Reti, infrastrutture, territorio. Percorsi difficili tra molte asperità

1. Inquadramento della problematica
L’importanza delle infrastrutture nella vita culturale, sociale ed economica non ha bisogno di essere ricordata. È fondamentale da sempre: da quando la dotazione di infrastrutture era minima per contenuti, qualità e quantità, a quando questa è cresciuta, sempre in contenuti, qualità e quantità.
Le infrastrutture, oltre a consentire di svolgere le funzioni proprie cui sono preposte – la distinzione con le attrezzature e/o strutture è di origine ottocentesca, non più valida del tutto sotto il profilo scientifico, ma ancora largamente in uso -, «strutturano» i territori. L’effetto strutturante varia, ovviamente, in rapporto al grado di dotazione di infrastrutture dei diversi territori ed alla natura delle loro economie oltre che ad altri fattori (culturali, geografici, etc.), di non secondaria importanza.
Ma questa funzione va tenuta ben presente nella riflessione sul ruolo, sulle politiche, sull’organizzazione relativa alla produzione, manutenzione e gestione delle infrastrutture: si ha un effetto strutturante anche quando le dotazioni di base sono già piuttosto elevate; gli incrementi – quello infrastrutturale è prevalentemente una pianificazione di tipo incrementale -, servono infatti sia a migliorare che a mantenere il livello di attrattività e competitività dei territori.
Questa constatazione empirica e non, dovrebbe far cadere molte polemiche che accompagnano sovente sia la programmazione che la realizzazione di infrastrutture: servono e quali? chi se ne avvantaggia? chi ne subisce gli eventuali effetti negativi?etc.[1].
La funzione delle infrastrutture è spesso anche quella di contribuire al rilancio economico, sia in ordine al già ricordato effetto strutturante il/i territorio/i, che in una logica economica anticiclica: in questo la loro realizzazione viene accomunata in generale all’edilizia. Da qui anche la questione delle «grandi opere» posta in contrapposizione a quella delle «piccole» (?) in ordine sia al maggiore o minore effetto strutturante che alla capacità di moltiplicare gli effetti degli investimenti pubblici e misti[2], sia nel campo occupazionale che della produzione industriale indotta, ad esempio.
Solitamente con il termine «infrastrutture» si intendono le strade, le ferrovie, i porti, gli aeroporti, gli interporti, etc. Cioè le infrastrutture destinate al trasporto di persone e cose.
Ma, ovviamente, questa è una abbastanza grossolana riduzione della questione. Sono infrastrutture anche quelle funzionali alla comunicazione a distanza, all’energia, all’alimentazione idrica, allo smaltimento dei reflui, etc. Per di più le infrastrutture vengono «assiemate» (“cunicoli intelligenti, infrastrutture, etc.).
Oggi il termine viene considerato sinonimo di «rete» che è anche, notoriamente, il paradigma interpretativo tra i più usati per spiegare fenomeni complessi, sociali e/o economici che siano.
Infrastrutture a rete (quelle lineari) e infrastrutture puntuali (le attrezzature, quali porti, aeroporti, interporti, ad esempio), sono infatti altri modi per definire la loro natura.
Possono essere connesse e/o integrate, separate e/o disgiunte: questo è un modo per definire le relazioni reciproche tra le diverse infrastrutture nella loro concezione, realizzazione e gestione. E, implicitamente, per definire la qualità della dotazione di infrastrutture di un paese o di una sua porzione.
Qualche anno fa il CNEL, sull’onda degli studi sulla cosiddetta «resotica», aveva fatto un bel rapporto sullo stato delle reti in Italia chiamando a contribuire alla sua redazione gli stessi soggetti detentori di potere (proprietari, gestori) in materia, rete per rete[3].
Poteva essere la base per una pianificazione integrata e/o a sistema.
E’ risultata, purtroppo, solo una fotografia dell’Italia sconnessa; la connessione è una delle caratteristiche prime di una rete ben strutturata, come insegna la teoria delle reti.
La sconnessione può essere fisica o gestionale, spesso lo è sia fisica che gestionale.
Si pensi alla rete stradale, la cui conoscenza è abbastanza comune, almeno in questo aspetto. Essa è condivisa (meglio divisa) tra i comuni, le province, le regioni, lo stato. Per non dire di consorzi di bonifica, comunità montana oltre che di privati.
La rete di competenza regionale e statale può essere gestita anche da soggetti altri, quali i concessionari di costruzione e gestione o solo di una delle due funzioni[4].
Si ha così una divisione di ordine gestionale che si aggiunge a quella fisica. La sconnessione è infatti anche fisica, nel senso che non vi è unitarietà del dominio dei diversi soggetti proprietari.
Un problema che diviene del tutto evidente in occasione delle varie emergenze, ad esempio meteorologiche: l’eventuale decisione di porre restrizioni alla circolazione, l’organizzazione dell’informazione agli utenti, per non dire dell’assistenza agli stessi, ne risentono in misura notevolissima.

