Sanzioni penali di illeciti amministrativi. Un cattivo diritto per l’economia – e non solo per essa

1. Da decenni ormai il nostro ordinamento è costellato di reati contravvenzionali, che si commettono violando norme intrinsecamente amministrative. Si intende con questo identificare un complesso fenomeno, per così dire a due facce, che investe norme – e prassi – con cui interessi di particolare rilievo per l’intera comunità vengono tutelati, ol­tre che attraverso l’opera delle pubbliche amministrazioni, anche con sanzioni penali a carico di chi viola tali norme.
Il primo aspetto del fenomeno è ben noto. Secondo la nostra tradizione, la legge prov­vede alla tutela degli interessi pubblici, sottoponendo le attività umane che li coinvolgono al controllo preventivo, ed in alcuni casi repressivo, della pubblica amministrazione. È il complesso di attività che Feliciano Benvenuti aveva riassunto nell’espressione “funzione amministrativa”. Essa viene esercitata con gli strumenti e con le procedure dai nomi più vari: si spazia dalle conces­sioni alle autorizzazioni, ai nulla osta, ai permessi [1]. È inutile fare esempi, tanto siamo abi­tuati. Pochissime attività sfuggono a questo regime. Basti ricordare quanto dispone l’art. 6 del t.u. sull’ edilizia [2]: salve disposizioni più restrittive delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici, gli unici interventi ese­guibili senza aver previamente conseguito un titolo abilitativo sono quelli di manuten­zione ordinaria, di eliminazione di barriere architettoniche, senza alcuna costruzione di rampe o ascensori esterni, opere temporanee per attività geognostica. Tutto il resto deve essere preventivamente autorizzato. Lo stesso criterio vale per la tutela ambientale, l’igiene, la sanità, etc. etc.

2. Molto più delicato è il secondo. È perfettamente comprensibile che, per rendere più effi­cace il precetto con cui viene prescritta la necessità di un’autorizzazione al fine di tutelare un certo interesse di rilevanza generale, la legge preveda una sanzione penale per chi agisce, senza averla conseguita. Il fatto sanzionato è chiarissimo. Per guidare ci vuole la pa­tente di guida; chi, pur sapendo condurre una moto o un’autovettura, guida senza pa­tente è soggetto a sanzione penale.
Spesso però le leggi vanno oltre: e prevedono sanzioni penali anche per la violazione delle norme sostanziali, a prescindere dal fatto che le attività assunte come illecite siano state autorizzate – siano cioè passate al vaglio dell’amministrazione competente. Para­digmatici sono gli artt. 29 e 30 del t.u. sull’edilizia. Il primo dispone che il titolare del permesso di costruire, il committente ed il costruttore siano responsabili della confor­mità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso di costruire e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. La conformità delle opere al permesso di costruire non è dunque suffi­ciente per esonerare da responsabilità. L’art. 30, poi, descrive in questi termini la lottizza­zione abusiva per scopo edificatorio: essa ricorre quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia in violazione degli strumenti urbani­stici, vigenti o adottati, “nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita o atti equivalenti del terreno in lotti che per le loro caratteristi­che … denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Dal punto di vista amministrativo, il regime sanzionatorio di tutto ciò è così disegnato: il comune deve disporre la sospensione delle opere; decorsi novanta giorni, se il provvedi­mento di sospensione non viene revocato, le aree vengono acquisite al patrimonio dispo­nibile del comune; gli atti aventi per oggetto terreni per cui sia stata disposta la sospen­sione delle opera sono nulli.
Sennonché la tutela dell’interesse sotteso a queste disposizioni – lo sviluppo ordinato dell’attività edificatoria – trova anche una sanzione penale nel successivo art. 44. Esso di­spone infatti che, “salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni ammini­strative, alla violazione delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste nel presente titolo, nonché dai regolamenti, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire” si applica una certa ammenda; l’ammenda aumenta e ad essa si aggiunge l’arresto fino a due anni nel caso di lottizzazione abusiva; segue la confisca dei terreni. Si tratta, è bene ricor­dare, della stessa lottizzazione abusiva, realizzata o presunta, per la quale è prevista l’acquisizione delle aree al patrimonio del comune. Poiché qui si verte in materia penale, la confisca segue al passaggio in giudicato della sentenza che accerta l’illecito.
È così a tutti noto con quanta frequenza il pubblico ministero svolga inda­gini sulla conformità edilizia di opere regolarmente autorizzate e come, in seguito a que­ste indagini, vengano disposte misure cautelari – vale a dire sequestri.
Lo scenario non è proprio lineare. Ma così è. Hoc iure utimur.

