Per una macrostoria del diritto

Sommario: 1.Diritto e legislatore. 2. Diritto e giurista. 3. Diritto e Stato. 4. Diritto e soprannaturale. 5. Diritto e lingua. 6. Le radici del diritto: la subalternazione e la fedeltà. 7. Convivenza delle opposte forme giuridiche, nella sincronia. 8. In particolare: la convivenza di diritto parlato e diritto muto.

1. – Da due millennii i giuristi si sforzano di spiegare – anzitutto, di spiegare a se stessi – cosa sia il diritto. Nel loro lavoro non sono soli, i filosofi hanno fatto ciò che potevano per aiutarli.
Sono stati, e sono, all’opera studiosi profondi e acutissimi, severi con se stessi. Le loro definizioni, le loro risposte risentono dell’epoca, e delle circostanze in cui operava e opera ciascuno di essi.
La definizione che nei due ultimi secoli è stata dominante fotografa il diritto europeo continentale successivo alla rivoluzione francese. Il diritto è proprio di ogni società sovrana, cioè di ogni Stato; lo Stato lo crea mediante l’opera del legislatore; il legislatore crea norme giuridiche redigendo testi chiamati leggi. Legge e diritto sono allora sinonimi. Poco aggiunge, alla definizione in esame, la precisazione che può esistere anche un certo numero di norme chiamate “consuetudini”, affermatesi senza intervento del legislatore, e perciò non messe ufficialmente per scritto, nate per effetto di una spontanea ottemperanza da parte dei consociati, e assistite dalla generalizzata convinzione che questa soggezione alla regola sia giuridicamente dovuta.
A questa definizione classica del diritto da qualche tempo si muove qualche critica, perché essa non tiene un conto sufficiente dell’opera che svolge l’interprete della legge – in primo luogo, il giudice –, senza la cui collaborazione il testo legale avrebbe significati vaghi e indefiniti. Questa critica è sicuramente valida, ma bisogna formularne un’altra più radicale.
L’equazione fra diritto e legge implica che tutto il diritto sia opera del legislatore, e che a sua volta il legislatore sia onnipotente. Qui parlando di legislatore non mi riferisco al solo legislatore ordinario, ma all’insieme di tutti quegli organi tra i quali si distribuisce la funzione di creare le norme: l’assemblea costituente, il legislatore ordinario, le assemblee regionali, il popolo convocato perché deliberi in via referendaria, ecc.
L’equazione da me evocata poco sopra postula dunque che esista un organo, o un insieme di organi, capaci di creare il diritto che reputano opportuno; che questi organi facciano parte di una entità chiamata Stato; che non vi siano organi, personaggi, collettività o altre figure reali dotate di un potere di veto, né dotate del potere di creare artificialmente altrettanto diritto, con una libertà di scelta estesa per una uguale latitudine.
Ma non è sempre stato così. Il compito di creare diritto apparteneva, in un passato non così lontano da essere del tutto dimenticato, a Dio (al presente, si pensi alla sharia); o le norme di convivenza erano inscritte nelle regole che corrispondono ad un ordine cosmico (ch’ing, li, lii; ne è una variante il giri); più frequentemente, esse preesistevano ad ogni volontà singola, perché rispecchiavano la pratica sociale, ossia la consuetudine (troviamo i mores all’origine del diritto romano e le consuetudini all’origine del common law). Beninteso, dovunque esiste un potere sociale riconosciuto, questo potere interviene per regolare e migliorare la regola (come fecero le assemblee e i pretori a Roma, i giudici, i cancellieri e il Parlamento in Inghilterra), o per ridurre in un unico corpo letterario settori del diritto vigente, e pubblicarlo (come fece Hamurabi e come poi fecero i suoi successori ed emuli). Ma il potere di intervenire marginalmente non deve confondersi con il potere di distruggere un ordinamento e riedificarlo. Giustiniano, da questo punto di vista, ha natura bifronte. Ai suoi tempi, si limitò a coordinare e ridurre in unità letteraria le norme legittimamente in vigore; nel Medio Evo fu visto (ci pare di poter dire) come munito di un mandato celeste, e il problema della legittimazione trasse da ciò la sua soluzione[1].
L’idea del potere onnilegislativo si afferma solo con la rivoluzione francese (se ne hanno preannunci nella monarchia assoluta). Il positivismo giuridico sarà allo zenit con le creazioni giuridiche di tipo partitocratico, in specie là dove il partito comunista al potere, alle prese con la costruzione del socialismo, disconoscerà qualsiasi limite al proprio potere di legiferare.

