Le infrastrutture sullo scenario globale: profili geoeconomici

1. Un percorso diverso
Visti da un’angolazione hegeliana, Oriente e Occidente corrispondono a concezioni del mondo totalmente dissonanti, l’una antitetica all’altra, con la civiltà che è essenzialmente civiltà occidentale (il mondo nuovo) e l’Oriente lontano dall’orbita della storia mondiale. L’idea di destino storico divergente elaborata da Hegel (anticipata dalle analisi di Smith sulla Cina e di Malthus, sviluppata poi da Marx, Weber e Schmitt), di Oriente etichettato come “altro” rispetto al quale definire la propria storia, è progressivamente divenuta complementare all’attribuzione alla sola Europa occidentale della capacità di produrre una trasformazione industriale degli apparati e dei modelli produttivi[1]. Qui differenti strategie di comportamento demografico ed economico attuate da parte di semplici contadini, artigiani e commercianti avrebbero dato vita a un sistema sociale che poteva mantenere una quota maggiore di non addetti all’agricoltura, dotare la mano dell’uomo di attrezzi efficienti e fare sì che la popolazione fosse meglio nutrita, più sana e più produttiva. Mentre altrove lo sviluppo sarebbe stato intralciato da uno stato o troppo forte e quindi ostile alla proprietà privata o troppo debole per proteggere lo spirito d’intrapresa dallo scontro con le resistenze delle tradizioni locali e dei poteri religiosi.
Tali assunzioni hanno finito però per rivelarsi troppo rigide e nuove analisi hanno evidenziato qualcosa di gran lunga più complesso e sfumato di una crepa profonda che separa realtà distanti anni luce. Grazie ad esse la creatività tecnologica necessaria alla rivoluzione industriale è apparsa non più appannaggio esclusivo dell’Europa ed è stato possibile rilevare il fenomeno di regioni diverse in posizione di punta o comunque paragonabile a quella di vari settori europei, in grado di progredire nei loro modelli di progresso e diffusione del sapere. A ciò si sono aggiunte altre acquisizioni di carattere macro, arrivando a calcolare che nell’Asia del 1800 il reddito pro capite risultava solo leggermente indietro rispetto ai paesi occidentali (con la Cina addirittura in vantaggio) e che probabilmente anche i mercati del lavoro, della terra e dei prodotti occidentali della fase preindustriale non dovevano essere nel complesso più lontani dal modello di mercato perfettamente competitivo di quanto non fossero per esempio quelli cinesi. Solo successivamente le due aree avrebbero seguito sentieri di sviluppo divergenti fino al punto del superamento dell’Estremo Oriente da parte dell’Europa. Di conseguenza – puntualizza Kuznets- è difficile pensare che l’orientamento dei paesi arretrati o a modernizzazione più tortuosa, i loro sistemi ideali, le loro scale di valore, si nutrano sempre e comunque di logiche in contraddizione con lo sviluppo o destinati a ostacolarlo. Quasi tutti i paesi meno sviluppati hanno avuto al loro interno gruppi che, benché piccoli, sono entrati a contatto con la civiltà europea, con il suo sistema