2. Le criticità nella filiera decisionale
Fatta questa premessa, per ragionare più da vicino sui perché delle difficoltà di programmazione e di realizzazione delle infrastrutture in Italia, ma senza dimenticare questo inquadramento teorico-metodologico che ha fortissime conseguenze operative, limitiamoci al caso delle infrastrutture di trasporto.
Che, peraltro, «portano» molte delle altre infrastrutture: quelle stradali e ferroviarie sono infatti «sede» anche di infrastrutture idriche, energetiche, di telecomunicazioni, etc.
Per inquadrare il problema occorre richiamare il ciclo dell’opera pubblica da una parte e quello del suo finanziamento nella condizione ordinaria e nella condizione straordinaria, dall’altro. Quest’ultima fattispecie è quella delle cosiddette «leggi provvedimento» – la cui ultima, più nota manifestazione è la cosiddetta «legge obiettivo» (l.n. 443/2001) -; leggi cioè che identificano con buona approssimazione l’opera da realizzare; a volte contestualmente viene anche decisa la posta finanziaria. Da ciò derivano i percorsi decisionale – programmatorio – autorizzatorio di tipo speciale.
Anche se va riconosciuto che le cosiddette semplificazioni (puntuali e/o parziali e non come sarebbe auspicabile, «di sistema»), apportate ai procedimenti autorizzatori soprattutto, tendono a ridurre le distanze tra le opere ordinarie e quelle straordinarie o speciali.
Proviamo a descrivere, seppure molto sinteticamente, il processo ordinario per quanto riguarda una infrastruttura di trasporto nella sua generalità, senza cioè analizzare le differenze, che pure ci sono, ed in misura rilevante, tra le singole infrastrutture (stradali, ferroviarie, porti, aeroporti, interporti e centri logistici in genere), per rilevarne le maggiori criticità.
In generale la «filiera» si può così scomporre: la politica dei trasporti; la pianificazione di settore e di area; la programmazione attuativa; la progettazione della singola opera, comprendendovi la fase di verifica e validazione del progetto; quindi quella della realizzazione, comprensiva degli affidamenti, in questo caso, dei lavori; per arrivare al momento del collaudo e dell’entrata in esercizio.
Ovviamente la filiera risente di alcune decisioni fondamentali che rappresentano una sorta di pre-condizione: l’opera è finanziata in toto dalla fiscalità generale? lo è solo parzialmente e quindi si deve ricorrere al concorso della finanza privata? L’opera è finanziata, sempre parzialmente, utilizzando la valorizzazione immobiliare, «ri-versando»[5] cioè sul finanziamento dell’opera l’effetto della valorizzazione dei suoli e dei fabbricati serviti dalla nuova infrastruttura (implicitamente delle destinazioni d’uso degli stessi)?
Quello della politica delle infrastrutture è probabilmente il momento più critico. Dalla sua «certezza» dovrebbe derivare la certezza dell’intero processo. Al contrario, registriamo, purtroppo, sempre meno determinazione e sempre più, di conseguenza, rinegoziabilità, fino alla rimessa in discussione permanente della decisione sull’opera.
La catena di comando è tutt’altro che tale. Più che la quantità di procedimenti è la mancata uniformità delle amministrazioni a determinare questa criticità, quasi indipendentemente dal diverso orientamento politico delle stesse. E, si badi bene, ciò riguarda anche una singola amministrazione.
Se la decisione politica fosse realmente indiscutibile, ciò non avverrebbe.
Cosa occorre perché la decisione di politica sia tale? Molte sono le condizioni necessarie: condivisione delle esigenze da parte dei partecipanti al gioco decisionale, informazione e pariteticità informativa, partecipazione, accettazione della decisione anche se non la si condivide, continuità amministrativa. In parallelo occorre un coerente piano di finanza. La certezza della decisione dipende per larga parte dalla certezza della finanza (entità, modalità di erogazione, etc.).
Come una sorta di pre-condizione, gioca la «qualità» del progetto dell’opera, sia che questa sia già prevista da un piano di area (statale, regionale, locale) che di settore[6], come strumento a base della decisione.
Al momento della decisione di politica, il progetto dovrebbe essere definito al punto tale da consentire la presa della decisione, quindi avere le caratteristiche di cui sopra.
Il progetto dovrebbe per di più aver esplorato le alternative e le maggiori varianti, verificato il suo impatto sull’ambiente inteso nelle componenti sociale, ambientale in senso proprio (ivi compreso il profilo culturale, quello paesaggistico, etc.), ed economica.
Quando l’opera «nasce» da un piano di settore e /o di area (meglio se da tutte e due le forme di piano), questa attività deve intendersi già svolta dal piano e dalla speciale valutazione (quella detta strategica – VAS – di cui alla direttiva comunitaria 2001/42 e relative leggi di recepimento statale e regionale)[7], cui il piano è obbligatoriamente assoggettato.
Quando l’opera non nasce da un piano, ma da una decisione ad hoc, comunque legittima (impegni internazionali, imprevedibilità dell’esigenza, carenze della pianificazione, etc.), il progetto, prodromico alla decisione, dovrebbe comunque rispondere ai requisiti di cui sopra. Deve ricercare le coerenze pianificatorie, deve sapersi «territorializzare», appunto cercando ex ante l’inserimento migliore, etc. Deve, in definitiva, essere concepito come se si stesse formando un piano.
In ogni caso deve aver previsto il costo della sua realizzazione, comprensivo anche delle cosiddette misure di compensazione, quelle cioè che sono necessarie per «accompagnare» il progetto nel suo inserimento nel territorio.