2. – Prima della fine del XVIII secolo il diritto esisteva ed era un diritto senza legislatore. Il diritto era studiato nelle facoltà giuridiche. Ivi il docente insegnava al discente un vocabolario specialistico, il quale testimoniava l’esistenza di un reticolato concettuale giuridico, e la consapevolezza del contenuto di ogni categoria; la struttura del discorso didascalico provava che parlando del diritto è possibile dedurre dal generale la soluzione del caso.
Dall’epoca di cui parliamo, la specializzazione del discorso va di pari passo con la presenza di professionisti del diritto; e a questi ultimi viene affidata, nel giudizio, la definizione dei conflitti sociali.
L’epoca del diritto comune, il mondo del common law, il mondo romano, il mondo islamico hanno avuto i loro giuristi, il loro dizionario giuridico, le loro scuole. Si noti come non tutte le lingue correlate a queste culture dispongano di un lessico giuridico. Certo, non dispongono dei termini corrispondenti a prestazioni in luogo di adempimento e ad eccezione sostanziale né il ladino né il piemontese né il veneto. Solo le lingue scolari hanno un simile lessico, e ciò prova ulteriormente il carattere tecnico, esoterico, di quest’ultimo.
Il vocabolario giuridico, il giurista, la scuola di diritto trovano espressione compiuta per la prima volta a Roma[2]. La grande importanza dell’esperienza romanista sta essenzialmente in ciò.
La Cina imperiale e i popoli americani precolombiani, i Germani e gli Slavi non ebbero giuristi. Prima di Roma, la soluzione dei problemi giuridici poteva essere affidata a uomini di religione o a personaggi dell’amministrazione. Ciò è vero per gli Elleni, per gli Egiziani del tempo dei Faraoni, per i popoli dell’India. Qualche sorpresa potrebbe forse venire dalla Mesopotamia.
Il diritto può vivere e svilupparsi senza giurista, ossia senza essere contrappuntato da un apparato di conoscenza criticamente elaborato.
Fino a duemila anni fa il diritto visse e operò efficacemente senza legislatore e senza giurista.

