Infrastrutture fra Governo e Proprietà

Disciplinare la proprietà delle reti o dettare le regole entro cui giocare la partita dello sviluppo?

Il tema della proprietà dei soggetti concessionari (o comunque gestori) di pubblici servizi, della loro forma di organizzazione e del regime ad essi applicabile, torna a far parlare di sé con riferimento al quesito referendario “sull’acqua pubblica” dell’ormai prossimo 12 giugno.
Vi si raccolgono questioni specifiche del servizio collegato alla risorsa idrica, che poi si riverberano su aspetti più ampi come la tutela ambientale, e di portata assolutamente generale, come il dilemma infrastrutturale. Il loro intrinseco collegamento, tuttavia, è tale da non consentire un approccio parcellizzato, per via delle ripercussioni che ciascuna sfaccettatura importa all’altra.
Più ancora, si versa in un terreno nel quale sembra non esistere una soluzione tecnica, oggettivamente ed assolutamente preferibile alle altre, bensì solo soluzioni esposte alla classica problematica dei vincoli e delle condizioni che derivano da congiunture allogene, se non esogene.
Quale che sia il tipo di servizio che si voglia prendere in considerazione, esso si fonda, infatti, invariabilmente su un elemento materiale – l’infrastruttura necessaria per la sua erogazione – ed uno immateriale, il titolo giuridico in base al quale spetta ad un soggetto e non ad altri provvedere all’erogazione di quel servizio.
Ma se è certamente vero che lo sviluppo infrastrutturale costituisce la spina dorsale di qualunque sistema economico, è altrettanto innegabile che a tale sviluppo debbano essere associati ingenti investimenti, ossia risorse finanziarie e capitali di dotazione in quantità. La congiuntura economica, a livello globale ed a maggior ragione nazionale, versa – non da oggi – in situazione di difficoltà, che determina un’oggettiva limitazione alla capacità dei sotto–sistemi economici (senza distinzione fra comparto pubblico, industria privata ed economia familiare) e la conseguente necessità di selezionare gli interventi in sede di allocazione delle risorse.
Così, per esser chiari, tra esigenze culturali, infrastrutturali, difensive, ambientali etc. (questo elenco – del tutto parziale – non è anche partigiano, e non esprime alcuna opinione in tema di priorità) i “pochi” soldi disponibili non possono che essere ripartiti secondo criteri di necessità e preferenza la cui indicazione esprime forse il più puro significato dell’azione “politica”.
La determinazione politica deve anzi spingersi a considerare l’intero viluppo della dinamica operativa: quale settore privilegiare, in quale forma organizzarlo, quali obiettivi assegnargli prioritariamente. Perché anche all’interno di una scelta prioritaria data e di un assetto organizzativo prescelto sono possibili graduazioni di intervento che spetta alla politica disciplinare, compiendo così un’azione di governance del sistema: massimizzare la spinta allo sviluppo della rete (quindi gli investimenti, le ricadute occupazionali, i ritorni a medio-lungo termine) o verso l’efficienza della gestione (quindi controllo dei costi, accettazione sostanziale dello status quo infrastrutturale, prevedibili ricadute ambientali e tecnologiche) sono i due poli estremi del dilemma, lungo il quale ci si può posizionare (quasi) liberamente.
E a sua volta non è neutra la scelta del modello organizzativo, sia essa un prius o una derivata dell’indirizzo adottato in punto di obiettivi. Assegnare al soggetto gestore la responsabilità dello sviluppo impiantistico vincolandolo ad una politica tariffaria molto attenta alle istanze sociali può non essere compatibile con l’organizzazione in forma lucrativa dello stesso soggetto gestore; o – se si vuole – societarizzare i concessionari di pubblici servizi e magari aprire il loro capitale al “privato” significa adottare schemi operativi dai quali discendono precisi vincoli in materia di efficacia ed efficienza (= economicità) delle gestioni, ma anche di direzione della spinta che si va ad imprimere al tessuto economico-sociale. Proprio quei vincoli la cui esistenza ha indotto a credere nell’applicazione di quello specifico modello.
Ai fini di questo discorso è relativamente ininfluente quale ordine prioritario venga assegnato agli interventi: basterà che si tenga conto del fatto che esiste una gerarchia e che essa determina conseguenze e vincoli anche in forma indiretta. E se viene assegnata preferenza per la modernizzazione del sistema scolastico, in un sistema di risorse scarse non si può poi strepitare per le carenze che affliggono i trasporti; allo stesso modo, se si ritiene che la proprietà, meglio la responsabilità per la conduzione delle infrastrutture debba essere in mano pubblica, bisognerà anche accettare che la stessa mano si faccia carico degli oneri di gestione e degli investimenti, sia aumentando il ricorso al deficit che accrescendo la pressione fiscale. E così via.
A fare diversamente, non si riesce. E si deve intervenire di continuo, al livello legislativo, regolamentare, giurisprudenziale, a puntellare un edificio che non dispone di una statica sua.
La proiezione nell’economia di mercato del comparto dei servizi pubblici e l’intento di alleggerire la finanza pubblica dai risultati della loro gestione, magari anche monetizzando il loro avviamento (quindi gli si riconosce natura commerciale) e pretendendo di moralizzarne il governo, sono scelte, che si possono condividere o meno, rispetto alle quali tutto un insieme di regole dev’essere considerato e reso coerente.