3. Le «compensazioni» per risolvere le criticità della decisione
Questa delle misure di compensazione è una problematica molto delicata. Se non negoziate da subito, nella tipologia e nei costi, possono essere fonte di distorsione del processo decisionale oltre che causa di superamento significativo delle previsioni di spesa.
Con il rischio anche d’incorrere in sanzioni della magistratura contabile, ma soprattutto di alterare la fisiologica allocazione delle risorse pubbliche.
Attualmente, le misure di compensazione – quando lo sono – vengono definite solo per via dell’incidenza economica massima ammissibile. Occorrerebbe definire meglio la tipologia delle opere – secondo il principio che le misure di compensazione debbono essere «in link» con l’opera principale -, ed il momento nel quale si decidono, cioè sono negoziate.
Proporle al momento del progetto definitivo, quando cioè normalmente si devono acquisire le diverse approvazioni, nell’esperienza è risultato assolutamente poco funzionale.
Altrettanto poco funzionale è risultato proporle all’atto del concepimento dell’opera.
Nel primo caso è «troppo tardi»; nel secondo, è «troppo anticipata» la loro definizione. Tanto più che non si è provveduto ancora a definire preventivamente la loro natura e la misura finanziaria sopportabile[8].
Il ricorso sempre più frequente all’uso delle misure di compensazione è poi un indicatore molto significativo del grado di sconnessione che esiste a livello decisionale. Perché si deve compensare? Evidentemente l’opera della quale si deve compensare l’impatto territoriale non nasce da una logica di pianificazione o, per lo meno, «di sistema».
Costruire la politica del territorio e delle infrastrutture (di trasporto e non solo), presuppone di aver definito il quadro delle esigenze e quello delle priorità. Operazioni entrambe primariamente negoziali tra i soggetti in gioco che sono molteplici, come noto. Ciò per via del tradizionale «policentrismo decisionale» istituzionale italiano e per via della presenza di numerosi altri portatori di interessi oltre quelli istituzionali.
La compensazione (oggi si tende a definirla anche come perequazione), dovrebbe essere implicita alle scelte operate con il piano e nel piano, in quanto l’obiettivo dell’equilibrio e/o della «compensazione redistributiva» è stato perseguito esplicitamente, ed accettato perché realizzabile.
Ritornano le questioni di sempre: a quali infrastrutture dare priorità e quindi, ancor prima, a quali modalità di trasporto (terrestri – e, se sì, stradali o ferroviarie?- aeree, marittime, fluviali); che grado di interconnessione ricercare rispetto alla monomodalità; quali tra i segmenti di domanda privilegiare (persone, merci) e quali spostamenti rispetto alla lunghezza degli stessi (lunghi o locali).
Tutte questioni che attengono al gioco combinato tra ambiente, sviluppo economico, assetto del territorio e politica dei trasporti: problema non certo semplice da governare, ma non per questo eludibile.
Un problema che fa apparire comunque insoddisfacente anche la posizione, peraltro condivisibile per molti aspetti, che sostenne il ministro Paolo Costa con il famoso rapporto dal titolo: Le infrastrutture? Tutte quelle che servono, solo quelle che servono.
Appunto: quali sono quelle che servono? chi lo decide? in rapporto a quale politica dell’ambiente e del territorio? in rapporto a quale grado di copertura della domanda ed a quale forma e livello di «perequazione infrastrutturale»[9] raggiungere?
L’imperfetto processo di presa delle decisioni è senz’altro alla base di conflitti interistituzionali – favoriti, peraltro, dalla ripartizione delle funzioni tutt’altro che perfetta –, che contribuiscono notevolmente all’allungamento dei tempi di realizzazione delle opere nonché allo stesso aumento dei costi.
In corso d’opera si rendono infatti necessarie varianti e compensazioni non previste e, soprattutto, si alimenta una conflittualità che dal livello istituzionale passa a quello sociale (e viceversa), quest’ultimo proposto spesso come «conflitto ambientale», anche se non sempre è veramente tale. Molte le ragioni del conflitto: mancato coinvolgimento nel processo decisionale, cattiva comunicazione del progetto quando non addirittura disinteresse per la informazione e comunicazione, scarsa attenzione per le esigenze locali, budget ridotti per le compensazioni ambientali, sociali ed economiche, etc.
Un insieme di cose, purtroppo legittimato da esperienze precedenti non edificanti, che favorisce la conflittualità. Alla quale si può aggiungere il ruolo dei sistemi di comunicazione, interessati più all’enfatizzazione del conflitto che non alla sua risoluzione – posizione che spesso coincide con l’interesse primo degli oppositori -, tanto che nella gestione dei conflitti ambientali la prima cosa da fare è proprio quella di (cercare di) separare chi è interessato al conflitto in quanto tale da chi, al contrario, è interessato alla risoluzione dello stesso, previo il «miglioramento» del progetto e, più in generale, della decisione.
Una volta deciso il quadro politico pianificatorio–programmatorio, la cui definizione è resa peraltro sempre più complessa per via della crescente importanza dell’esistente (la marxiana questione del capitale fisso sociale ritorna di grande attualità!), pianificabile soprattutto come «management» dell’esistente, anziché come pianificazione ex novo del nuovo, inizia il ciclo vero e proprio dell’opera pubblica: studio di fattibilità, documento di progetto, progetto preliminare e verifiche, progetto definitivo e verifiche, progetto esecutivo e validazione. E quindi la realizzazione anch’essa molto articolata sia proceduralmente sia per la quantità dei soggetti in gioco.
Quindi le collaudazioni in corso d’opera e finali.
In linea di massima il ciclo è attraversato dalle procedure approvative, solitamente incardinate sul progetto definitivo per quanto riguarda i soggetti competenti, esterni alla amministrazione procedente.