3. – Gli antropologi ci insegnano a distinguere, nell’ambito delle culture senza scrittura, una società a potere centralizzato, e una società a potere diffuso[3]. In sede di macrostoria del diritto la contrapposizione in esame merita di essere utilizzata per tratteggiare una distinzione di fondo, con cui inquadrare l’universo delle esperienze giuridiche.
Là dove il potere politico fa funzionare un sistema di difesa collettiva, corti giudiziarie, ministeri, un sistema fiscale, opere pubbliche, una trasmissione del sapere, questi indici provano l’esistenza di poteri sociali sovraordinati ai singoli e ai gruppi piccoli. Tutti i popoli a cultura affine alla nostra conoscono il potere sociale sovraordinato e centralizzato. E taluni dei popoli a cultura più tradizionale sono anch’essi retti da embrionali strutture stabili sovraordinate (monarchi, oligarchie, assemblee). Ma queste strutture non esistono ovunque – e, soprattutto, non sono esistite sempre e ovunque –; e anche là dove esistono esse possono avere una capacità di incidere nella vita sociale più limitata o più ampia; talune entrano in attività solo in casi speciali (ad es., in caso di guerra), altre invece operano ininterrottamente, e possono dedicarsi anche alla composizione dei conflitti interni.
Là dove il potere è diffuso ogni soggetto si trova membro di un piccolo gruppo (nel caso più semplice da analizzare, una famiglia o un clan), il quale, in caso di conflitto, si autotutela. Per chi fosse poco familiare al meccanismo dell’autotutela, ricorderemo che fino a tutto il XIX secolo e oltre l’unica applicazione coattiva del diritto internazionale era affidata all’autotutela. I paesi in conflitto componevano o guerreggiavano; la guerra, se non poneva fine all’esistenza del soggetto soccombente, culminava con una composizione (trattato di pace). Una serie di misure politico-giuridiche (alleanze, arbitrati obbligatori, patti di non aggressione, protettorati) riducevano i rischi connessi con la mancanza di una garanzia proveniente da un potere sovraordinato.
Il potere sovraordinato – là dove esso esiste, è stabile, opera a mezzo di organi specializzati e tecnicamente competenti – è lo Stato. Lo Stato non è sempre esistito. Esso ha incominciato ad esistere quando un potere sovrano ha preso ad operare in modo coerente e sistematico al di sopra della società. Sebbene non sia lecito affermare che lo Stato si manifesti sempre con il fiorire della cultura del bronzo, tuttavia nel supercontinente asiatico-africano-europeo l’avvento del periodo del bronzo si può collegare in modo persuasivo con i vantaggi che offre il potere centralizzato. La produzione del bronzo (reperimento, estrazione, trasporto del rame e dello stagno, lavorazione del metallo) distrae dalla produzione del cibo importanti categorie di persone, il cui mantenimento graverà sugli agricoltori e sugli allevatori. Di qui la necessità di un fiscalismo che a sua volta per funzionare ha bisogno di catasto e di scrittura, affidati a specialisti il cui mantenimento graverà anche esso sulle classi produttrici di alimenti. Il riparto del prodotto agricolo-pastorale fra il produttore e gli altri consumatori postula soluzioni non consensuali, e ciò chiama in causa l’opera di armati professionisti. La società che descriviamo non può funzionare solo in base a un libero scambio di beni e prestazioni, ed è destinata a decomporsi se non si afferma un potere centralizzato, ubbidito da tutti: l’ubbidienza postulerà una garanzia, che motivi i cittadini all’obbedienza, mediante una opportuna persuasione: i maghi, gli stregoni, gli indovini – che in questo contesto diventeranno veri sapienti, ossia sacerdoti – saranno chiamati  suffragare, mediante l’intervento di qualche forza soprannaturale, la legittimazione del capo[4].
La situazione ora accennata si ritrova – per parlare degli esempii più familiari a chi si è formato nei licei – nell’Egitto faraonico e  nell’impero mesopotamico, specialmente dopo il periodo sumero. Ma si ritrova anche, senza che la produzione del bronzo vi abbia giocato un ruolo, negli imperi inca e maya. Rispondono a questo schema (e qui la funzione catalizzatrice della produzione del bronzo torna ad essere verosimile) anche gli imperi indiano e cinese, che prendono a funzionare un millennio e mezzo dopo la nascita dell’impero egiziano.
Con gli imperi che, nel vecchio continente, fioriscono nel periodo del bronzo nasce l’autorità dello Stato, e per la prima volta la sapienza (volta soprattutto al soprannaturale) prende ad interessarsi ai problemi del potere politico; per la prima volta si distingue un diritto costituzionale diversificato dai diritti del singolo; e insieme nasce una burocrazia, dando vita ad un diritto amministrativo; nasce un diritto penale diverso dalla responsabilità civilistica estesa alla pena (privata); nasce il potere giurisprudenziale, che opererà in conformità di regole procedurali[5].
Il potere centralizzato ebbe a diffondersi dalla Mesopotania al mondo ellenistico, da questo a Roma. Un confronto-conflitto durato millecinquecento anni permise poi al sistema romano di alternarsi e integrarsi con il sistema germanico, le cui istituzioni entrarono in urto con il mondo romano ben prima di essere state piallate dal rullo compressore del potere centralizzato.
In breve: prima del 3500 avanti Cristo il potere centralizzato non esisteva, e tuttavia esisteva – ed era rigoglioso – il diritto.
I giuristi italiani che, come professori dell’Università nazionale somala, hanno visto da vicino le sopravvissute epifanie del diritto tradizionale somalo – lo xeer, praticato in modo incontrastato nella boscaglia – hanno conosciuto un diritto efficiente e rigoglioso, capace di operare, come il diritto di ogni società a potere diffuso, senza legislatore, senza giurista, senza Stato e senza potere centralizzato. Le faide e i guidrigildi costituiscono l’abc di questi sistemi giuridici – di quello somalo e di quello amazigh (fino a poco fa dicevamo: berbero)[6], come di quello germanico del periodo delle grandi migrazioni –.

