Politicizzazione della costituzione e costituzionalizzazione della politica

Il rapporto fra politica e costituzione è costitutivo dell’esperienza contemporanea e tuttavia rimane ambiguo e contraddittorio: di tale difficoltà costitutiva che talvolta si traduce in populismo ha parlato al Teatro Carignano, in una conferenza torinese di estremo interesse, Pierre Rosanvallon.
Dal momento in cui le masse sono divenute protagoniste della storia, dalla morte del sacro che fa emergere il soggetto moderno, come soggetto – individuale e collettivo – che si autodetermina, due sono gli opposti movimenti del pendolo che regola i rapporti fra politica e diritto: la politicizzazione del diritto e la costituzionalizzazione della politica.
Ma la storia, per essere precisi, inizia – alla fine del settecento – con la politicizzazione della costituzione (altrimenti sacra).
Il diritto diviene affare della politica quando scompare dall’orizzonte il sacro e la decisione sul diritto appare come una decisione tutta umana.
Le costituzioni sono un affare politico, il risultato di una decisione tutta politica, tutta umana.
Le costituzioni poi appaiono, sin dall’inizio, come il tentativo difficile, sempre fragile, sempre in discussione, di metter limiti al potere e al potere politico in particolare; ma senza che questi limiti fossero pensati come stabili (ciò avveniva nelle costituzioni flessibili antecedenti le Corti Costituzionali).
Ciò che non era noto, agli albori di questa storia, era quanto la politica potesse divenire pervasiva nella storia della politicizzazione della costituzione.
Un esempio di politicizzazione integrale della vita del diritto è stata l’esperienza dello Stato totalitario: in esso accadeva quello che è stato descritto da Temistocle Martines nel suo fondamentale “Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche” (Milano, 1957) come connotato essenziale dell’ordinamento giuridico fascista.
L’ordinamento giuridico fascista – secondo Martines – apprestava i mezzi non solo perché il Capo del Governo potesse, in piena indipendenza da ogni altro organo, determinare l’indirizzo politico, ma anche perché egli potesse concorrere ad applicarlo nella sfera giuridica.
Inoltre al Capo del Governo erano conferiti poteri di controllo preventivo e successivo sulla rispondenza dell’attività degli organi statali (ed in particolare degli organi legislativi) all’indirizzo politico generale.
Nell’ordinamento costituzionale fascista al programma della forza politica assunta al potere (divenuto in seguito a tale assunzione ed alla predisposizione di mezzi diretti alla sua realizzazione “indirizzo politico” ) venne conferito carattere normativo, traducendosi esso, sul piano giuridico, in norme-principio, leggi costituzionali, leggi ordinarie, atti giuridici.
In tal modo ad un’unica forza politica spettava di dettare sul piano normativo, ed interpretare poi, tutti i principi, i valori, gli interessi ed i bisogni della comunità sociale.
Il fascismo programmaticamente si proponeva di rivitalizzare il diritto guarendolo dal formalismo liberale, accusato di essere lontano dalle forze vitali della società.
Per Alfredo Rocco il diritto non doveva essere isolato dalla politica, ma coordinato con questa affinché il giurista potesse conoscere l’aspetto sociale e politico di ogni problema sottoposto al suo esame.
L’intento del partito nazionale fascista, di generica opposizione antiformalista, per Martines, fu originariamente fecondo, ma il modo concreto in cui la politica si rapportò alla sfera giuridica determinò la trasformazione delle istituzioni in uno Stato totalitario, in cui un’unica forza politica si pose come mediatrice fra società e diritto.
L’esito fu paradossale. L’invadenza della politica trasformò il diritto in un guscio vuoto.
Il diritto – ridotto a pura forma – si identificava nel programma della politica, e di qui alcune equivalenze: il potere politico divenne diritto ed il diritto divenne forza coercitiva dello Stato, rivelando la violenza insita nello jus denunciata dalla sconsolata riflessione benjaminiana.
Il sentimento del diritto si affievolì e la violenza prese il sopravvento.
Analoghe esperienze – di integrale subordinazione del diritto alla politica – sono state vissute nell’ambito del diritto sovietico.
Dopo la seconda guerra mondiale il pendolo ha percorso un movimento opposto: la costituzionalizzazione della politica.
Durante tale periodo è fiorita l’esperienza europea, come esperienza di una comunità del diritto a legittimazione politica “debole”.
Ora l’Europa va ripensata.
Ma è impossibile un ritorno nel chiuso delle democrazie nazionali.
La democrazia ha tendenze degenerative, ormai ben conosciute dagli studiosi della politica e del diritto pubblico (forse essa è intrinsecamente populista).

Il rimedio rispetto a tali degenerazioni è tutto in un aggettivo: la democrazia ha da essere “costituzionale” (ed internazionalmente aperta; ma questa caratteristica meriterebbe un discorso a parte).
La costituzionalizzazione della politica si traduce in una generale pretesa che è comune al processo storico noto come costituzionalismo: la pretesa di vedere sempre all’opera, in società, un potere ragionevole.
Il rimedio allo Stato totalitario (o autoritario o neo autoritario) è semplice: occorre evitare che la società sia costruita su un modello incentrato sulla completa ed assoluta subordinazione del diritto alla politica.
Per far questo si deve consentire al giudiziario, su impulso della società ( delle minoranze, ma anche di un solo dissidente ) di poter contraddire il potere di direzione politica, in nome della legalità costituzionale.
Tuttavia il costituzionalismo di seconda generazione è nato per opera della politica, educata dagli orrori della guerra, è sorto dall’opera di Assemblee costituenti fortemente politicizzate, non è stato il frutto – come talvolta può apparire nella costruzione europea di uno spazio giuridico comune ed unitario  – di tecnocrazie e burocrazie che governano l’economia.
Il diritto infatti è costitutivamente più debole della politica, perché la politica ne è sempre la matrice pre-giuridica.
Occorre, quindi, per evitare il ritorno del pendolo su posizioni pericolose, che la politica torni ad apprezzare la democrazia classica, ad amarne la complessità, a coltivare la molteplicità delle forme di legittimazione del potere tipiche delle democrazie mature.
Ed occorre che ci si guardi, nel restaurare politicamente tale sentimento democratico, dagli opposti rischi della deriva populistica e della deriva tecnocratica, del primato della politica assoluta e del governo dei tecnocrati o dei giudici (rischio presente solo quando essi assumano improprie funzioni politiche – contrastabile con azioni disciplinari e rigide incompatibilità – non quando si limitino ad esercitare le loro funzioni).
L’indirizzo politico è solo una delle funzioni statali, la circolarità e la complessità dell’esperienza giuridica ne richiede altre: al di là del porre norme, occorre interpretarle (e prima occorre interpretare per decidere come innovare) e poi eseguirle con la forza nei diversi modi in cui l’amministrazione agisce, in un rapporto fecondo con l’indirizzo politico che non lo contraddice ma lo realizza con imparzialità.
Si tratta di una sequenza complessa, in cui i valori costituzionali vanno costantemente realizzati, in ciascuno degli stadi di esercizio del potere, mantenendo l’autonomia, tipica del liberalismo, delle diverse sfere o mondi vitali e lo spazio assegnato alla ragione pubblica (alla Rawls).
Nel trasporre i valori della politica sul piano giuridico occorre non perdere di vista l’essenzialità di tale dinamica per le nostre libertà.