formativo o il suo retaggio intellettuale e spirituale. Talché – conclude Kuznets quasi in assonanza con la teoria diffusionista di Kroeber – vi è stata una disseminazione e ricombinazione di idee e valori di matrice occidentale al di fuori dell’Occidente stesso[2]. Valga fra i tanti esempi possibili il caso di Bentham, parte in causa in merito alla riforma delle istituzioni indiane o dei filosofi del filone utilitarista che usarono l’India come banco di prova per sperimentare le loro idee, essendo fra l’altro sia James che John Stuart Mill funzionari influenti della Compagnia delle Indie Orientali[3]. A questo proposito in uno studio fondato sul metodo dei minimi quadrati a due stadi, sì è dimostrato persino che il reddito pro capite del 1995 è elevato in aree storicamente “accoglienti” verso i colonizzatori europei e che quelle stesse aree, con il passare del tempo, si sono dotate di istituzioni buone. In sostanza l’eredità coloniale porterebbe a effetti collaterali positivi non prestabiliti sia sulle strutture amministrative, sia sulla crescita[4].
Anche da un punto di vista più strettamente storico-genetico, di intelaiatura culturale profonda dentro la quale si sviluppano le economie e le società, una visione cristallizzata dell’Oriente ha rivelato vieppiù una sua intrinseca e non trascurabile astrattezza. Naturalmente non si vuole arrivare a sostenere che Occidente e Oriente siano “terre gemelle”, è un dato di fatto però che l’India diede i natali al sanscrito, il quale esercitò influssi duraturi su quasi tutte le lingue europee; per gli antichi greci era Oriente la Persia, la quale a sua volta era Occidente per i Cinesi. Le linee di frontiera hanno in questo un qualcosa di convenzionale e molto sovente dipendono dal punto di osservazione. Il cristianesimo fu considerato dai Romani una fra le tante religioni orientali e sotto Augusto la repubblica romana si trasformò in un impero che non aveva il carattere di stato tipicamente occidentale. Meno che mai il mondo della tarda antichità reca i segni di un’antitesi fra Oriente e Occidente. Quando Costantino trasferì la sede del governo da Roma al Bosforo, non ci fu una scissione. Anche dopo quell’atto politico sopravvisse una svariata pluralità di ordini giuridici e civiltà in cui Oriente e Occidente erano intimamente mescolati[5]. Non solo: vi è il problema della coesistenza di molti “Occidenti” e molti “Orienti”. Molti istituti giuridici musulmani sono di diretta derivazione bizantina o persiana: le piae causae divennero lo uakf, istituto considerato tipicamente musulmano e l’agoranomos fu trasformato nel muhtasib[6]. Quello che si considera Oriente a un’analisi approfondita appare frutto della stratificazione di almeno tre grandi civiltà, senza tener conto delle molteplici civiltà minori come quella thai, viet, khmer, tibetana. Parimenti l’Occidente è la risultante dell’apporto della civiltà greco-romana, di quella giudaico-cristiana, di quella islamica e di altre civiltà minori che da quella slava a quella celtica hanno contribuito a tale formazione.