4. – Il diritto del quinto millennio avanti Cristo non può essere stato identico al diritto in vigore 50.000 anni prima, 500.000 anni prima.
Una forza vivificante di immensa portata, capace di introdurre ad ogni proposito innovazioni di radicale importanza fu certo la conoscenza magica. La magia ci consente di accertare il fatto – ordalie e giuramenti furono e sono le ultime generazioni di mezzi di prova sposati al soprannaturale –, di individuare il soggetto contro cui è bene procedere, di scoprire il rimedio cui ricorrere per quietare un malessere sociale. Procedimenti magici possono rifondare la proprietà, perché ricette di varia natura possono insegnare alle cose oggetto di proprietà a reagire in modo deterrente all’interferenza illecita. Sanzioni magiche potrebbero anche colpire chi violi la promessa, o taluni tipi di promesse.
Nessuno sa indicare la data di nascita della magia, o almeno la data in cui essa prese a dominare la vita dell’uomo. Si potrà forse pensare che essa abbia assunto compiti più ampii allorché l’uomo passò dalla cultura del paleolitico inferiore a quella del paleolitico superiore, sviluppando in sé le capacità che noi oggi chiamiamo artistiche e che allora servivano precisamente a condizionare la sorte e il destino delle persone e cose disegnate o simbolizzate, o a produrre mediante i suoni questo e quel risultato desiderato? Non sappiamo.
Ma certo un diritto esistette anche prima della magia.

5. – Il diritto è lo strumento che previene e dirime i conflitti d’interesse nella società. Dove c’è una società c’è un diritto.
Ciò è vero per le società umane, ed è vero per le società animali evolute. Leoni, cani selvatici e tanti altri mammiferi carnivori «marcano» la proprietà del suolo, e ottengono dai conspecifici, ossia dagli animali della loro specie, il rispetto del diritto esclusivo; il rispetto della regola è garantito dall’autotutela. Un gioco di ghiandole e ormoni moltiplica la forza dell’animale ingiustamente aggredito. Regole cui l’animale è fedele proteggono la relazione maschio-femmina, spesso preceduta da vistose cerimonie di corteggiamento, nonché l’adempimento dei doveri che gravano sui genitori nei riguardi della prole.
Allorché homo habilis fabbricò le prime schegge il suo diritto non poteva essere troppo diverso da quello dei primati che lo avevano immediatamente preceduto. Quelle schegge ponevano problemi di proprietà, protratta nel tempo, di cose mobili: l’arma, o la pietra (selce, quarzo, ossiadiana), preziosa perché rara, utile per cavarne l’arma. La proprietà possesso poté forse risolvere i problemi più correnti.
La cerimonia – marcatura di un fondo, corteggiamento – servì a preannunciare e qualificare i rapporti. Dove la cerimonia non interveniva, l’esistenza del rapporto era tutt’uno con la sua attuazione: il possesso era la signoria giuridica sul bene, l’acquiescenza era tutt’uno con il diritto altrui, la presunzione implicava l’obbligo. La dicotomia che contrappone il diritto al suo esercizio non funzionava. Era giuridico ciò che veniva attuato; vale a dire, era giuridico il diritto che veniva esercitato, il dovere che veniva adempiuto, il comportamento cui l’altro faceva acquiescenza. Lo scambio era possibile sotto forma di scambio di possessi. Le prestazioni erano scandite dalla fondamentale regola dello scambio restitutorio, noto anche ai primati. La divisione seguiva la caccia operata in comune. L’illecito dava luogo all’autotutela e alla vendetta. La fedeltà alla regola implicava l’esistenza e la validità della regola (inducibile dalla spontanea condotta dei membri del gruppo).
Il diritto era muto (si prescinde dalle grida che possono aver accompagnato le cerimonie e l’autotutela).
Le fonti erano mute. Gli atti erano muti.
La più grande rivoluzione giuridica intervenne quando un homo più recente del primo homo habilis prese a far uso del linguaggio articolato.
Prima di quel momento, homo erectus, succeduto a homo habilis, avrà praticato con molta efficienza un linguaggio gestuale. Non si può misurare l’impatto di questo linguaggio gestuale sul diritto, ma non bisogna pensare che esso fosse tale da scardinare l’ordine precedente.
Formatosi il linguaggio articolato, non è probabile che l’uomo l’abbia utilizzato subito ai fini del diritto, né occorre prendere posizione su questo problema di datazione. Si deve invece domandare: quali nuove possibilità ha assegnato al diritto, nei tempi lunghi, questa articolazione del linguaggio?
La risposta pare alla portata dello studioso attento.
Fatte salve le due cerimonie tipiche, cioè l’autoinvestitura immobiliare (mediante marcatura del fondo) e lo sposalizio (reso noto mediante il corteggiamento), l’atto muto e la fonte muta operano nel tempo presente. Io occupo, io posseggo, io derelinquo. Io non entro nel fondo alieno. Io non corteggio la femmina altrui, io non nutro il figlio altrui.
La lingua introduce invece il discorso sul futuro, il discorso astratto sul diritto attualmente non esercitato, il precetto cui non corrisponde, per il momento, alcun reale.
«Mi consegnerai tale cosa»; «Il fondo è mio, e lo sarà per sempre, anche se me ne allontano, e io ritornerò su esso»; «Tutti raccogliamo oggi e non domani, cacceremo domani e non oggi».
Il diritto parlato viene solo dopo l’alpha giuridico, cioè dopo quel diritto che natura omnia animalia docuit. Il diritto parlato prepara tutti gli sviluppi futuri, la parola sponsorizza la logica. Si tratterà, dapprima, della elementare logica della partecipazione, che consente l’edificazione del sapere magico. Sarà, poi, la logica posta alla base della meravigliosa, anche se oppressiva, architettura sociale e giuridica dell’età del bronzo. Sarà, in seguito, la logica posta alla base del ragionamento giuridico concettuale e deduttivo del giurista (romano e postromano). Sarà, alla vigilia del diritto che il legislatore onnipotente dovrà ristrutturare dai fondamenti, il puro diritto razionale, che intende essere l’omega della macrostoria giuridica.
In realtà, il diritto razionale dell’illuminista non è l’omega di nessuna storia. È la più nobile delle illusioni; è una tappa cui altre seguiranno.