4. L’incidenza della qualità del processo nel determinare criticità nella realizzazione delle infrastrutture
Le insidie sono moltissime. Tanto più se il processo decisionale non è abbastanza «forte» e, soprattutto, ritenuto ridiscutibile o «riapribile». In generale, se non è «di qualità».
Il processo che segue alla decisione politico–pianificatoria e programmatoria, se questa fosse stata di «qualità», dovrebbe servire solo a migliorare «puntualmente» la decisione (alias il progetto sul quale la decisione è fondata).
Purtroppo le cose non stanno così: se si ha «scollatura» tra progetto e decisione di politica, il progetto non sarà di qualità. Ma cosa significa progetto di qualità? L’interrogativo è tutt’altro che retorico.
Che tutti i passi di cui sopra sono stati compiuti? Dallo studio di fattibilità alle collaudazioni, passando per la definizione di un «vero» documento di progetto[10], quindi alle verifiche interne di rispondenza del progetto preliminare e poi del progetto definitivo, fino a quello esecutivo ed alla relativa validazione?
Cioè che sia formalmente che tecnicamente il progetto sia stato ben fatto e ben condotto per quanto riguarda il processo autorizzatorio.
In quel «ben» si comprende ovviamente che la conoscenza del luogo ove l’opera sarà realizzata sia stata sviluppata approfonditamente sotto tutti i punti di vista: della conoscenza del suolo e del sottosuolo e delle discipline d’uso, comprensive dei regimi di tutela cui eventualmente fosse sottoposto (quindi tutela culturale, ambientale, servitù varie, etc.). Che siano state rispettate le Norme tecniche sulle costruzioni (le ultime risalgono al 2008) e tutte le altre norme relative al tipo di opera in questione. E che la parte amministrativa – capitolato d’oneri, elenco prezzi, etc. – sia ugualmente di qualità, cosa che implica che le informazioni sulle quali si basano questi documenti siano aggiornate ed affidabili oltre che ben impiegate.
In definitiva che la stazione appaltante sia il più possibile al riparo da «sorprese», sia in fase di affidamento del progetto e dei lavori che di realizzazione dell’opera.
Il progetto deve essere quindi anche «completo», nel senso che deve aver esplorato le possibili criticità che la sua realizzazione potrebbe incontrare.
Ma che anche – vista la quantità degli aspetti formali non è inutile ricordarlo -, la qualità «sostantiva» sia alta!
Le insidie sono molte. Oltre le questioni tecniche in senso stretto, si registrano sempre più frequentemente quelle amministrative e procedurali, causa una normativa di settore ben poco «proscrittiva» e molto più «preventivo-descrittiva». Che evidentemente non è mai sufficiente a prevenire criticità o comportamenti deviati.
Per non dire delle insidie che attengono il processo approvativo, molto articolato, ripetitivo, etc.
Le semplificazioni che nel tempo sono state ad esso apportate, non sono risultate abbastanza efficaci allo scopo (certezza e rapidità del procedimento). Evidentemente la strada delle semplificazioni parziali, come si diceva, non è quella giusta. Si deve dare avvio a quelle «di sistema», vale a dire a quelle che intervengono su una intera filiera decisionale e, per di più, nell’ottica dell’interfaccia con quelle ad essa esterne.
Quel progetto ben fatto e/o di qualità che sempre più spesso si invoca – tale problematica viene proposta anche come «centralità del progetto» nel processo decisionale -, obiettivo che il nuovo Regolamento sui contratti pubblici ha perseguito come qualificante, evidentemente comporta costi conseguenti. Quindi anche risorse adeguate e modalità altrettanto adeguate per la scelta del progettista da parte delle stazioni appaltanti.