3. A questo si perviene attraverso un raffinato meccanismo giuridico. La legge che nel 1865 aveva consentito ai cittadini di chiamare in giudizio le amministrazioni, anche in presenza di atti autoritari [3], si era preoccupata del peso che un provvedimento ammini­strativo avrebbe potuto avere nel corso del giudizio civile – e, viceversa, si era preoccu­pata delle conseguenze che avrebbe potuto avere l’annullamento di un provvedimento da parte del giudice civile. Aveva risolto questo difficile problema statuendo che in presenza di un atto o provvedimento, ritenuto illegittimo, il giudice avrebbe potuto dare tutela ai diritti del cittadino, “disapplicando” il provvedimento: avrebbe potuto cioè considerarlo tamquam non esset, e tuttavia lasciarlo in vita. Nel corso degli anni ’80 del XX secolo, si pose, in termini assai forti, il tema degli abusi edilizi: ci si trovava di fronte a costruzioni in pieno contrasto con il piano regolatore, ma regolarmente autorizzate. Il problema era grave: come accertare e punire l’abuso edilizio in presenza di una concessione edilizia (come allora si chiamava)? La soluzione venne trovata nell’art. 5 della legge del 1865, so­stanzialmente con questo ragionamento: come i diritti riconosciuti dalla legge al cittadino possono essere accertati e tutelati dal giudice, “disapplicando” gli atti amministrativi che li ledono, così, in presenza di violazioni della legge, per le quali sono previste sanzioni pe­nali, il giudice penale può perseguirle, ancorché autorizzate con provvedimenti ammini­strativi, “disapplicandoli”. L’esempio più semplice è la costruzione autorizzata e realizzata in zona inedificabile. L’abuso edilizio è evidente; altrettanto evidentemente autorizzato. I giudici penali utilizzarono la disapplicazione della concessione, affermando che una con­cessione illegittima non valeva a legittimare la costruzione, in sé contraria al piano rego­latore o ad altro divieto di costruire [4].
Se a fondamento di queste violazioni della legge edilizia, ambientale, per la sicurezza del lavoro etc. – della legge sostanziale insomma – vi fossero fenomeni di corruzione o di abuso di ufficio sarebbe perfettamente comprensibile la sanzione penale per la violazione della norma sostanziale, e quindi dell’interesse pubblico ad essa sotteso. Sarebbe il tipico caso del concorso di reati. La situazione di cui si va dicendo è diversa: anche se l’ammi­nistrazione ha agito, ha rilasciato l’autorizzazione (o l’atto ad essa equiparato), e quindi tutto è in regola dal punto di vista amministrativo, il reato edilizio può sussistere, a prescindere dalla corruzione. Si svuota il provvedimento dal suo interno; lo si ignora in nome della legge che l’amministrazione aveva applicato. Ed in quanto il reato può sussistere, qualunque pubblico ministero può procedere d’ufficio e disporre ad es. misure cautelari. È noto – lo si è letto in tutti i giornali – che per i campionati del mondo di nuoto svoltisi a Roma nell’estate 2009 la procura della Repubblica ha ritenuto che fossero state commesse infrazioni urbanistiche nella costruzione di piscine da parte di circoli sportivi privati, collegati al CONI; sono stati disposti sequestri penali, alcuni dei quali ancora in essere: e questo, nonostante l’esi­stenza di autorizzazioni comunali e di un piano governativo per la realizzazione di pi­scine.
Sembra di piana evidenza che in sé e per sé una siffatta situazione di diritto sia fonte di grandi perplessità. Si perde la certezza del diritto legata all’agere quotidiano, la sicurezza cioè che, ottenuta un’autorizzazione, si possa fare in piena tranquillità ciò che è stato consentito. Questo non è un problema di poco conto. Le procedure amministrative sono lente, nonostante i grandi sforzi fatti per migliorarle; se la loro conclusione non è una conclusione, perché un terzo estraneo al procedimento, il pubblico ministero, ritiene comunque di poter agire penalmente, si innesca un meccanismo sociale perverso, i cui termini estremi sono la scelta di non fare o di fare aggirando tutto – tacendo, nascondendosi, cercando non far nulla appa­rire.
Questo assetto di rapporti tra il potere e la funzione amministrativa da una parte, il po­tere giudiziario e l’esercizio dell’azione penale dall’altro, con il cittadino al centro, non va bene e deve essere radicalmente modificato, perché in contrasto con l’assetto costituzionale in cui si collocano potere esecutivo e pubblica amministrazione da un lato, potere giudiziario dall’altro. Si consuma infatti una inaccettabile confusione dei poteri, esecutivo e giudiziario.