6. – Le relazioni di fatto tra gli uomini condizionano in modo evidente gli strumenti del diritto.
La società degli uomini muti conosce sicuramente modi di subalternazione degli individui; il loro prototipo è dato dall’obbedienza del bambino all’adulto, in ragione della forza fisica di quest’ultimo, e del bisogno di protezione del primo.
Varie forme di selezione servono a indicare quale, fra gli adulti del gruppo, avrà maggiori poteri. Presso numerose specie animali, la forza dei candidati al comando è saggiata in appositi tornei, e legittima la posizione sociale.
La magia istituisce rapporti di subalternazione di origine soprannaturale, ma non avrà motivo di scardinare in un solo colpo l’ordine naturale originario.
La cultura agricolo-pastorale che caratterizza il neolitico consente di giovarsi del lavoro (servile) altrui senza bisogno di armare il lavoratore, e senza affidargli la diretta presa di possesso del bene di consumo (era vero il contrario nella società paleolitica, che viveva di caccia e raccolta). Ciò può aver creato le condizioni ottimali per una subalternazione a base e con funzione economica (schiavitù o forme successive di servaggio privato).
La cultura del bronzo ha creato la subalternazione politica del cittadino al sovrano ossia allo Stato. E la subalternazione allo Stato è convissuta (rivaleggiando con essa, e preparandone solo in forma molto indiretta e lontana il deperimento e l’agonia) con la subalternazione fondata sulla filiazione, sulla prestanza fisica e sul prestigio, sul sacro, sul servaggio privato.
La nascita di una scienza giuridica non ha mutato i rapporti operativi, ha solo migliorato la conoscenza del rapporto fra chi comanda e chi ubbidisce. La nascita di un legislatore onnipotente non ha stravolto il quadro fissato in precedenza: anche se, verosimilmente, il legislatore avrà vocazione a occuparsi soprattutto della subalternazione del cittadino allo Stato.
La subalternazione ha come corollario la fedeltà, in virtù della quale il soggetto obbediente si astiene da ogni aggressione alla persona e ai beni del suo superiore. La fedeltà è qualcosa di diverso dall’obbedienza. Chi comanda ha normalmente modo di constatare se l’obbedienza è stata prestata. L’infedeltà, viceversa, si consuma essenzialmente nell’ombra. Ne segue che chi ubbidisce perché accetta convinto il suo ruolo subalterno è fedele, chi ubbidisce coatto è incline all’infedeltà; del pari, chi pensa di dovere un certo grado di obbedienza, e non più di quel certo grado, sarà incline all’infedeltà.
Fedeltà significa agire sistematicamente in modo non «naturale», operando contro il proprio interesse, per fare invece la volontà o l’interesse del proprio padrone. Ogni forma sociale suscita ovviamente vincoli di fedeltà in coloro che accettano pienamente la propria subordinazione. Possiamo immaginare giovani accoliti devotissimi ad un celebre sciamano, e disposti a non derubarlo e a gestire con dedizione i suoi ben avviati negozii (la percezione di un’offerta per ogni fattuccheria operata). Possiamo pensare al servo molto beneficato dal padrone (Giuseppe fatto ministro dal Faraone) che si vota alla volontà del suo benefattore. Possiamo immaginare collettività ove i partecipi si immedesimano intimamente nel gruppo: fratrie, confraternite religiose, comunità politiche claniche religiose o territoriali.
Possiamo immaginare tutte queste ipotesi. E all’interno di esse la fedeltà al gruppo presenta il carattere della piena razionalità. Ma, fuori da tutte le ipotesi tipiche fatte sopra, la realtà «naturale» non conosce la fedeltà, la quale si basa sulla contraddittoria posposizione di tutti i proprii bisogni alla volontà e all’interesse del padrone e del gruppo.
Nella chefferie pre-Stato il potere è assegnato nell’esclusivo interesse e per l’esclusivo tornaconto del soggetto del potere. Bisogna giungere alle grandi culture del bronzo per trovare il prete che non usa il suo potere per rubare il tesoro del dio, il ministro (concepito come schiavo dell’imperatore) che non usa il suo potere per derubare a proprio profitto i suoi amministrati, sudditi del suo padrone. I monaci non derubavano l’ordine, e non derubavano a proprio profitto chi sottostava al potere dell’ordine (è tutta un’altra questione se rubassero a pro dell’ordine). A poco  a poco, si sono diffusi modelli di vincoli fraterni estesi a cugini sempre più lontani, e poi riprodotti, fuori della famiglia, fra tutti i vicini, fedeli al bene collettivo; di qui l’origine di villaggi, di città e di comuni (e poi di repubbliche); la fedeltà al sovrano ha potuto diventare la fedeltà allo Stato; la fedeltà all’ordine monastico ha potuto generalizzarsi in una fedeltà alla comunità (laica) di appartenenza, tutta permeata di valori etici. Si tratta di conquiste preziose e parziali; si tratta di singole pagine dell’Atlante geografico che si riempiono di una realtà che ha pochi secoli o pochi millenni di vita.
Alla base dell’impalcatura di una società «naturale» la fedeltà non va al di là della famiglia. E poiché oramai esiste ovunque lo Stato, in una società vicina alla natura chi ha un potere conferitogli dallo Stato, se non teme la sanzione penale, lo gestisce nell’antidiritto. Questa gestione risponde a nomi ben noti: «corruzione, concussione». Una letteratura importante tratta della corruzione come elemento importante della vita sociale in Africa[7].

