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La teoria economica dominante e le teorie alternative*

di - 14 Aprile 2011
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L’economia è una disciplina che non progredisce, o per lo meno non progredisce nel senso in cui progrediscono la fisica e la medicina, cioè con l’acquisizione di nuovi risultati sostanziali. Anche nelle scienze della natura coesistono teorie rivali, ma le scienze della natura dispongono, in generale, di criteri sufficientemente robusti per accertare lo statuto epistemologico delle diverse teorie. L’economia non si occupa di un oggetto naturale, bensì della società e di una società storicamente determinata; nel lavoro teorico, e nella competizione tra le diverse teorie economiche per l’egemonia culturale, l’elemento politico ha perciò un peso importante, talora determinante.
Bisogna allora chiedersi quali siano le caratteristiche della teoria neoclassica, quando e come questa teoria sia nata, e in che modo essa sia diventata e sia tuttora dominante; e ripercorrere poi le altre epoche della storia delle teorie economiche, per proiettare su uno sfondo questa teoria e così mettere in evidenza quei temi che essa ha rimosso, temi cruciali in questo inizio di secolo. «Lo studio della storia del pensiero», scrive Keynes, «è premessa necessaria alla emancipazione della mente. Non so che cosa renderebbe più conservatore un uomo, se il non conoscere niente altro che il presente, o niente altro che il passato».

La teoria neoclassica
Intorno al 1870, in curiosa coincidenza con l’inizio della Grande depressione, la teoria economica è travolta da una vera e propria rivoluzione (nel senso di Kuhn), da un radicale rovesciamento di prospettiva rispetto a quella dell’economia politica classica e della critica di questa da parte di Marx. Ne sono protagonisti studiosi di diversi paesi e di varia formazione. Il cambiamento più importante e vistoso, nella teoria neoclassica, è l’abbandono della teoria del valore-lavoro, su cui si fondavano le teorie dei classici e di Marx, e l’adozione di una teoria del valore-utilità, una teoria che pone come unico principio di tutta la teoria del valore di scambio la variabilità della stima soggettiva del valore.
L’introduzione della categoria dell’utilità nel discorso economico, come nuovo fondamento della teoria del valore, si accompagna a un importante cambiamento metodologico. La meccanica razionale, e con essa il calcolo infinitesimale, viene assunta come paradigma teoretico. Un modello epistemologico, quello della fisica dell’Ottocento, del tutto inappropriato per una scienza sociale e però accademicamente seducente. La scientificità o meno di un ragionamento economico viene fatta dipendere dalla sua formalizzazione matematica, e la teoria del valore viene ridotta a un mero problema di calcolo: si tratta di calcolare, sulla base di determinate condizioni, quei prezzi che sul mercato assicurano l’equilibrio tra la domanda e l’offerta dei beni.
Nella teoria neoclassica, a differenza dell’economia politica classica, l’oggetto dell’analisi non sono più le classi sociali, definite sulla base delle loro relazioni con la produzione e la distribuzione del sovrappiù, ma è l’individuo con i suoi gusti, o preferenze, e i suoi bisogni. L’homo œconomicus è analogo a un punto materiale soggetto a vincoli nel mondo della meccanica razionale: egli si muoverà nello spazio del mercato, entro i limiti imposti dalle proprie risorse e dai comportamenti altrui, finché il sistema non avrà raggiunto un equilibrio statico.
Una impostazione simile ha conseguenze di grande portata circa la visione del processo economico. La teoria neoclassica è essenzialmente microeconomica, ma si pronuncia anche sul funzionamento del sistema economico nel complesso, funzionamento che viene concepito come esito aggregato dei comportamenti microeconomici. Se sul mercato del lavoro non vi sono attriti o rigidità artificiali, vi si determinerà un saggio di salario di equilibrio, nel senso che in corrispondenza a esso vi sarà piena occupazione. Dato il livello dell’occupazione di pieno impiego, l’intera capacità produttiva verrà utilizzata; e la produzione che ne risulterà verrà interamente venduta.
Infatti la teoria neoclassica fa propria la cosiddetta legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda. La moneta è presente soltanto come strumento utile per facilitare gli scambi, non anche come possibile riserva di valore: dunque non vi saranno problemi di realizzazione. Nel mondo neoclassico la moneta è neutrale, nel senso che la quantità di moneta non ha nessuna influenza sulle grandezze reali, cioè sul livello dell’occupazione e della produzione.
Quanto al modo in cui il prodotto sociale verrà distribuito nella forma di redditi, anch’esso sarebbe governato da un ordine naturale, anziché da un conflitto tra le parti. Se si concepisce e si legittima ciascuna quota distributiva come il corrispettivo per i servizi produttivi dei fattori della produzione, di cui ciascun soggetto è proprietario, la distribuzione del prodotto sociale non è determinata anche da un conflitto tra le classi, ma soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, condizioni che sono assunte come date.
La teoria economica, da indagine sistemica circa le cause e le leggi della ricchezza, della sua distribuzione e della sua accumulazione, quale era l’economia politica per i classici e per Marx, si riduce all’economica; economica che secondo la fortunata definizione di Robbins è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi.
Scienza che vorrebbe essere la scienza di un sistema economico in generale, di un sistema economico astratto; astratto non nel senso in cui lo è qualsiasi oggetto teorico, ma nel senso che non è soggetto a determinazioni storiche o istituzionali: nella teoria neoclassica, la storia non conta. È un sistema in cui vi sarebbero armonia, certezza e equilibrio, se il mercato fosse liberato da qualsiasi impedimento artificiale e da improvvidi interventi dello Stato. Per realizzare il migliore dei mondi possibili, sarebbe dunque necessaria e sufficiente la politica del laissez faire.

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