Oggi sul terreno della dislocazione spaziale degli assi economici – sebbene la globalizzazione abbia spazzato via quasi del tutto il classico repertorio di archetipi che aveva definito i contorni della civiltà occidentale (stato-nazione, confini, territorio, sovranità, etc.) dando vita a un unico sistema finanziario che domina da Mosca a Manila, da Tokyo al Texas e che ha reso sempre più difficile ragionare in base alle tradizionali categorie di Primo, Secondo e Terzo mondo – è in corso una transizione che sembra rimettere in gioco la concezione duale enunciata da Hegel. Ma con l’Oriente candidato a ricoprire il ruolo di mondo nuovo. I dati contenuti nel World economic outlook del Fondo monetario internazionale parlano chiaro. La stima 2010 per i paesi ad alto reddito vede una modesta crescita annuale di pil pari al 2.7%, mentre per le economie emergenti del G20, insieme al resto del mondo in via di sviluppo, la crescita corrisponde a un vigoroso tasso del 7.4%. Indipendentemente dai fenomeni di crisi – come quello rappresentato dalla crisi del 2008 iniziata negli Stati Uniti per eccesso di indebitamento – che hanno contribuito a questa economia globale a due velocità, a livello di grandezze aggregate dal 1950 in poi è l’Asia l’area dell’economia mondiale a crescere più rapidamente. Le nazioni industrializzate vi investirono capitali al fine di produrvi manifatture destinate all’esportazione. Tali produzioni divennero tra le esportazioni dei paesi in via di sviluppo, quelle dal tasso di aumento più elevato, circa il 10% l’anno, alquanto maggiore di quello delle manifatture dei paesi sviluppati[7].
Alti tassi di investimento e crescita rapida di pil hanno significato stock di capitale fisico aumentato più rapidamente che in altre parti del mondo. Non a caso per entità di investimenti in opere pubbliche, in tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni – realizzate o in via di realizzazione – ha iniziato a prendere corpo una “modernità non-occidentale emergente”, “un’avanguardia non bianca”. Soltanto per quel che riguarda il gruppo di paesi appartenenti al cosiddetto Far East, comprendente Cina, Indonesia, Cambogia, Malesia, Filippine, Tonga e Vietnam i tassi di crescita dell’investimento in strade, autostrade, ferrovie, porti e aeroporti si attestano al di sopra del 7% del pil. Di fatto Europa e Stati Uniti hanno espresso e realizzato i progetti a maggiore carica innovativa principalmente tra il 1900 e il 1980, allorquando le loro città stavano raddoppiando e si trovarono di fronte all’urgenza di realizzare i propri acquedotti, i propri trasporti pubblici, i propri servizi ospedalieri. Tutti aspetti che richiedono grandi volumi di investimento.
In seguito a questa fase si è assistito a un fenomeno di espansione urbana in Africa e Asia con un ritmo tre volte più alto del ritmo occidentale, speculare a una sua marcata perdita di slancio. L’esaurimento di nuovi fermenti in questa regione del globo è così andato di pari passo all’ascesa a Oriente di mercati in forte movimento di trasformazione. Il processo di industrializzazione ha messo in crisi vecchi equilibri e ha stimolato un processo di crescita urbana che difficilmente trova riscontro nei periodi di più intensa urbanizzazione della società europea o Nord-americana. Da oltre un ventennio le maggiori metropoli occidentali hanno nell’insieme arrestato la loro crescita e la spinta alla concentrazione, predominante per circa due secoli, ha lasciato il posto al decentramento sia produttivo, sia residenziale. Se all’inizio del novecento Londra e New York erano seguite nella graduatoria mondiale da Parigi, Berlino, Chicago e la maggiore città asiatica, Tokyo, veniva soltanto al settimo posto, già a metà del secolo era salita al quarto seguita da Shangai. In anni più recenti le principali conurbazioni americane (New York e Los Angeles) si collocano al terzo e all’ottavo posto. Mentre Londra e Parigi seguono a distanza con previsione di un’ulteriore retrocessione di New York corrispondente all’avanzamento delle maggiori città cinesi e indiane.
Diventato quindi più corto il fiato di un’area del pianeta è emersa una nuova geografia della competitività in termini di urbanizzazione dello spazio, accompagnata dal riconoscimento politico che la condizione chiave per il successo economico di un paese sia un forte sviluppo delle infrastrutture dei trasporti, delle comunicazioni e dell’energia. Quel che si sta verificando è di conseguenza una sorta di rotazione di 180 gradi dello schema hegeliano, con il profilarsi del rischio di una vera e propria inversione geoeconomica di leadership tra centro e periferia degli investimenti in infrastrutture.
Tre le conclusioni da trarre. La prima è che la globalizzazione produrrebbe nuovi “vincitori”e nuovi “vinti” rendendo ormai strategica un’analisi bidirezionale (Occidente ↔ Oriente) dei problemi e delle implicazioni emergenti da tale nuova geografia. La seconda è che ancora una volta sembra non avere più ragion d’essere un modello di modernizzazione intesa come intervento esclusivo da parte dei centri egemonici dominanti su aree periferiche o come intervento di integrazione di una parte del mondo nel mercato capitalistico internazionale. Terza conclusione è che per le economie occidentali è vitale adeguarsi al mondo in cui si trovano a operare. Lo schema neoclassico prevede che nel tempo i costi di produzione tendano all’allineamento. La disponibilità dell’innovazione tecnologica porta a tassi di crescita convergenti nella produttività. Ma la chiave per renderla disponibile è nelle mani dei governi. Quando essi intervengono al fine di regolare i mercati per ottenere vantaggi, per proteggere le imprese dalla concorrenza straniera, allora le divergenze vengono rafforzate. Non è così nel campo dell’investimento infrastrutturale dove viceversa senza rinforzi provenienti fuori dal mercato le differenze nazionali possono permanere o aggravarsi. Soprattutto se queste asimmetrie si sommano, riguardando selettivamente soltanto alcuni aggregati economici, l’aspettativa di convergenza sistemica sottesa dal modello neoclassico rischia di non vedersi mai realizzata.