7. – Importanti regioni del mondo attuale praticano sistemi giuridici – o frazioni di essi – le cui strutture sono quelle che dominavano incontrastate seimila anni fa.
Secondo tanti osservatori occidentali, le regole dei rapporti privati fino a ieri operanti in Cina e Giappone sarebbero regole non giuridiche, e dovrebbero invece discendere direttamente dalla filosofia, dalla tradizione e dalla convenienza sociale, perché vengono gestite senza corti, senza giuristi professionali, senza intervento dell’autorità, senza regole scritte.
Ma non si va lontano dal vero se si congettura che le regole dei rapporti privati operanti in Cina e Giappone fossero invece regole giuridiche, gestite senza che il potere centralizzato se ne interessasse[8]. Lo Stato si curava del diritto pubblico (l’accesso al potere, gli eventuali contropoteri, l’amministrazione, la pena afflittiva pubblica, ossia il diritto costituzionale, amministrativo e penale pubblico). Al resto provvedevano i gradini inferiori del tessuto sociale, con regole note a tutti, capaci di indicare una via d’uscita per ogni conflitto d’interessi, e capaci altresì di costringere il contendente riottoso, mediante sanzioni sociali irresistibili, a rispettare la soluzione elaborata per il suo caso.
Secondo la ricostruzione di maniera di cui parlo, il diritto cinese tradizionale non avrebbe regolato né la famiglia né la proprietà, mentre il diritto penale cinese avrebbe regolato i reati contro la famiglia e il furto. Se le cose erano poste così, il diritto penale cinese recepiva regole di famiglia e proprietà tratte da un altro sistema di fonti, cioè da quel diritto consuetudinario che gli occidentali scambiano per una etica filosofica.
In altre parole: in Estremo Oriente sono convissute fino a ieri su un solo territorio più sezioni di un unico ordine giuridico; tra queste la più arcaica postulava un potere non centralizzato e si annodava al diritto dell’età della pietra; quella successiva aveva caratteri più moderni, e postulava il potere centralizzato, pur facendo a meno del giurista e del legislatore; la più recente (calco euro-americano evidente) conosceva giurista e legislatore. E il «giurista» costruito sul modello europeo parla solo del diritto a modello europeo.
Nel 1980, nel corso di un colloquio di studii giuridici africanistici, si conclamava che tutta la vita giuridica dell’Africa subsahariana si svolge sotto la copertura del sacrale: capi di Stato sono stati divinizzati; altri capi di Stato hanno fatto scaturire decisioni politiche dai loro sogni; e così via[9]. Nello stesso anno una circolare della Corte suprema dello Zambia indicava come istruire cause in cui venga allegata l’opera o l’effetto dell’opera del mago[10].
In varii Paesi africani è praticata alla luce del sole una giustizia che ricostruisce il fatto con procedimenti magici[11].
In altre parole, diritto europeo introdotto al tempo coloniale e diritto che fa i conti con la magia possono convivere in paesi africani subsahariani.
I rilievi svolti fin qui debbono essere generalizzati.
In ogni ordinamento dotato di legislatore e di giurista culto sopravvivono elementi giuridici appartenenti alle fasi più primitive. Naturalmente questi elementi possono esistere nella devianza e nell’antidiritto (la vendetta ritualizzata sarda o siciliana, tipiche di una società a potere diffuso, costituiscono antidiritto in Italia). Ma possono invece essere integrati all’interno dell’ordinamento culto.