4. Gli elementi di questa confusione di poteri possono essere fissati con poche parole. Come si accennava sopra, quando il potere giudiziario, nelle due vesti del P.M. requirente e del giudice, interviene in vicende nelle quali già l’amministrazione ha provveduto, questo accade perché si tratta di materie in cui l’interesse privato rileva anche per l’interesse generale: la legge cioè non solo non lascia al privato incondizionata libertà di iniziativa, ma prevede una doppia tutela dell’interesse generale. Una è preventiva, affidata alla pubblica amministrazione, e l’altra repressiva, affidata al giudice penale. Il punto cruciale è che il giudice penale interviene sia accanto, sia contro l’amministrazione. Le è accanto quando ad es. ne utilizza le informazioni per perseguire il reato. Qui ovviamente nulla quaestio [5]. Ma interviene contro l’amministrazione quando ad es. afferma che un dato provvedimento non poteva essere rilasciato, perché illegittimo (di qui il reato, del quale l’amministra­zione diviene strumento), o quando si surroga ad essa nel cercare illeciti nelle materie affidate alla sua cura. Essa viene così colpita nelle sue prerogative: anche a prescindere da qualsiasi ipotesi di corruzione, il suo operato viene sconfessato dal giudice penale che indaga su possibili abusi commessi da un privato grazie ad un titolo rilascia­togli dall’amministrazione – o addirittura grazie alla sua inerzia.
La costruzione di questa doppia tutela da parte della legge con la conseguente sovrapposizione del giudice all’autorità amministrativa non sembra conforme a costituzione.