Il vantaggio competitivo è profondamente influenzato dal minor costo delle percorrenze e dall’accessibilità dei mercati. Inoltre le grandi imprese agiscono a livello mondiale o di grandi aree geografiche, ma selezionano la loro localizzazione sulla base della disponibilità di una catena del valore riconducibile sostanzialmente a: istruzione, costo del lavoro, sistemi di regole antimonopolistiche e non ultimo, buone infrastrutture. La mancanza di una risposta alla sfida economica lanciata da aree in cui l’insieme di questi fattori è omogeneo, compromette la formazione di un mercato globale mobile ed efficiente. Se si assume poi un livello di osservazione focalizzato in via esclusiva sull’ultimo dei quattro fattori appena indicati, si scopre che sono in atto iniziative di politica infrastrutturale chiuse all’interno delle frontiere statali nazionali non occidentali, antitetiche alla formazione di una “comunità civile internazionale” a elevato livello di integrazione e che possono spostare il baricentro del vantaggio competitivo verso una sola area del pianeta. Lo sottolineava implicitamente già 12 anni fa Alice Rivlin dall’osservatorio del Congressional Budget Office degli Stati Uniti. Secondo le sue stime, nei paesi Ocse la spesa pubblica in conto capitale e la spesa privata ad essa associata, riguardano sempre meno la realizzazione di infrastrutture con forti esternalità e interdipendenze per le attività produttive, sempre più invece la manutenzione straordinaria e l’ammodernamento del parco infrastrutturale esistente, oppure il collegamento e l’innalzamento degli standard per lotti o tratti di infrastrutture costruite nell’arco di decenni e con caratteristiche tecnico-economiche diverse. In Europa in particolare, mentre nei cento anni che vanno dal 1870 al 1970 la spesa pubblica – all’interno della quale è rubricata la voce infrastrutture – è quasi triplicata rispetto al pil salendo dall’11.8% al 33.7%, nel quarto di secolo che va dal 1970 al 1993 ha toccato il 57% di pil, per scendere progressivamente in seguito alle severe politiche di restrizione del disavanzo e del debito. Ciò significa che nel campo delle reti vi è bisogno di un nuovo sforzo di politica economica nazionale. Fermo restando il principio del rigore si tratta di meditare nuovamente sulla centralità del ruolo dello Stato, sulla capacità e la forza risolutiva della mano pubblica. Si consideri l’esempio di un progetto per il controllo delle inondazioni i cui benefici siano a vantaggio di un’intera regione. La spesa sostenuta contribuisce al benessere della società nel suo insieme. Ne beneficeranno tutti coloro che vivono in quel luogo particolare. Alcuni possono trarre benefici maggiori di altri, ma ciascuno sa che il proprio beneficio non dipenderà dal proprio contributo personale. Perciò, non potendo contare sul fatto che ciascuno contribuisca volontariamente, trattandosi di fattispecie in cui la valutazione del bene non deriva semplicemente dalla regola della sovranità del consumatore, lo stato deve entrare in gioco[8]. La teoria economica usa la nozione di “bene di merito”, per individuare quei servizi o beni – come le infrastrutture – che per la società e l’economia possono avere un valore superiore a quello che i privati potrebbero loro assegnare e che si pongono in una posizione trasversale rispetto alla tradizionale distinzione tra beni privati e beni pubblici[9].
Il G20 di Seoul ha lanciato un nuovo progetto – Seoul Development consensus for Shared Growth – che si propone di incentivare finanziamenti relativi a infrastrutture quali strade e impianti energetici. Tale obiettivo è coerente con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio fissati dalle Nazioni Unite: aumentare la produzione agricola e creare infrastrutture nei paesi in via di sviluppo. Sempre nel corso del G20 di Seoul il primo ministro indiano Singh ha consigliato che i surplus dei G20 vadano incanalati in investimenti infrastrutturali nei paesi più poveri, meglio sicuramente, come fanno gli USA, che fare pressione su Cina, Germania, Giappone a altri paesi affinché incrementino i consumi e incentivino la domanda. Con l’obiettivo di finanziare urgenti investimenti infrastrutturali in paesi “terzi”, si rischia però di rimuovere degli squilibri e di crearne di nuovi. Pertanto il drenaggio di risorse pubbliche da parte dei paesi ricchi dell’area occidentale – corredato naturalmente di meccanismi che fanno uso del mercato come nelle circostanze in cui vale il teorema di Coase – deve concretizzarsi in interventi che traggono la loro motivazione proprio da una non più rinviabile esigenza di catching up di “beni di merito” (più che meri beni pubblici) resi disponibili nella quantità e qualità appropriata su base nazionale. La competitività nel mercato mondiale richiede un ambiente competitivo sul mercato interno. In un sistema economico complesso, tendenzialmente interdipendente, le varie componenti devono crescere in modo più o meno equilibrato. Se il mercato da solo non produce determinate categorie di beni, si devono predisporre adeguate strategie di intervento pubblico volte al riequilibrio. Sulla linea di un approccio volto al bilanciamento dell’offerta le proiezioni di Booz, Allen & Hamilton calcolano infatti 7800 miliardi di dollari ripartiti metà in Europa e USA e metà altrove, da spendere da qui al 2030 per il fabbisogno di strade e ferrovie delle grandi città del mondo. Resta una domanda. Se i governi seguissero tale agenda, quale sarebbe l’impatto della loro azione?
In base alle analisi del Centro di ricerca sui trasporti e le infrastrutture (Crmt), si calcola che soltanto in Italia per ogni chilometro di autostrada costruita in un’area urbanizzata si generano in 20 anni 660 nuovi posti di lavoro, mentre per ogni chilometro di nuova ferrovia se ne creano circa 450. Sempre su un medesimo arco temporale la realizzazione di un chilometro di autostrada genererebbe un incremento di circa 125 milioni di euro sul pil, equivalenti a circa 6 milioni di euro l’anno, mentre la realizzazione di 1 chilometro di ferrovia ne genererebbe circa 70.