5. Le criticità negli affidamenti
Si entra nel campo delle procedure di affidamento. Ferma restando la neutralità delle procedure, vi è però un problema della loro appropriatezza ai diversi casi.
Nella scelta risiede la primaria responsabilità della stazione appaltante e del RUP in particolare.
Che, ad esempio, l’offerta economicamente più vantaggiosa, allorché il progetto da affidare comporti un rilevante impegno intellettuale e tecnico, sia quella preferibile, è abbastanza scontato.
Non altrettanto il modo in cui la si applica che, di fatto, può portare all’omologazione con altre procedure: ad esempio, allorché l’elemento prezzo è quotato al pari o quasi di quello del merito tecnico. Di fatto si opera come nel caso del massimo ribasso.
L’apprezzamento del merito tecnico deve essere reso possibile per mezzo di documenti di gara e di richieste adeguate: cosa non semplice. Occorre quindi un «progetto» anche per la gestione della gara!
Qual è il rapporto tra il finanziamento dell’opera e il costo presunto, definito tramite il progetto della stessa?
Dalla mancata soluzione di questo rapporto derivano molte delle criticità della realizzazione dell’opera.
Di solito la posta finanziaria è predefinita. Il progetto, pertanto, si deve adeguare a questa. Ma la posta è stata ben definita?
Molto spesso, con il consenso di tutti i partecipanti al gioco decisionale – pianificatorio–programmatorio, la posta è sottostimata[11] rispetto ai costi reali dell’opera. Da qui la ovvia serie di conseguenze negative: dalla scelta dell’affidatario dei lavori alla conduzione degli stessi, alla necessità di operare varianti, da qui anche gli inevitabili contenziosi, etc.