5. Il principio della separazione dei poteri è un principio costituzionale fondamentale, pur non potendo essere assoluto, come ormai pacificamente si ammette [6]. Viene in gioco qui il suo significato nel rapporto tra potere esecutivo e potere giudiziario. Il go­verno, quale or­gano di vertice del potere esecutivo, deriva la propria esistenza e le pro­prie attribuzioni da un complicatissimo rapporto fiduciario che deve avere con il Parla­mento e con le forze politiche. È investito di poteri e responsabilità molto ampi, che, per quanto qui rileva, esercita attraverso la pubblica amministrazione. Certo, l’amministrazione agisce gra-zie ad una sorta di mediazione della legge, che disciplina la sua azione; ma altrettanto certo è che valutare, comparare, progettare, decidere, togliere ed attribuire è compito suo ed esclusivamente suo. Non a caso l’art. 95 Cost. afferma che la responsabilità dell’azione amministrativa ricade sul governo [7] e l’art. 97 prescrive che “i pubblici uffici sono or­ganizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. Come tutti sanno, i risultati con­seguiti sono un para­metro di riferimento essenziale per ogni discorso che riguardi l’amministrazione ed i suoi dipendenti.
Di fronte a questo assetto di dipendenza dell’amministrazione dal governo, l’art. 101 Cost. dice che coloro in cui il potere giudiziario si incarna, i giudici, “sono soggetti soltanto alla legge” e l’art. 104 che “la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”, in cui i magistrati sono inamovibili (art. 107). In concreto, sempre secondo il dettato dell’art. 104, l’autonomia e l’indipendenza del corpo dei magistrati sono garantite e protette dal Con­siglio superiore della magistratura, i cui componenti per due terzi sono magistrati eletti dai magistrati, due sono membri di diritto (il presidente della Cassazione ed il Procuratore generale) ed un terzo è eletto dal Parla­mento.
I pubblici ministeri sono anch’essi magistrati a tutti gli effetti, come è ben noto; godono delle garanzie previste per loro dalle norme sull’ordinamento giudiziario, che sono prati­camente le stesse previste per i giudici. La sola differenza è che, dovendosi attivare nel perseguire e far punire chi commette reati (“il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” recita l’art. 112 Cost.), sono necessariamente inseriti in una struttura organizzata, in cui deve esservi e vi è un capo, il procuratore della Repubblica. Co­loro nei cui confronti deve esercitare la funzione di indirizzo e di direzione non sono però suoi subordinati, che attuano le disposizioni del vertice a diversi livelli di competenza ed autonomia, come è proprio di qualunque organizzazione, salvi possibili dettagli. I magi­strati pubblici ministeri che affiancano il procuratore della Repubblica sono suoi “sostituti”, non “subordi­nati”: quindi con pari dignità, come dice l’art. 107, co. 3. È superfluo osservare che una struttura organizzativa di questo genere nulla ha in comune con quella di una pubblica amministrazione, dove domina il principio gerarchico.
Se si riflette dunque sul rapporto costituzionale tra esecutivo e giudizia­rio, sembra evi­dente che si contrappongono due universi profondamente diversi. L’uno, il potere esecu­tivo ed in esso la pubblica amministrazione, è proiettato verso il futuro, con il fine uni­voco di rendere ordinato l’evolversi della società e favorirne il miglioramento. Questa è la sostanza concreta di ciò che viene comunemente detto “cura dell’ in­teresse pubblico[8], affidata all’amministrazione. L’altro, il potere giudiziario, ha la du­plice funzione di dirimere le liti – il celeberrimo ne cives ad arma veniant – e di punire chi commette i reati, con ciò in­ducendo un circuito virtuoso, appunto di prevenzione dei reati stessi. Le dimensioni, le prospettive, le funzioni svolte, le dinamiche di sistema sembrano non avere punti in con­tatto: nella cornice di una società e di uno Stato molto complessi, esprimono una compresenza di poteri in regime di se­parazione.
In realtà un punto di contatto c’è, ed è di cruciale rilievo. È la legge: che per l’ammini­strazione è guida per l’esercizio del compito affidatole, curare l’interesse pubblico nelle sue strutturali interferenze con gli interessi privati, mentre per il potere giudiziario è pa­rametro per giudicare fatti e comportamenti necessariamente passati. Mentre insomma l’amministrazione si cura di ciò che Tizio intende fare, il giudice va­luta ciò che Tizio ha fatto, in relazione a norme sotto cui potrebbe ricadere la sua attività – in quanto qualificabile come reato.
È chiaro che Tizio può aver violato la legge che qualifica come reato una certa fattispe­cie. Ma delle due l’una: o la ha violata intenzionalmente, scavalcando l’amministrazione: ed allora non vi è dubbio che la violazione della legge sia reato e la procura della Repub­blica a buon diritto lo indaghi ed incrimini. Se però ha chiesto ed ottenuto le autorizza­zioni che la legge richiede, non Tizio, ma l’amministrazione è responsabile della viola­zione. Il pubblico ministero che voglia occuparsi di questo fatto deve indagare solo se vi è stato o non vi è stato dolo. Se trova la prova del dolo di qualche amministratore (e necessariamente di Tizio), nulla quaestio: vi è il reato. Ma se non trova questa prova, la violazione di legge è frutto di un errore, di diritto o di fatto che sia. L’ordinamento pre­vede precisi rimedi: annullamento d’ufficio, reductio in pristinum, risarcimento del danno.
Questo vuole il principio di separazione dei poteri.