Si evidenzia inoltre che se la nuova infrastruttura è in grado di mettere in comunicazione punti nevralgici per lo sviluppo del territorio (imprese, aree industriali, aeroporti), sul fronte occupazionale un nuovo chilometro di autostrada porterebbe in 20 anni a circa 1100 nuovi posti di lavoro e a generare un incremento di pil pari a 260 milioni di euro. Per un chilometro di ferrovia con le medesime caratteristiche l’impatto sul pil salirebbe da 70 a 130 milioni di euro, con la creazione di 600 nuovi posti di lavoro.
Per quel che riguarda realtà internazionali, vi è l’esempio dell’investimento infrastrutturale in una rete capace di collegare 83 delle maggiori città africane e che porterebbe il commercio africano a crescere da 10 a 30 milioni di dollari l’anno[10]. Similmente l’investimento infrastrutturale in 27 paesi collocati tra Europa dell’Est e Asia centrale porterebbe i loro scambi commerciali ad aumentare del 50%[11]. In definitiva è ormai assodato che le scelte di natura politica finalizzate ad aumentare la quantità e la qualità delle infrastrutture si riflettano significativamente sul benessere dei cittadini e sul reddito prodotto.

2. Storie vere
La Cina è tra i principali casi empirici di sostenuta crescita infrastrutturale. Nel 2000 a 15 chilometri a Sud di Shangai è partito il progetto del nuovo insediamento di Pujang. Sviluppato lungo il fiume Huang Pu, ha previsto la realizzazione di una infrastruttura di connessione con il centro di Shangai, corredato di tutta una serie di tecnologie di meccanizzazione del trasporto merci, di forniture di people mover, di strutture impiantistiche per lo smaltimento dei rifiuti e per il teleriscaldamento. La rapidità di decisione è stata del tutto speciale e alla città ultimata in 10 anni si è aggiunta la realizzazione del villaggio di Shimao. Destinato ad accogliere circa 10000 abitanti si affaccia sullo snodo del fiume Huang Pu al di là del quale è sorto un importante polo universitario. Calcestruzzo, ferro e high tech si coniugano anche nel progetto, da realizzare entro il 2020 nella zona del delta del fiume Pearl, di un’area urbana da porre al servizio di un’utenza potenziale di circa 40 milioni di persone, integrata da 5000 chilometri di ferrovia ad alta velocità.
Sempre entro il 2020 il governo di Wen Jiabao ha programmato la costruzione di 80 nuovi scali regionali aeroportuali da aggiungere ai 482 attuali, con investimenti pari a 62.5 miliardi di dollari. In campo ferroviario sono previsti 18 nuovi terminal in altrettante città. In tutto il paese lo sviluppo di infrastrutture per i trasporti sta vivendo un’accelerazione senza precedenti. Complessivamente la Cina intende investire in infrastrutture una cifra pari al 14% del pil su una superficie geografica pari a quattro volte l’Europa e con un movimento merci che, solo su ferro, costituisce un quarto del carico mondiale.
Nel campo dell’ingegneria idraulica essendo il Fiume Yangtze un’arteria vitale per le regioni centro-meridionali si ipotizza la costruzione di tutta una serie di deviazioni verso la zona Sud di Nanjing e verso la zona nord. Un altro grande progetto è una commessa di 10 miliardi di dollari per la realizzazione di isole artificiali, 4 km di tunnel sottomarino e un ponte di 37 km che collegheranno fisicamente il continente e le ex colonie di Hong Kong e Macao.
Per comprendere meglio la continuità storica dello sforzo è sufficiente ricordare che in Cina gli investimenti in infrastrutture soltanto tra il 1981 e il 2000 sono aumentati di 61 volte e che tra il 1990 e il 2005 sono stati costruiti ben 50 mila chilometri di nuove strade in due sole province: Sichuan e Jiangsu. L’obiettivo è stato ed è tuttora, la costruzione di un sistema di trasporto moderno e integrato che assicuri una distribuzione razionale delle infrastrutture sul territorio nazionale. Parallelamente al processo di riforma e di apertura economica, l’undicesimo piano quinquennale nazionale (2006-2011) e i corrispondenti piani provinciali, hanno dato priorità assoluta allo sviluppo dei mezzi di comunicazione.
In India la presenza dello Stato nel settore delle infrastrutture è schiacciante. Non mancano naturalmente le voci critiche. Vi è chi fa notare che c’è un eccessivo sviluppo infrastrutturale automotiveoriented a cui viene opposta una filosofia sostenibile legata allo sviluppo dei trasporti pubblici e della pedonalità. Gli esperti di Mckinsey sostengono che vi è un deficit di pianificazione e che non vengono affrontati i problemi dell’approvvigionamento idrico, per esempio. Vi è poi il richiamo al problema di un elevato livello di povertà e di una diffusa economia tradizionale con straordinari livelli di reddito nel cuore dell’economia indiana. Tuttavia i programmi infrastrutturali in atto non sono per forza di cose sinonimo di entropia. Ѐ diffusa infatti la convinzione che solo con una efficace politica regionale e di integrazione del subcontinente possa ridefinirsi e accentuarsi il ruolo dell’India a livello globale. In particolare dal 2005 gli esperti del World economic forum sostengono che riforme troppo lente e ritardi negli investimenti in infrastrutture (segnatamente idriche ed energetiche) rischierebbero di portare la crescita a un tasso del 4% annui. Qualora la disponibilità idrica per abitante continuasse a scendere sia nelle campagne, sia in aree nuove come Gurgaon – il nuovo centro terziario di Dehli – o Bangalore, considerata da tempo la silicon valley dell’India, si potrebbero generare esternalità talmente forti da soffocare le aspettative di crescita.

