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Profili di criticità dell’attuale disciplina ambientale

di - 30 Marzo 2011
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Qui il giuoco degli interessi si fa forte. Fra le risposte globali, tuttavia, ci sono dei principi del diritto globale ambientale o europeo, che possono essere utilizzati da tutti gli interpreti, amministrazioni e giudici. Tali principi sono: 1) Sviluppo sostenibile, per quanto una chimera; 2) Precauzione: dato che le previsioni che possiamo fare sono a tecnologia costante, occorre essere più prudenti del normale; 3) Riduzione del danno alla fonte: prevenire il danno dove si verifica; 4) Chi inquina paga: un modo per tener conto delle esternalità. Esso consente, sia pure ex post, di monetizzare il danno ambientale, anche in assenza di una contabilità ambientale. 5) Gestione del rifiuto in via amministrativa o pubblica, di ciò che resta dell’atto di consumo: è un fatto di massimo interesse pubblico; 6) Responsabilità estesa del produttore: le singole imprese devono essere responsabilizzate; ci si è convinti del fatto che le strutture pubbliche da sole non ce la facciano a gestire il problema dei rifiuti in una società industriale, in parte, dunque, le singole imprese devono essere responsabilizzate. Tuttavia, i confini tra doveri delle amministrazioni e i doveri del produttore non sono affatto chiari e dipendono dalle singole legislazioni nazionali. Ovviamente, questa è una lotta tutta politica che si svolge tra chi ritiene che le imprese debbano essere sempre più responsabilizzate nelle varie filiere di gestione dei rifiuti e chi è a favore dell’intervento paternalistico della p.a..
Il fatto che la tutela dell’ambiente sia prevista dalla Costituzione, o quale principio fondamentale, in ogni caso, è importante, decisivo nell’orientare la legislazione e la prassi. Ad esempio il principio costituzionale implica la costruzione di un modello concreto di azione ambientalmente orientata, vero compito delle pubbliche amministrazioni, per la realizzazione del quale occorre comunque l’intervento della legislazione amministrativa, il coordinamento degli uffici, la considerazione dell’interesse ambientale sin dall’atto del sorgere di ogni politica. Ma c’è di più: la tutela ambientale dovrebbe essere un modello di costruzione dello stesso diritto privato.
Ad esempio il diritto di proprietà, che oggi è costituito come diritto assoluto, in modo, praticamente, ottocentesco, andrebbe ripensato secondo schemi che riecheggiano quelli degli usi civici, degli oneri reali. Ovvero degli schemi giuridici medioevali, travolti dallo sviluppo industriale. In un’epoca in cui fioriscono le autonomie locali, in cui fiorisce il diritto amministrativo che nasce dal basso, prodotto dalle autonomie gli usi civici potrebbero avere ancora qualcosa da dire.
Per gli amministrativisti il diritto ambientale è campo privilegiato, perché è un diritto in cui c’è ancora un provvedimento tradizionale che può autorizzare, ordinare etc…. Sembra quasi echeggiare la vecchia p.a. autoritativa, laddove oggi, nel resto del diritto amministrativo, l’amministrazione appare, piuttosto, consensuale.
Il modulo consensuale non pervade il diritto ambientale; in questo è principe la tecnica di costruzione delle fattispecie del command and control: prescrivi e poi controlla. Ma l’amministrazione che ha risorse limitate non ce la fa a controllare. Nasce allora il problema culturale: o c’è un’ampia condivisione da parte dei consociati dei precetti amministrativi o ci sono fenomeni di illegalità di massa. Il legislatore penale nell’ambiente vede un succedersi continuo di criminalizzazioni e frequenti depenalizzazioni perché ci si rende conto dei danni economici che avrebbero tali sanzioni penali, a livello sistemico insostenibili.
E’ stata introdotta una direttiva comunitaria nota come IPPC, che si propone la finalità di controllare l’impatto ambientale delle attività economiche non solo nel momento della loro creazione o progettazione (come con la VAS o con la VIA) ma nel momento della gestione di tutto il ciclo produttivo. Oggi tutto il ciclo produttivo è gestito ambientalmente in modo virtuoso, integrale. Questo avviene, non con prescrizioni puntuali, bensì con la canonizzazione di alcune best practices. Pertanto, tutto nostro il sistema industriale, per effetto di questa disciplina europea, deve attestarsi al livello delle migliori best practices europee.
Il problema è che questo richiederebbe degli investimenti, che il nostro sistema ha difficoltà a fare. Il sistema è un po’ vetusto, così capita spesso che non ce la faccia a superare i controlli dell’IPCC. Da qui una pericolosa dinamica: ogni volta che si presenta qualche problema, il nostro sistema incancrenito cerca di costruirsi una soluzione ad hoc, con le leggi provvedimento. Una dinamica di tal tipo, è chiaro, non va bene: ci vuole una rivoluzione culturale, con l’uso degli strumenti di diritto privato. Serve l’introduzione di disciplina dell’ecologia di mercato, di una logica dell’incentivazione, che lasci alle spalle, definitivamente, la logica sanzionatoria.
Un economista dell’ambiente, Herrman Daly, ha individuato il contenuto della nozione di sviluppo sostenibile:
1) il tasso di utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di rigenerazione; 2) l’immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell’ambiente non deve superare la capacità di carico dell’ambiente stesso; 3) lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo.
Questi elementi dovrebbero essere resi misurabili e per far ciò è necessaria quella rivoluzione dei principi contabili delle p.a., di cui si parlava prima. Delle direttive tecnico-giuridiche sono ricavabili dal principio che non è criticabile in quanto generico, sembra però irrealistico. Non è forse più realistico puntare sulla decrescita serena per il fatto che, comunque, l’effetto che riusciamo ad ottenere è più sensibile in termini discreti? E’ più facilmente raggiungibile l’obiettivo di fermare la crescita, piuttosto che inseguirla cercando di misurarla.

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