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Il passato che è in noi: beni culturali e “sostenibilità” della memoria

di - 30 Dicembre 2010
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2. Patologie da  presente “obeso”
Le cose si complicano dal punto di vista dei flussi culturali trasmessi e condivisi globalmente.  Nel moderno, con la creazione incessante di novità, aumenta anche ciò che invecchia. Ci fu un tempo in cui il passato disponibile era scarso. Nel Rinascimento gli studiosi riuscivano a memorizzare  immaginando di essere in un teatro. Raccoglievano i fatti in categorie rappresentate da un personaggio sul palcoscenico, come Apollo, che rappresentava l’astronomia e Nettuno la navigazione. Poi lo spettatore mentale inventava una storia costruita attorno ad Apollo e a Nettuno, per collegare i fatti relativi ai due ambiti[14].
Oggi il patrimonio culturale comincia semmai a presentare problemi di smaltimento. Un semplice iPod è in grado di memorizzare e riprodurre diecimila canzoni, ma è pressoché impossibile classificare le cinquecento ore di musica contenute nella scatolina bianca o ricordare diecimila canzoni per poter scegliere quale ascoltare in ogni preciso momento. Di conseguenza si fa strada il problema di cosa mettere da parte e di  trovare un equilibrio tra necessaria obsolescenza e tradizione. Giacchè il passato non può accogliere tutto, cosa scartare? Dobbiamo immagazzinare tutto? O conviene fare in modo che il passato sia passato rallegrandoci del fatto che si allontani fatalmente da noi ?
Per certi versi l’interrogativo da porsi nei confronti della memoria sociale ha molto in comune – mutatis mutandis – con le implicazioni del caso clinico  dell’  “uomo che ricordava tutto” studiato dal neuropsicologo Alexander R. Luria nella Russia degli anni venti.  Immagini, numeri, frasi  si fissavano con tale vivezza e così numerosi nella memoria di Solomon Shereshevskij che inesorabilmente non vi era più posto per cose nuove, finchè egli stesso non divenne capace di escogitare una serie di “manovre” che, agendo alla stregua di  una grande tela, gli nascondevano il superfluo. L’apprendimento consiste quindi in un’opera sistematica di potatura, di sfrondamento. Per le neuroscienze apprendere significa eliminare, la memoria ha certamente ragione ma l’oblio non ha sempre torto.
Nel 1940 è l’antropologo Evans-Pritchard  a occuparsi dei fenomeni di ipermnesia e con la pubblicazione del libro I Nuer mette sotto osservazione la capacità mnemonica dei componenti di una popolazione primitiva in grado di ricordare i loro antenati in un arco di tempo compreso fra le nove e le undici generazioni[15]. In realtà l’analisi mostra che tali popolazioni dimenticavano assai più di quanto ricordassero. Una grande quantità di cose venivano dimenticate e l’antropologo inglese si accorgeva che tutto ciò non avveniva casualmente ma attraverso una serie di passaggi mentali finalizzati al risparmio di energia cognitiva. Una comunità, argomentava Evans-Pritchard, funziona quando la “contabilità mnemonica” è correttamente bilanciata.

3. Meno in verticale
Se vivere nella civiltà della memoria potrebbe non essere un paradiso, l’oblio si manifesta come indispensabile strumento di razionalizzazione dell’esistenza e del sociale.  La rimozione va utilizzata per aprire la strada al nuovo e agli sfaldamenti della memoria, agli “spazi bianchi” occorre riconoscere i loro meriti.
Le buone pratiche di pubblico interesse, le arti di governo non sembrano sfuggire a questa concezione. Il legislatore si è dotato degli istituti dell’amnistia, della prescrizione e della grazia,  vere e proprie forme di oblio misericordioso calibrato  in modo da non oltrepassare  il limite invalicabile dei crimini e dei delitti perpetrati contro i diritti umani.
Purtroppo in materia di beni culturali l’Italia ha assistito  a un processo inverso rispetto all’uso intelligente del tasto “cancella”.  Si è così pervenuti  all’estensione del regime dei beni culturali a beni che tale natura non hanno.  Il passo fondamentale in questa direzione viene compiuto anni or sono con l’adozione del concetto di bene culturale proposta dalla commissione parlamentare Franceschini, finalizzato ad ampliare l’ambito di tutela, sostituendo il criterio estetico che aveva dominato la legislazione prebellica, con un criterio di taglio antropologico: secondo la proposta della commissione la categoria di bene culturale doveva essere riconosciuta a tutto ciò che costituisce una testimonianza materiale avente valore di civiltà. Successivamente, a partire dagli anni settanta, il dibattito politico-istituzionale ha contribuito a estenderne ulteriormente la portata. Ne è scaturita una dilatazione enorme dei confini – rendendoli nello stesso tempo incerti – della politica dei beni culturali  che presuppone una disponibilità di mezzi e strutture per questa tutela sempre più grandi e che ha portato a distorsioni e rischi da cui occorre guardarsi se si vuole pervenire a una visione più equilibrata. Si tratta perciò di mettere a punto una nuova sintesi, tale da implicare una visione circostanziata di bene e da arginare un’espansione troppo marcata del suo ruolo. Il passaggio deve avvenire nella direzione di una concezione per un verso a maglie meno larghe e per un verso più puntuale di patrimonio culturale, ferma restando la centralità delle interrelazioni esistenti fra tutela del bene, crescita economica e società.
Appare  quindi necessario tornare a interrogarsi sui termini della conservazione di segni e valori culturali e ambientali meritevoli di sopravvivenza e di conseguenza sugli interventi regolativi dell’attività di tutela che consistono nella limitazione della sfera d’azione dei proprietari e nell’attribuzione alle autorità di tutela del potere di apporre vincoli sui beni. La tutela è un valore incontrovertibile, ma l’idea  di una tutela passiva così com’è non può reggere.  Va invece affinata un’idea dinamica, viva di patrimonio, contro un’idea statica e puramente conservativa. In un momento come quello attuale il compito è distinguere coraggiosamente cosa conservare da cosa trasformare o addirittura demolire. Distinguere perché la vastità e la “pesantezza” del patrimonio non consentirebbe di considerarlo come tale se non intervenisse la volontà di “ridurlo” tramite uno sguardo selettivo che sceglie una cosa piuttosto che un’altra.

Note

14.  L. Bolzoni, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, 1995.

15.  E. Evans-Pritchard, The Nuer: a description of the modes of livelihood and political institutions of the nilotic people, Oxford, 1940. Trad. It. I Nuer. I modi di vita e le istituzioni politiche di un popolo nilotico, Milano, 1985.

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