Si può ovviare a tutto questo? Finanziando meglio la progettazione, soprattutto nella fase del «concept» dell’opera, quindi lo studio di fattibilità e il progetto preliminare.
Ma si è in grado di gestirne le conseguenze? Infatti potrebbe non essere infrequente il caso che i costi dell’opera non possono essere ritenuti sopportabili.
E le spese di studio non finalizzate alla progettazione sarebbero giustificabili?
Si è, appunto, nella condizione di correre questo rischio, in specie in momenti di ristrettezze economiche quali le attuali?
Né sembra possibile allocare le risorse pubbliche in base alla previsione di spesa determinata sulla base del progetto. La logica di ripartizione della spesa pubblica, sia sotto il profilo della decisione politica che di quella amministrativa collide con tanta «razionalità».
Il miglioramento del rapporto è però essenziale; in passato si era ipotizzato di creare dei fondi ad hoc per la progettazione che una volta erogato il finanziamento dell’opera sarebbero stati reintegrati.
E’ una strada che si può riprendere. Altre se ne possono immaginare: è urgente farlo. E il finanziamento dovrebbe essere ipotizzato, come si diceva prima, comprensivo anche delle eventuali opere di compensazione, sociale, ambientale ed economica.
L’idea dell’«enveloppe» francese ritorna di attualità, ma è compatibile con il nostro sistema di decisione sulla spesa pubblica e sulla contabilità statale?
E, soprattutto, con la incredibile proliferazione – quasi 12.000 se ne contano – di stazioni appaltanti, cioè di centri di decisione?[12]
Il progetto è anche la causa – spesso pretestuosamente – per riserve in fase di realizzazione. La direzione lavori, non sempre adeguata, è causa di ulteriori criticità che si riversano anche sulle collaudazioni.

6. Un tentativo di conclusione
Come si vede, dall’inizio alla fine del ciclo le criticità riguardano tutti i passi del ciclo stesso.
Quali le più importanti? Sono convinto che, malgrado le molte e fondate critiche alla farraginosità, ridondanza, etc. del procedimento approvativo ed alla gestione del processo, le maggiori criticità, che determinano in gran parte le altre, sono quelle rappresentate dal modo in cui si decide l’opera pubblica[13] – cioè la politica, la pianificazione e la programmazione del settore -, e dal suo finanziamento, vale a dire dalla quantità di risorse messe a disposizione della realizzazione e dalle modalità di erogazione delle stesse.
Una diversa modalità di previsione di spesa e di erogazione delle risorse finanziarie consentirebbero una gestione realmente contrattuale del rapporto delle stazioni appaltanti con il mercato, sia nella totalità del ciclo dell’opera pubblica che eventualmente solo di alcuni segmenti (in particolare quello della esecuzione).
La migliore gestione contrattuale del rapporto consentirebbe di realizzare opere anche di migliore qualità sostantiva oltre che un migliore processo decisionale e amministrativo.
Sempre che la «domanda pubblica» nella quale si rappresenta la scelta politica ed il «progetto» tecnico siano di qualità.