A oggi però tale scenario non sembrerebbe candidato a realizzarsi del tutto. Nel novembre 2007 il chief minister del Bengala occidentale, il più popoloso stato dell’India orientale, ha illustrato i due grandi progetti in cantiere: quello di un porto marittimo e di un aeroporto nel distretto di Haldia affacciato sul golfo del Bengala. Nel febbraio 2010 Kamal Nath, ministro dei trasporti indiano, ha impegnato il suo dicastero in un programma di investimenti solo nel settore stradale pari a 75 miliardi di dollari, di cui 45 di privati. Con la previsione di portare entro il 2014 al 9% del pil la spesa complessiva in infrastrutture, attualmente attestata al livello del 6.5% . Ma c’è di più: per il quinquennio 2012-2016 si punta al raddoppio del volume complessivo dei finanziamenti: mille miliardi di dollari, rispetto ai 500 previsti dal piano precedente. Il tutto inserito nel quadro di un’economia con punte di crescita pari all’8-9% l’anno da circa un decennio (quando in Europa una crescita del 2.5 rappresenta già un successo notevole) e di un mercato che è destinazione privilegiata per molte imprese estere in virtù di un buon livello di produttività, per disponibilità di materie prime a prezzi competitivi e per la presenza di un sistema legale di matrice anglosassone. Dall’indipendenza a oggi la vitalità della carta costituzionale e della prassi democratica hanno assicurato infatti in maniera forse impensabile all’inizio, la certezza dei diritti individuali, la tutela dell’identità dei gruppi, la promozione delle autonomie locali. La lingua ufficiale della legislazione federale e la lingua dei procedimenti giudiziari è l’inglese (dal livello di high court in su). Il diritto societario si fonda su modelli molto familiari al giurista occidentale e ha poco da invidiare nella sua applicazione pratica, all’esperienza dei sistemi di company law più avanzati. Tale caratteristica non è da sottovalutare. Come confermato infatti di nuovo dai succitati studi svolti in base all’applicazione del metodo dei minimi quadrati a due stadi, i sistemi di common law di origine anglosassone hanno un effetto migliorativo sulla formazione di istituzioni, determinando ad esempio, minori rischi di espropriazione. L’analisi svolta su un campione di 64 paesi costituito da nazioni con sistemi giuridici di civil law di origine francese e di common law di origine anglosassone ha portato alla conclusione che i sistemi giuridici di un certo tipo hanno effetti sistematici sulla qualità delle istituzioni di governo[12]. Oltretutto l’India dispone di figure tecniche e manageriali di alto livello con una popolazione in cui la metà ha un diploma di scuola superiore e il 7% è laureato, trattandosi del secondo maggior polo al mondo come numero di scienziati e ingegneri con punte di eccellenza nei settori dell’ITC, delle biotecnologie e dell’informatica.
Tornando alla questione degli investimenti esteri occorre tener presente che questi ultimi a partire dal 2002 si stanno concentrando maggiormente proprio in zone caratterizzate da una più elevata dotazione di infrastrutture (la regione Sud-occidentale del paese in prossimità di Delhi), oltre che da altri fattori quali tasso di scolarizzazione o concentrazione di aree di ricerca. Da questo punto di vista si sono rivelate centrate sia le analisi dell’UNCTAD (United nations conference on trade and development) che nel World Investment Report del 2007 definiva l’India una delle tre migliori destinazioni degli investimenti esteri fra gli stati emergenti, sia le stime elaborate nel 2004 da una società di consulenza come A. TR. Kearney che considerava l’India terza destinazione di investimenti più interessanti al mondo. Tali previsioni mostrano che l’economia indiana è il vero jolly sulla scena economica internazionale. La revisione al rialzo della crescita, dal 5.7% all’8% nello studio di Goldman Sachs del 2007 anticipa di quasi 10 anni il recupero nei confronti dell’Europa. Al ritmo di una crescita dell’8-10% l’anno, l’elefante indiano guadagna ogni anno posizione nella gerarchia mondiale fino ad apparire destinato a diventare uno dei tre o quattro giganti economici del futuro.