6. Le conseguenze della violazione di questo principio che si è cercato di rappresentare non sono di poco conto. Si è accennato sopra, § 3, alla prima, l’incertezza del diritto, l’insicurezza sull’affidabilità del provvedimento ottenuto. L’azione di ufficio del pubblico ministero, con i provvedimenti cautelari che possono accompagnarla, può paralizzare in qualunque momento un’iniziativa economica, pur ritualmente autorizzata. Questo è un problema gravissimo, perché la società vive di iniziative economiche, che creano benessere e, tra l’altro, consentono lo sviluppo di processi formativi da cui dipende il miglioramento strutturale della società stessa. Se certi valori sono affidati alla cura della pubblica amministrazione, essa sola deve esserne responsabile: se non è così, non ha neppure ragione di esistere. Giustamente si è parlato di “riserva di amministrazione”. Certo il giudice penale deve perseguire i comportamenti che la legge qualifica come reato: ma per nessuna ragione può farlo, scavalcando l’amministrazione e disapplicando i suoi provvedimenti. Come si diceva, se intorno al comportamento dell’amministrazione vi è uno specifico sospetto di dolo, i fatti devono essere indagati ed accertati.
È superfluo dire che l’intervento del giudice penale configura una situazione molto diversa da quella provocata dal ricorso di un terzo, che si assume leso dal provvedimento. Anzitutto deve essere direttamente leso, e deve dimostrarlo; ma sopratutto il terzo chiama in giudizio il beneficiario del provvedimento per discuterne la legittimità su un piano di assoluta parità. La sospensiva, concessa o negata al ricorrente, è un messaggio inequivoco che entro poche settimane giunge a entrambe le parti. Nessuno può agire d’ufficio, a sorpresa, ed indagare coperto dal segreto per un tempo non determinabile a priori.
Serie conseguenze negative vi sono però anche per i pubblici ministeri. È pacifico che le amministrazioni siano organizzate per materie (anche se, forse, con troppe sovrapposizioni tra loro), e che all’interno di ciascuna ci siano le competenze specifiche necessarie per curare gli interessi pubblici affidati. Del resto, esistono per questo. È parimenti pacifico che anche all’esterno della pubblica amministrazione vi siano competenze elevatissime; ma la struttura globale della conoscenza è tipicamente dell’amministrazione.
Anche la magistratura, quale “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”, ha un complesso di conoscenze globali che nessun altro potere possiede. Si tratta di quel valore ineffabile, che è la giustizia al tempo stesso del caso singolo e dei grandi numeri. Tizio e Caio litigano ed hanno diritto alla loro giustizia, sotto forma di sentenza, resa tra loro, che tra loro passa in giudicato; così Mevio, Sempronio, Tito cercano di resistere all’accusa ed all’imputazione di furto, omicidio, corruzione. Non importa se in Italia ci sono contemporaneamente mille, cinquemila, centomila casi simili – o se non ve ne è alcuno, come rarissimamente capita. Ognuno viene deciso; e tutti secondo la stessa logica: non fare diritto astratto (come accade con le c.d. massime), ma rendere giustizia. È superfluo dire che rendere giustizia non significa optare per una tra due o più interpretazioni della norma, ma cogliere e fissare ciò che le carte dicono per trarne l’ineffabile, che l’esperienza insegna: vale a dire, ciò che appare giusto.
Sembra ictu oculi palese che questo patrimonio non ha nulla in comune con quello delle altre amministrazioni. Certo ha tecnicità sue proprie; ma non è questo ciò che rileva. Rileva la funzione cui assolve la magistratura: unicuique suum tribuere, razionalizzando e spezzando le tensioni, reprimendo e punendo. Sembra affondata nel passato; ma nel ricondurlo al presente con la sentenza che finalmente giunge, si proietta nel futuro, solo perché la sentenza è giunta e potrà giungere ancora.
Ad un sistema di questo genere non si possono dare compiti di vera e propria amministrazione attiva – o di supplenza amministrativa, se si vuole. Non ne ha gli strumenti. Non può dire in pochi minuti o in poche ore che siano se uno scarico è a norma o è tossico, se le costruzioni avevano o non avevano adeguate fondamenta antisismiche, etc. etc.. Per dare una risposta a queste domande il giudice deve chiamare la polizia giudiziaria, sequestrare quel che c’è da sottrarre a manipolazioni, disporre gli accertamenti e la consulenza tecnica, aprire il contraddittorio. Deve insomma fermare la vita, perché intervenire su uno scarico o su una zona terremotata non è il suo compito.
In termini generali, si può certamente dire che il giudice penale dovrebbe fare una cosa diversa, anche a legislazione invariata. Quando giungono notizie di reato del genere di cui si è detto fin qui – in cui la tutela di certi interessi pubblici è affidata tanto alla pubblica amministrazione attiva quanto al giudice penale – questi dovrebbe anzitutto chiedere relazioni all’amministrazione e da queste muovere, assumendole per vere, se così si può dire. Solo se questa “verità” dovesse essere smentita, dovrebbe proseguire le indagini. Esse però dovrebbero essere rivolte ad accertare non l’illecito penale ad onta del provvedimento amministrativo, ma, visti i fatti, l’illiceità – penale – della condotta da cui il provvedimento è scaturito. Dovrebbe insomma cessare l’uso della disapplicazione del provvedimento contro il cittadino.
È ovvio che se venisse sollevata la questione di illegittimità costituzionale delle norme che consentono al giudice penale di procedere anche in concorso o in contrasto con l’amministrazione per lo stesso fatto, in quanto tali norme sembrano violare il principio della separazione dei poteri, il percorso sarebbe più agevole.