Altri contributi in tema di infrastrutture:

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Note

1.  Tra i contributi più sistematici ed aggiornati al riguardo, cfr., République Française, Avis et Rapports du Conseil Economique, Social et Environnemental, Infrastructures et développement durables des territoires: un autre regard – une nouvelle vision, Avis présenté par M. Daniel Tardy, Les éditions des Journaux Officiels, Anno 2009, n. 23, mercoledì 30 settembre 2009.

2.  Cfr., tra i tanti, ma particolarmente utile per la base informatica oltre che per le riflessioni contenute, R. Cattaneo, G. Biesuz, P. Troncatti, La domanda della regina. Rimettere in moto il paese con le infrastrutture e i trasporti, Guerini e Associati, 2010.

3.  La nozione è oramai molto diffusa, anche se non sempre il suo uso è corretto secondo i principi, la metodologia e le tecniche della teoria delle reti. Recentemente l’Associazione «Italia decide» ha dedicato il rapporto 2010 proprio alle reti. In particolare alle «reti territoriali per l’unità e la crescita». La nozione di rete è qui usata anche con riguardo ai territori ed ai significati più profondi della stessa nozione (simbolici, metaforici, etc.).

4.  Cfr., L’eccezione e la regole. Tariffe, contratti e infrastrutture, a cura di A. Biancardi, Arel, Il Mulino, 2009.

5.  «Versement transport» è la definizione della speciale tassa ancora in uso in Francia (ricorda i nostri vecchi «contributi di miglioria», generici e specifici, dei «governi Giolitti» dell’inizio del ‘900). Recentemente, l’ipotesi è stata al centro di riflessioni e di tentativi di applicazione («Progetto Quadrilatero Umbria – Marche», favorito in via sperimentale dalla «Legge Obiettivo»). Nel volume “Laboratorio Brianza. Infrastrutture, mobilità e sviluppo: spunti concreti per elaborare un nuovo modello di intervento” della Fondazione Costruiamo il Futuro – Sole 24 ore, 2010, l’ipotesi è ulteriormente indagata. Particolarmente interessanti sono anche i casi di applicazione analizzati e commentati nel «paper» di Junge, Jason and David Levinson (2009), “Financing transportation with land value taxes: Effects on development intensity”, (htpp://www.nexus.umn.edu), University of Minnesota. Qualcosa del genere è proposto in molti progetti di legge presentati al Parlamento francese sulla scorta delle anticipazioni contenute nello stesso «Grenelle n. 2» (2010) che introduceva la problematica, a proposito di transazioni di terreni circostanti le stazioni di trasporto collettivo in sito proprio: l’obiettivo è sempre il recupero dei plusvalori prodotti dai cambi di destinazione d’uso del suolo e delle attrezzature per quanto necessitanti di finanziamenti pubblici preliminari.

6.  La filiera della pianificazione dei trasporti è molto articolata: piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL) insieme o separatamente da quello della logistica; piano dello specifico settore (stradale – autostradale, ferroviario, aeroportuale, portuale); piani regionali dei trasporti (PRT) e/o piani regionali delle infrastrutture e dei trasporti (PRIT); piani provinciali della viabilità, per finire con i piani comunali che si differenziano per le città al di sopra di 100.000 abitanti che redigono anche piani della mobilità (PUM), che precedono i piani generali del trasporto (PGTU), i piani urbani del traffico (PUT), i piani urbani dei parcheggi (PUP). I comuni al di sotto dei 100.000 abitanti redigono solo questi ultimi (PUT e PUP). Nel caso dei porti maggiori, le autorità portuali redigono appositi piani regolatori portuali. Altrettanto fanno gli aeroporti ed i centri logistici in genere. Questi piani, in realtà, sono molti più simili a progetti che non a veri e propri piani, per evidenti ragioni. Da qui anche l’auto definizione di «master plan».