La trasformazione in società di capitali delle aziende e degli enti pubblici che gestiscono i servizi non può risolversi in una mera operazione cosmetica. Fare S.p.A. significa fare impresa, rischiare, dunque, e produrre risultati. Significa disporre delle leve per governare il proprio assetto interno, per incidere nel contesto competitivo, per tenere in equilibrio i conti così da conseguire gli utili sperati.
Aprire il capitale a privati, ancor più richiedere la quotazione in borsa, significa sollecitare il coinvolgimento nella gestione del servizio pubblico di forze prive di natura pubblicistica ed alle quali non può e non deve essere addossata alcuna istanza pubblicistica. Si prospetta un business che avrà certamente una propria rigorosa disciplina, ma che è e deve rimanere un business. Al quale ciascun socio partecipa in ragione del capitale apportato, con piena pari facoltà rispetto agli altri.
Si vuole che la proprietà pubblica scenda entro tempi dati al di sotto di determinate soglie per mantenere in essere le concessioni assentite senza ricorso a procedure competitive, e quindi godere di una sanatoria rispetto al vulnus concorrenziale che tali affidamenti diretti comportano? Si vuole che per beneficiare il cliente/utente/ consumatore il comparto dei servizi pubblici sia fatto oggetto di liberalizzazione ed apertura della concorrenza?
Si voglia ciò che si vuole, ma con coerenza e consapevolezza. Si sappia che, in tale contesto, il ruolo pubblico si esplica nell’azione di governance del comparto, e non nella soddisfazione diretta di istanze sociali. Lo scenario liberalizzato, concorrenziale, efficiente, appartiene alla sfera dell’agire imprenditoriale, che è privatistico anche indipendentemente dalla natura dei soggetti cui la proprietà fa capo; dispone di strumenti ad esso peculiari, ed agisce, nel rispetto della legge, per finalità che sono proprie dell’azione imprenditoriale.
Si preferisce che l’obiettivo sia altro, di tutela delle fasce più deboli della popolazione, di politica tariffaria avulsa dalla dinamica economica dell’attività? Se ne deve conseguentemente far ricadere la struttura proprietaria ed organizzativa, ma anche regolamentare, nell’ambito pubblicistico.
La costante ricerca di compromessi, punti intermedi, soluzioni originali – come tali non riconducibili ad alcun patrimonio ideologico – non produce necessariamente buoni frutti. Più spesso essa dà vita a specie magari ben dotate, ma totalmente prive di spinta vitale, e destinate a soccombere.
Come nel caso proposto dal quesito referendario da cui si è partiti: che seduce l’elettore, vieppiù il meno attrezzato, con la pretesa di mantenere, o riportare, nella sfera pubblicistica la gestione delle acque, lasciando credere – senza dirlo – che “pubblico” significhi “gratis”, o comunque “a basso costo”. Per queste ragioni però anche lo tradisce: gli tace le ripercussioni sulla fiscalità generale e sulla qualità dello sviluppo infrastrutturale che inesorabilmente comporta il rientro nella finanza pubblica dell’equilibrio economico nello specifico del servizio idrico, ma  in generale di qualunque altro servizio pubblico.
Ma il quesito così com’è proposto, al di là di qualunque strumentalizzazione che possa farsene, tradisce ben più che l’elettore. Esso tradisce l’intera cultura del mercato, della tutela del consumatore, della regolazione indipendente.
Perché se il governo dell’infrastruttura e del servizio torna nella sfera pubblicistica, e vi torna sull’onda del risultato elettorale, la scelta è fatta: verso il riacquisto delle quote proprietarie oggi detenute dai privati (con quali fondi?); verso la totale sottrazione al confronto competitivo dei servizi offerti da tali gestori; verso la definitiva inutilità delle authority di settore.
E tale scelta non risolverebbe comunque il tema delle priorità da individuare nell’allocazione delle risorse (che restano scarse). Il totem demagogicamente eretto per vincere il confronto elettorale non potrebbe superare la necessità di realizzare investimenti per molte decine di miliardi di euro in acquedotti, fognature, impianti di depurazione, né potrebbe conciliare tali investimenti con una tariffa pretestuosamente sociale. Ne tacerebbe per un po’. Come tacerebbe delle incompatibilità che si verrebbero a determinare nelle società di gestione a capitale misto pubblico – privato.
Tanto, c’è già chi ha prodotto in laboratorio la società per azioni al cui interno si ha prevalenza dell’interesse generale, e quindi compressione del fine lucrativo, poiché svolgere un servizio pubblico non può non essere funzionale al perseguimento dell’ interesse generale.
Anni di attività normativa, elaborazione economica, proiezione industriale, svaniscono nel lampo di qualche sentenza che interpreta per tenere insieme i pezzi e di un risultato elettorale al cui profilarsi, per la verità, nessuna voce si oppone.
L’elaborazione da parte della pubblica autorità dei capitolati di oneri accessori alle concessioni di gestione dei servizi pubblici, oggi del resto evoluti in veri e propri contratti di servizio che stabiliscono precisi doveri e disciplinano diritti relativi alla gestione, la cristallizzazione di piani di sviluppo delle infrastrutture affidate, la determinazione dell’equilibrio tariffario, sono tutti strumenti dei quali avvalersi per contemperare le diverse istanze rappresentate dalla politica, cioè per esplicare l’azione di governo del pubblico servizio, senza trascinarlo in una economia di stampo feudale, senza sottrarsi al mercato ma – anzi – giovandosene, senza violentare le forme organizzative già adottate.