8. Una commistione di elementi può operare anche fra elementi muti ed elementi parlati.
Il nostro diritto positivo conosce la fonte parlata (le norme scritte, splendide per contenuto e per forma, che elaborano il parlamento e il governo) e la fonte muta (consuetudine, usi, contenuto che l’interprete assegna ad espressioni vaghe e indeterminate, quali «colpa», «malafede»). Conosce l’atto parlato (il negozio giuridico) e l’atto muto (l’atto semplice, o non negoziale, il fatto concludente). Talune categorie abbracciano nel loro seno ipotesi di atti parlati e di atti muti: così il contratto, che può constare di dichiarazioni, ma può constare di fatti concludenti (art. 1327, rapporti di fatto); così le conferme e le convalide, così l’accettazione d’eredità, che possono essere espresse o tacite.
Ma l’interesse del giurista è attratto in prima linea dalla fonte parlata e dall’atto parlato, e non sa avvicinarsi in modo appropriato alla fonte muta e all’atto muto.
Farò al proposito tre constatazioni.
A) Se una categoria abbraccia atti parlati e atti muti, la definizione della categoria si modella guardando al solo atto parlante. Il contratto è visto come coppia di dichiarazioni, come negozio bilaterale, come sequenza di una proposta (che giunge all’oblato) seguita da un’accettazione (che giunge al proponente). Il discorso sui contratti muti viene condotto frettolosamente, in modo incidentale. Dal punto di vista dogmatico, la sottocategoria dei contratti muti viene sbriciolata: l’art. 1327 viene presentato come norma speciale; il contratto muto di lavoro viene presentato come contratto nullo ma operante; il codice rifiuta di ricordare la società di fatto; la categoria generale dei contratti di fatto si è finalmente aperta un varco, ma non è ancora completamente accettata.
B) Quando si deve definire il fatto muto, esso si definisce ricorrendo all’analogia con l’atto parlato. Si spiega che il soggetto vuole un certo effetto giuridico, che egli deve dunque manifestare la volontà corrispondente, che a questo fine può essere sufficiente l’esecuzione dell’atto in questione; e l’esecuzione funzionerà qui come una (tacita) dichiarazione. Il soggetto silente consegna un frutto colto dal proprio albero, cioè dona. Il giurista della parola vede qui un incontro di dichiarazioni (proposta e accettazione di donazione tacite), seguite dal perfezionarsi della conditio iuris rappresentata dalla consegna[12].
C) Il diritto muto non poté battezzare gli istituti giuridici che, già allora, sorreggevano la società e ne condizionavano la sopravvivenza. Non poté battezzarli proprio perché era muto. Ma andò di pari passo con la mancata verbalizzazione la mancata concettualizzazione, e la nascita del linguaggio non suggerì di dare nomi ad istituti che funzionavano senza bisogno della parola. Beninteso, non conosco le prime lingue parlate dall’uomo. Ma constato, a grande distanza dal giorno in cui l’uomo ha parlato, che gli istituti più risalenti nel tempo, gli istituti «quae natura omnia animalia docuit», e che perciò non hanno bisogno, per esistere, di una parola che li esprima, non sono stati ben definiti nemmeno quando il vocabolario giuridico divenne ricco. Gli antichi Romani non definirono la proprietà, perché la trovavano ovvia di per sé; non definirono il potere familiare, per la stessa ragione; diedero definizioni malaccorte e retoriche del diritto di natura, ossia della consuetudine.
In chiave macrostorica, l’uomo parlante conosce concettualmente in modo diretto il diritto parlato, ch’egli ha fatto nascere e visto nascere. Non ha sentito il bisogno di guardare indietro al diritto muto, troppo ovvio per meritare una spiegazione. Quando per ragioni di sistema ha poi dovuto farlo, ha adottato ad esso figure proprie del diritto parlato, estendendo al diritto muto categorie che gli si adattano con sforzo e che, in qualche caso, non gli si adattano affatto.

