato. Percentuale che variava secondo il numero e il tipo degli eredi viventi: metà della proprietà se non vi erano figli, tre quarti se i figli erano meno di quattro, quattro quinti se erano quattro e così via. Nel caso in cui le somme stabilite non fossero state disponibili, i doni testamentari erano cancellati e quelli inter vivos ridotti o restituiti.
Complessivamente a livello internazionale circa il 10% dei flussi di filantropia privata va alla cultura. In Italia, paese nel quale le risorse economiche per sostenere e sviluppare il patrimonio artistico e culturale sono limitate, appare decisivo puntare al contributo spontaneo dei privati per fa sì che donare non continui a rimanere una scelta residuale, venendo dopo altri settori come le organizzazioni religiose, la salute, l’istruzione e i servizi sociali. Nel mercato della beneficienza i donatori sembrano indirizzarsi maggiormente verso i settori che riguardano i bisogni personali fondamentali, piuttosto che alla produzione di beni collettivi come le arti e la conservazione dei beni culturali.

A partire dalla legge Ronchey del 14 gennaio 1993 si sono susseguiti vari interventi legislativi con i quali si è cercato di incentivare il ruolo del privato nello svolgimento di compiti che il pubblico avrebbe svolto in maniera più onerosa. Nel 2000 con l’articolo 38 della legge n. 342 che integra l’articolo 100 comma 2 del d.p.r. 917/86 del TUIR, è stata fissata in maniera più organica una normativa di riferimento. In seguito, con il D.M. del 3 ottobre 2002 e il D.M. del 15 novembre 2002 è stata ampliata la categoria dei beneficiari e si è stabilito che i soggetti destinatari di erogazioni liberali non devono perseguire fini di lucro oltre a tutta una serie di prescrizioni. Si è così arrivati all’attivazione di un processo di avvicinamento e coinvolgimento del privato che tra il 2001 e il 2008 ha portato le erogazioni rivolte verso il settore “Spettacolo” e “Beni culturali” a crescere da € 16.063.602 a € 31.646.293.
Ma due sono le principali criticità sottese a questi dati, seppure incoraggianti. In primo luogo segnalano quanto sia indifferibile la semplificazione e l’ampliamento dello strumento fiscale. Mentre all’estero, in USA soprattutto, l’80.6% delle donazioni è erogato dalle persone fisiche, in Italia la situazione è completamente rovesciata.
In secondo luogo i dati relativi alla crescita delle erogazioni liberali mettono ancora una volta in evidenza gli effetti e la tangibilità di una “base antropologica” alternativa al paradigma del mero homo oeconomicus su cui è possibile lavorare. Esiste cioè un potenziale di disponibilità a donare fortemente sottoutilizzato. Se gli incentivi fiscali agiscono per ridurre il costo opportunità dell’elargizione e sono utili per promuovere l’iniziativa volontaria a sostegno della cultura, le compensazioni monetarie non sono esenti da effetti perversi e dovrebbero essere integrate da altre forme di remunerazione in grado di agire a livello di motivazioni intrinseche. In base a una indagine promossa nel 2009 dall’Associazione Civita, dal Comitato tecnico-scientifico per l’economia della cultura e dall’Ufficio studi del Ministero per i beni e le attività culturali è emerso infatti che un italiano su tre del campione intervistato, si dichiara disponibile a donare in favore dei musei. Sempre secondo questa indagine, attraverso l’introduzione di meccanismi atti a stimolare manifestazioni di altruismo fondate sull’interesse personale e atte a rafforzare positivamente la propria reputazione, il 20% del degli intervistati incrementerebbe la propria donazione ipotetica base di 34 euro di oltre il 66% portandola a 118 euro.
Certamente la fattispecie del dono soggetto a incentivi fiscali opererebbe una sorta di quadratura del cerchio. Si salverebbe sia l’impostazione del bene scambiato secondo la logica mercantile del cash nexus, sia la visione di una società retta da logiche non strettamente economiche, interna a quelle economie fondate su reciprocità e redistribuzione che Polanyi definisce “embedded”, ossia incorporate nella sfera dei processi e dei legami comunitari. Il guadagno, il ritorno, esisterebbero nella veste di tax expenditure fatta salva la componente elargitoria del dono. Si tratta di un caso di “scambio culturale” difforme, sghembo rispetto alla definizione standard di “scambio di doni” vista in termini di contrapposizione allo “scambio strumentale” nel quale ciascuna parte si propone di ottenere qualcosa di più utile di ciò con cui ha iniziato l’interazione. Secondo Mark Blaug gli “scambi sociali” rappresentano una categoria esclusa dalle modalità dello scambio economico. Viceversa, nella fattispecie della concessione di sgravi fiscali sia a privati sia a imprese come premio per l’elargizione di contributi e donazioni si apre uno scenario in cui si coniugano altruismo e remunerazione con una legislazione ad hoc che fungerebbe in sostanza da sprone al donare. Tuttavia non vi è la certezza assoluta che un sistema di agevolazioni fiscali da solo possa indirizzare efficacemente verso la cultura flussi consistenti di elargizioni. Ѐ cioè opportuno puntare a una migliore efficacia operativa degli incentivi fiscali, senza dimenticare però che lo sviluppo della cultura civica è stato storicamente la principale spinta alle donazioni. In epoca feudale, per esempio, la logica del dono si radica profondamente nei comportamenti del signore perché corrisponde perfettamente al valore simbolico della ostentazione del lusso. Successivamente, dal XII secolo in poi molti, scambi di opere d’arte non passano per il mercato, ma si ancorano ai meccanismi giuridici dei lasciti ereditari e delle donazioni. Naturalmente in parallelo si delineano anche altre dinamiche. Come la volontà di rendere accessibile a tutti l’opera d’arte sottraendola alla proprietà privata e all’allocazione di mercato per consegnarla al mondo della proprietà pubblica. Di nuovo però sono le ragioni reputazionali a sviluppare l’idea del dono che contribuisce al patrimonio culturale nazionale, inteso come bene collettivo.
Calati nella dimensione di un tempo ancor più profondo tali profili istituzionali rimandano all’oracolo di Delfi che nella Grecia del VII e del VI secolo a. C. spronava l’aristocrazia a investire ricchezza in modo tale che essa tornasse utile per la comunità. Per esempio fondando templi ed edifici pubblici, così come finanziando attività artistiche in senso lato, vigente un sistema fiscale che non prevedeva, se non in via eccezionale, imposte gravose e che così facendo contribuiva alla coesione sociale e alla fioritura culturale della città. Parte dello splendore di Atene dipese da queste sovvenzioni volontarie o leitourgiai. Era infatti fonte di onore assumersi l’onere di sovvenzionare l’allestimento dei cori, le manifestazioni teatrali fino alla manutenzione della flotta. Così i dignitari del tempo apparivano inorgogliti nel veder crescer il prestigio della loro città e l’esempio dei loro pari fungeva da stimolo a donare contributi sempre più generosi[2].