E l’Italia? Per una trattazione ampia e approfondita del problema infrastrutture rimando alle analisi penetranti di Pierluigi Ciocca[13] e di Giovanni Agostino Torelli[14] come pure al Rapporto 2009 di “Italiadecide”[15]. Tuttavia mi preme sottolineare – in linea con le tesi di Francesco Karrer[16], di Filippo Satta e Anna Romano[17] – che un primo grande problema è rappresentato dalla qualità della progettazione. Da essa dipende sicuramente la qualità dei servizi collettivi, ma occorre porre al centro della riflessione anche la questione “storica” del ritardo accumulato nella nascita di società di ingegneria (SI) come attori distinti dalle imprese di costruzione, in grado di coadiuvare l’amministrazione nella progettazione e nel management della creazione infrastrutturale. Il premio Nobel per l’economia Joseph G. Stigler sottolinea i vantaggi derivanti dal servirsi di attori esterni per l’acquisto di prodotti o servizi generati da attività e funzioni interne caratterizzate da rendimenti di scala crescenti. Se una certa attività presenta costi unitari decrescenti oltre il fabbisogno interno di una certa impresa, quest’ultima potrebbe trovare conveniente rivolgersi ad attori esterni indipendenti che realizzano quelle attività anche per altre imprese, ottenendo così costi unitari inferiori rispetto all’impresa a valle. In condizioni di concorrenza – continua Stigler – le imprese esterne fisseranno un prezzo uguale al loro costo medio. Questo prezzo sarà dunque inferiore al costo unitario sostenuto da un’impresa a valle se quella attività fosse integrata e limitata al suo fabbisogno interno[18].
In Italia quindi una maggiore incentivazione alla nascita di forti società di ingegneria, autonome dal mondo delle imprese di costruzione, si sarebbe rivelata una strategia decisiva. Malgrado in generale si tratti di attori che operano sul mercato mondiale, una solida base nazionale, fattori attinenti a risorse e opportunità sfruttabili nel paese di origine rappresentano elementi critici nel favorirne la performance e la competitività sui mercati esteri, più in particolare attraverso la domanda nazionale di grandi progetti e attraverso governi in grado di promuovere politiche di incentivo alla ricerca e alla diffusione di conoscenze tecnologiche in campo ingegneristico. Come dimostra l’esperienza delle SI sorte negli Stati Uniti dagli anni venti del novecento in poi, è dal mercato nazionale che tali società accumulano le competenze sui cui fondare la loro competitività all’estero. Anche in una configurazione di massicci scambi internazionali, lo Stato è inscindibile dalla sua base territoriale. La localizzazione di strade, ferrovie, grandi impianti resta una scelta fondamentale, non è pensabile una “de-geografizzazione” totale. Pertanto una domanda nazionale che richieda progetti tecnologicamente sempre più avanzati può avere una funzione cruciale nello stimolare gli sforzi innovativi delle SI. Purtroppo la difesa più o meno corporativa delle ragioni degli studi professionali e l’idea di uno Stato in cui il ricorso ad organizzazioni di servizi esterni all’amministrazione è stata superata a fatica, hanno finito per ostacolarne la crescita.