Note

1.  Da alcuni anni sono state introdotte due varianti al regime dell’autorizzazione preventiva. La prima è quella della Segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA) che ha sostituito, con modificazioni, la Dichiarazione di inizio di attività (DIA). In una serie di materie, caratterizzate da una sostanziale semplicità e da carenza di poteri discrezionali dell’amministrazione, è sufficiente segnalare all’autorità competente ciò che si intende fare, con la documentazione tecnica che illustri l’iniziativa. Si può cominciare subito. L’amministrazione ha sessanta giorni di tempo per contestare irregolarità; decorso questo termine, può intervenire solo in presenza di gravi danni all’interesse pubblico. La SCIA, come la DIA, racchiude in sé meno potenza di quanto prima facie potrebbe apparire: le materie sono limitate; l’interferenza di altre materie in cui è necessaria l’autorizzazione espressa è frequente (basti pensare a sanità, ambiente, sicurezza); il termine di sessanta giorni per contestare e paralizzare l’effetto della segnalazione è ampio ed espone a rischi notevoli, vista anche la possibilità di interventi repressivi successivi, in caso di “grave danno” all’interesse pubblico: sull’indeterminatezza del concetto è superfluo fermarsi.
La SCIA è stata introdotta con l’art. 49, co. 4 bis, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, conv. in l.30 luglio 2010, n. 122.
La seconda variante al regime dell’autorizzazione preventiva è il silenzio accoglimento: il silenzio mantenuto per 90 giorni su un’istanza equivale a provvedimento favorevole, anche se era richiesto l’esercizio di poteri discrezionali. Esso è stato introdotto con la l. n. 15 del 2005. Anche qui permangono i poteri repressivi ex post dell’amministrazione; questo ha fatto sì che l’istituto non abbia avuto alcun successo.

2.  D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.

3.  È la l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. La norma cui si fa riferimento nel testo è contenuta nell’art. 5.

4.  Oggi si ragiona in termini leggermente diversi: si dice che il giudice penale, quando valuta la legittimità di un provvedimento amministrativo, non procede ad una sua disapplicazione ma verifica la sussistenza degli elementi costitutivi del fatto reato. In altre parole, svuota il provvedimento del suo “contenuto” dall’interno: il giudice si sostituisce all’amministrazione nella valutazione del fatto. Devo al giovane Giacomo Satta, che vivamente ringrazio, questa ed alcune altre osservazioni penalistiche che seguono nel testo.

5.  L’ipotesi tipica è quella di interventi repressivi dell’autorità amministrativa, quando l’attività svolta dal privato costituisce anche reato.

6.  Basti pensare ai poteri di nomina di presidenti e membri di autorità indipendenti attribuiti ai presidenti delle camere ed alla commissione parlamentare di vigilanza sulla RAI, per fare due soli esempi.

7.  “1. Il presidente del consiglio dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Promuove e mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. 2. I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri e singolarmente degli atti dei loro dicasteri. 3. (omissis)”

8.  Sull’interesse pubblico si potrebbe e dovrebbe dire molto, perché è uno dei concetti più ricchi di contenuto ed al tempo stesso più equivoci che si conoscano. Basti dire che il suo termine di riferimento – ciò che qualifica un interesse come “pubblico” – è passato dall’amministrazione in quanto tale alla collettività, senza che ne sia derivato un radicale ripensamento.