Tornando all’oggi, non bisogna sottovalutare il fattore trasparenza. Lo stimolo alla cultura della donazione proviene anche da minore opacità e maggiore accuratezza contabile da parte dei musei, segnatamente quelli pubblici. Attualmente la mancanza di una contabilità autonoma e specifica per ogni struttura museale si traduce nella mancanza di valori complessivi, sintetici e chiari. Non vi è contabilità perché il museo è parte di “altre” amministrazioni, quindi non sempre ha una sua forma di controllo essendo inserito in altre e più complesse gestioni. Per giunta il museo è considerato alla stregua di un bene patrimoniale e non un capitale economico. Non è di conseguenza facile rilevare la misura della dimensione dei costi, del deficit e della dimensione dei flussi finanziari positivi. Né è semplice operare una riclassificazione di conti già esistenti. Inoltre è consolidata l’opinione che per i beni artistici sia sufficiente produrre ricchezza indiretta in termini di benefici, quali l’aumento dei flussi turistici. A ciò si aggiunga la mancanza di dati sul valore economico delle opere d’arte e delle strutture che le ospitano. Mentre per un’analisi di tipo aziendale e la trasparenza informativa il principale documento è il bilancio.
Si richiama quindi l’attenzione su un punto: il bisogno non più rinviabile di attivare strumenti contabili specifici che permettano di monitorare “dall’esterno” l’attività dei musei e i processi di allocazione delle risorse elargite. Tuttavia, il passaggio da un tipo di contabilità pubblica a una rilevazione che permetta di osservare, rappresentare e confrontare le variazioni economiche prodotte in seguito alla specifica attività museale svolta, richiede naturalmente anche il superamento di altre tipologie di ostacoli. Come quelli derivanti dalla trasformazione di dati che sono stati rilevati in origine con finalità completamente differenti. Purtroppo nell’amministrazione pubblica il sistema di rilevazione nasce e si sviluppa come strumento “autorizzativo”, con la finalità primaria di predefinire gli spazi operativi entro cui può svolgersi l’azione degli organi amministrati. Finalità talmente rilevante da porre in secondo piano l’esigenza della corretta rappresentazione della gestione, come avviene nei tradizionali filoni giuridico-contabili.
Sarebbe viceversa necessario costruire un modello di cash flow che permetta di individuare i flussi delle entrate e delle uscite monetarie originate dal ciclo tipico della gestione per rapportare musei di dimensioni differenti e con logiche gestionali differenti attraverso un’analisi basata su modelli finanziari tali da rendere più omogenea la comparazione. Però obiettivi di questo tipo implicano uno shift ancora più a monte, tale da permettere di arrivare a considerare i musei non più uffici degli organi periferici del Ministero, bensì strutture dinamiche che oltre alla tutela dei beni, hanno compiti più strettamente economici. E in questa mutata ottica non sarà più sufficiente una concezione patrimonialistica del museo.

Note

1.  J. Stuart Mill, Principles of political economy, libro II, cap. 2, par. 5, in Collected works of J. Stuart Mill, Vol. II, Toronto, 1965, p. 226. Trad. it. Principi di economia politica, Torino, 1984.

2.  Sull’istituzione delle leitourgiai vedasi in particolare: R. Lane Fox, Il mondo classico. Storia epica di Grecia e Roma, Torino, 2007.