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Note

1.  Mi riferisco in primis a tutta una letteratura di matrice istituzionalista e a studi di scuola braudeliana.

2.  Cfr. S. Kuznets, Popolazione, tecnologia, sviluppo, Bologna, 1990, p. 285.

3.  Cfr. A. Maddison, L’economia mondiale. Una prospettiva millenaria, Milano, 2005, p. 178.

4.  D. Acemoglu, S. Johnson, J.A. Robinson, The colonial origins of comparative development: an empirical investigation, in “American economic review”, n. 91, pp. 1369-1401.

5.  Su questi punti vedasi in particolare: J. Huizinga, Lo scempio del mondo, Milano, 2004.

6.  Cfr. E. Ashtor, Storia economica e sociale del Vicino Oriente, Torino, 1982, p. 16.

7.  Cfr. W. A. Lewis, L’evoluzione dell’ordine economico internazionale, Torino, 1983, p. 31.

8.  Cfr. R. Musgrave, Finanza pubblica, equità, democrazia, Bologna, 1995, p. 176.

9.  R. Musgrave, The theory of public finance. A study in political economy, New York, 1959.

10.  P. Buys, V Deichmann, D. Wheeler, Road network upgrading and overland trade expansion in Sub- Sahrian Africa, in “Policy research working paper”, n. 4097, World bank development research group, Washington D. C., 2006.

11.  B. Shepherd, J. Wilson, Trade, infrastructure and roadways in Europe and Central Asia: new empirical evidence, in “Journal of economic integration”, n. 4, 2007, pp. 723-747.

12.  D. Acemoglu, S. Johnson, J.A. Robinson, The colonial origins of comparative development: an empirical investigation, op. cit.

13.  P. Ciocca, Economia e diritto delle infrastrutture, in www.apertacontrada.it

14.  G.A. Torelli, Alcune considerazioni in tema di investimenti in infrastrutture in Italia e all’estero, in www.apertacontrada.it

15.  Italiadecide, Rapporto 2009. Infrastrutture e territorio, Bologna, 2009.

16.  F. Karrer, Reti, Infrastrutture, territorio. Percorsi difficili tra molte asperità, in www.apertacontrada.it

17.  F. Satta, A. Romano, Ridurre i tempi delle infrastrutture, in www.apertacontrada.it

18.  J.G.. Stigler, Industrial organization and economic progress, in L. White (a cura di), The state of social sciences, Chicago, 1956.