Note

1.  Si veda SACCO, Introduzione al diritto comparato 5, Torino, 1992, p, 204 ss.; ID., Antropologia giuridica, Bologna, 2007, p. 93 s.

2.  SACCO, Introduzione, cit., p. 209 ss.; ID., voce «Cina», in Digesto, 4ª ed., civ., II, Torino, 1988; ID., Antropologia, cit., p. 96.

3.  È fondamentale, in merito, la celebre ricerca di FORTES e EVANS-PRITCHARD, African Political System, London, 1940. Osservazioni sul tema in SACCO, Introduzione, cit., p. 192 ss.; ID., Antropologia, cit., p. 100 ss.

4.  I varii elementi che intervengono in questa dinamica sono tratteggiati superbamente dal grande preistorico V. GORDON, What happened in History, tr. it. RUATA, Il progresso nel mondo antico, Torino, 1963 (si veda anche, dello stesso autore, The Prehistory of European Society, tr. it., LE DIVELEC, Preistoria della società europea, Firenze, 1958).

5.  SACCO, locc. ultt. citt.

6.  SACCO, Di alcune singolari convergenze fra il diritto ancestrale dei Berberi e quello dei Somali, in Scritti in onore di Angelo Falzea, IV, Milano, 1991, p. 395 ss.

7.  Si veda SACCO, Il diritto africano, cit., p. 184, nota 11.

8.  SACCO, Cina, cit.

9.  Si tratta del 4º colloquio del Centre d’études juridiques comparatives dell’Università di parigi I, dedicato al tema Sacralité, pouvoir et droit en Afrique. Di esso fu pubblicata nel 1978, a cura del C.N.R.S., la tavola rotonda preparatoria. Maggiori notizie in SACCO, Di alcune convergenze, cit., ; e ID., Il diritto africano, Torino, 1995, 193 ss.

10.  La circolare, 28 aprile 1980, è stata spiccata dall’Office of the local Courts officer, sottoscritta da D.F. Zulu, e indirizzata a tutti i Court Clerks. Io l’ho trovata presso la local Court di Kawambwa. La circolare reagiva a precedenti disposizioni britanniche che proibivano alle corti di istruire accuse di magia.

11.  SACCO, Il diritto africano, cit., p. 199 e ivi nota 59.

12.  SACCO, Il fatto, l’atto, il negozio, Torino, 2005, pp. 134-199.