La proprietà degli impianti e delle infrastrutture asservite a pubblico servizio può rimanere pubblica o privata (purché siano garantite la libertà d’accesso e l’assenza di vantaggi competitivi al cessare della validità delle concessioni), ma la loro gestione dev’essere presidiata da regole coerenti al sistema di priorità che si intende perseguire.
E, al di sopra di tutti gli attori e figuranti della scena, dev’essere considerato il ruolo di un regolatore che possa manovrare, in modo uniforme nei confronti di tutto il mercato, per il raggiungimento degli obiettivi assegnati.
Non starebbero insieme, la gestione pubblica delle reti, le finalità sociali e quelle di sviluppo, l’organizzazione societaria della gestione e la relativa pretesa di autonomo equilibrio economico-finanziario delle gestioni stesse. Mentre potrebbero convivere le istanze di tutela delle fasce socialmente più deboli, l’alleggerimento della finanza pubblica e lo sviluppo infrastrutturale sotto un regolatore che avesse da un lato una posizione di effettiva terzietà rispetto sia agli impianti che ai soggetti preposti a gestirli e, dall’altro lato, una chiara visione, e forse anche una capacità di determinazione, degli obiettivi gestionali, da dosare ed adattare alla luce della contingenza.
La società per azioni di interesse nazionale, quella in cui la prevalente partecipazione dello Stato o di enti pubblici consente la nomina diretta dell’organo amministrativo e quella in cui l’interesse generale comprime il fine lucrativo dovranno essere rilette in questa prospettiva: come il Legislatore sembra aver già iniziato a fare, fors’anche inconsapevolmente, con la riforma dell’art. 2449 c.c., che – dal 2008 – ha iniziato a prendere cura degli interessi dei terzi almeno con riferimento alle società, bensì partecipate dallo Stato, che facciano ricorso al mercato del capitale di rischio. Ed ha, conseguentemente ricondotto alla categoria dell’agire iure privatorum le manifestazioni di imperio precedentemente previste.
Anche l’art. 2451, nell’estendere alle società di interesse nazionale la disciplina codicistica dettata per la società commerciale nel suo complesso, conferma l’istanza liberista applicata all’intervento (verrebbe da dire: all’uscita) dello Stato nell’economia. E, coerentemente, rende talune conseguenze immediatamente estraibili dal riconoscimento di specifici privilegi; così, anche il regime di cui all’art. 2497 ss. (sulla responsabilità per eterodirezione ed eterocoordinamento) deve trovare cittadinanza, e, se lo Stato forza le caratteristiche dell’istituto societario alle proprie prerogative, si trova a risponderne verso (gli altri) soci “per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione”.
Altro che compressione delle finalità lucrative a vantaggio dell’interesse generale!
Dovrà ripensarsi il profilo della responsabilità erariale degli amministratori e dipendenti di società miste, ancorché incaricate di pubblico servizio, e ricondurla nell’ambito della ordinaria responsabilità per il rispetto degli interessi sociali.
Insomma, electa una via, non datur recursus ad alteram: anche in tema di organizzazione e gestione del sistema infrastrutturale.
Ne conseguiranno benefici in termini di accesso al credito, di sviluppo, di tutela del patrimonio ambientale, di ricadute occupazionali.
Il dilemma infrastrutturale, insomma, si esaurisce in questo: la costituzione di una vera entità di governo degli obiettivi e dei mezzi disponibili per il loro raggiungimento, nel contesto di una visione finalmente organica della questione. Il dibattito sulla forma proprietaria, sull’assetto organizzativo e, in generale, sulla quantità di intervento pubblico richiesto, distorce la prospettiva, senza contribuire al progresso della materia.

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