7.  Mi permetto di rinviare a F. Karrer, A. Fidanza, PWC, La valutazione ambientale strategica.- Tecniche e procedure , Editore Le Pensieur, 2010.

8.  Avendo avuto qualche responsabilità nella loro introduzione nella pratica di decisione e conduzione dei progetti pubblici in Italia (ad esempio: Proposta e conduzione dell’Osservatorio ambientale sulla realizzazione dell’autostrada Aosta – Courmayeur; F. Karrer, “Le misure di compensazione nella negoziazione dei conflitti ambientali”, «VIA», n. 19/1991), mi sento costretto a ricordare lo sforzo che feci per chiarire le differenze tra le misure di compensazione e quelle di mitigazione e/o di attenuazione dell’impatto e la richiesta (vana) di mutuare, vista la incapacità di darcene una propria, la «regulation» in uso in altri paesi: personalmente proponevo di ispirarci alla regolazione, opera per opera, che accompagnava la legge francese sugli «études d’impact». La regolazione delle misure di compensazione risale al periodo 1976-1978!

9.  Questa espressione è stata introdotta con la l. n. 42/2009 sul «federalismo fiscale». L’obiettivo richiede una profonda riflessione, fermo restando che quella fisica, cioè di dotazioni, non è una forma di perequazione realizzabile. Si tratterà di definire livelli essenziali delle prestazioni che vanno garantiti per ogni territorio, probabilmente indipendentemente dalle modalità di soddisfazione dei bisogni. Con evidenti riflessi per quanto riguarda la questione dei cosiddetti «costi standard» e quindi per l’allocazione delle risorse finanziarie.

10.  Rispetto al Regolamento n. 554/1999, quello di recente entrato in vigore (n. 270/2010), «dequota» un po’ questo strumento, spalmandone i contenuti tra lo studio di fattibilità (SdiF) e il progetto preliminare. Enucleare il documento di progetto è utile non solo allo scopo di descrivere obiettivi e regole da perseguire ed applicare, ma anche per stabilire le modalità di svolgimento di verifiche e validazioni. Comporta soprattutto una chiara presa di responsabilità della stazione appaltante e per essa del responsabile unico di procedimento (RUP).

11.  Tralascio di discutere del caso contrario, quello della voluta sovrastima dei costi – saremmo evidentemente nel pieno del campo del codice penale -, da parte di responsabili di procedimento, progettisti, validatori, etc., ad iniziare da chi ha redatto lo studio di fattibilità. Ma su quale livello di definizione progettuale questo si basa?

12.  All’elevato numero di stazioni appaltanti, che comporta, di fatto, una mancata uniformità di applicazione di procedure e norme, nel registrare le criticità nella realizzazione delle infrastrutture (si deve aggiungere), la questione degli altri attori. Cioè delle imprese generali di costruzione, delle industrie specialistiche e superspecialistiche e dei prestatori di servizi e dei prestatori di servizi in genere. Nel caso delle imprese e dei liberi professionisti i numeri sono davvero impressionanti. E ciò, anche per via degli effetti del peso rilevante dell’industria delle costruzioni sull’economia; paradossalmente, però invece di migliorare la qualità dell’offerta, la peggiora. Così oltre ad una insufficiente qualità della «domanda pubblica», conseguenza dell’imperfetto sistema di presa delle decisioni di politica, si aggiunge una scarsa qualità dell’offerta da parte del mercato.

13.  Cfr. il nostro, “L’importanza del come si decide l’opera pubblica nel determinare l’impatto sull’ambiente: il caso delle opere lineari”, in Problemi e tecniche negli studi di impatto ambientale delle Grandi Opere, a cura di S. Margiotta, Editore Colombo, Roma 1996.