L’ascesa dell’azionariato diffuso: il ruolo della legge e dello Stato nella separazione tra proprietà e controllo

Due sono i principali modelli di mercati azionari che si sono sviluppati nei paesi industrializzati: un modello anglosassone, diffusosi negli Stati che adottano il sistema di common law (ma non senza eccezioni), e un modello germanico che, con alcune varianti, si è imposto nei paesi di civil law dell’Europa continentale. A questi due modelli corrispondono anche due diversi sistemi di corporate governance, ossia del complesso delle regole, delle strutture organizzative e delle prassi che presiedono ad un corretto ed efficiente governo della società.
I mercati finanziari di stampo anglosassone sono caratterizzati dalla grande diffusione presso il pubblico delle azioni e degli altri strumenti finanziari in generale, dall’elevata liquidità, da rigorose clausole di informazione e pervasivi sistemi di controllo interno ed esterno, dall’incessante tensione verso la maggior trasparenza possibile. Le società presenti in questi mercati sono prive di un gruppo di controllo stabile ed interessato alle vicende imprenditoriali, data la finissima polverizzazione dell’azionariato; le società sono pertanto controllate e gestite dagli amministratori, non sulla base di un diritto di proprietà ma in forza del rapporto fiduciario con gli investitori e della bontà dei risultati ottenuti. Tale sistema, denominato “market-oriented”, implica che il giudizio sull’operato degli amministratori provenga direttamente dal mercato finanziario, sensibilissimo ai flussi informativi, e si rifletta sul valore delle azioni: la moltitudine dei proprietari della società esprimerà la valutazione sulle scelte industriali, economiche e finanziarie mantenendo la propria partecipazione oppure disinvestendo. I managers quindi, per riuscire a conservare il controllo sulla società, dovranno puntare a delle buone performances che soddisfino gli investitori e a mantenere alto il valore delle azioni: solo in tal modo potranno tenersi al riparo da scalate ostili ed evitare il rischio che un nuovo azionista, rastrellando dal mercato una quota di controllo, possa sostituirli con una classe dirigenziale di sua fiducia.
Il modello germanico è completamente diverso. Questo è caratterizzato di norma da un mercato azionario assai meno sviluppato, poco aperto ai flussi informativi, in cui il valore degli scambi è scarso e la media del flottante delle società quotate è anche di tre volte inferiore a quello delle società quotate nei mercati di stampo anglosassone. I finanziamenti vengono raccolti presso soggetti istituzionali, sovente sotto l’ombrello protettivo statale: da qui inevitabile l’atrofia dei mercati azionari, relegati a una funzione speculativa e residuale. Le società operanti in questo sistema sono saldamente in mano un ristretto gruppo di azionisti di controllo che può essere costituito da gruppi familiari, banche, imprese assicurative e persino dallo Stato: questi soggetti, considerati i grandi benefici privati del controllo, difficilmente vi rinunceranno e se mai accadrà non avranno interesse alcuno a frammentare la propria quota, ma saranno disposti a dismettere solo il pacchetto completo. In questo ambiente pertanto matura una forte repulsione verso le scalate, non solo in quanto non è diffuso il principio che un ricambio al vertice possa garantire una migliore redditività, scalzando una classe dirigente inetta, ma anche perché si attribuisce un valore sociale all’impresa che non può passare di mano in mano come un bene di consumo qualsiasi. La separazione tra proprietà e controllo, tipica delle società appartenenti al modello anglosassone, è vista quindi come una grave patologia, che rende la società vulnerabile agli attacchi esterni e svuota di ogni potere decisionale l’assemblea degli azionisti, cuore della democrazia societaria.
La differenza tra i due sistemi, fino a pochi decenni fa abissale, va riducendosi ma non per questo resta meno evidente. I mercati dell’Europa continentale, oltre a perseguire l’armonizzazione delle proprie regolamentazioni ai fini della creazione di un unico mercato finanziario europeo, tendono a convergere verso il modello anglosassone, tanto che molti hanno intravisto in queste rapide trasformazioni la riedizione del percorso intrapreso dagli Stati Uniti a partire dalla seconda metà del XIX secolo: la media del capitale flottante delle società aumenta, le percentuali delle quote in mano agli azionisti di controllo diminuiscono e soprattutto diviene sempre più massiccio il ricorso ad offerte pubbliche di acquisto e di scambio, pur non mancando ingerenze da parte del mondo istituzionale e politico.
L’azionariato diffuso si è quindi rivelato, nel corso del tempo, l’assetto societario prevalente, congiuntamente allo sviluppo di mercati regolamentati liquidi e dotati di stringenti sistemi informativi e di controllo. Partendo da questo dato oggettivo, occorre però domandarsi se l’azionariato diffuso necessita di condizioni ambientali e legislative particolari per potersi efficacemente imporre e se una di queste variabili può essere individuata nel sistema legale stesso, stante l’evidenza che il luogo di nascita delle grandi public companies sono i paesi di common law.
Diverse teorie sono state approntate sulle condizioni propedeutiche allo sviluppo di un assetto proprietario diffuso, elaborate sulla scorta delle esperienze storiche dei paesi finanziariamente più attivi a partire dalla seconda metà del XIX secolo.
La relazione tra qualità del contesto normativo in cui operano le società quotate ed il grado di sviluppo dei mercati finanziari ed obbligazionari trova una sua prima e compiuta formulazione negli studi di La Porta, Lopez-de-Silanes, Shleifer e Vishny (LLS&V), che conducono un’indagine comparata sui sistemi finanziari in base ai diversi modelli di corporate governance. In tale analisi assurgono a variabili fondamentale il grado di protezione dei creditori e degli investitori, l’enforcement, e il ceppo d’origine del paese (common law, origine francese, origine tedesca): gli Autori sviluppano una stretta correlazione tra bassa protezione degli investitori e paesi di civil law e una maggiore attenzione ai diritti degli azionisti, in particolar modo quelli di minoranza, e paesi di common law. Solo in quest’ultimi, sostengono LLS&V, l’azionariato diffuso può prendere piede perché in assenza di adeguata protezione da parte della legislazione il mercato finanziario stenterà ad attrarre investitori; per tale motivo nei paesi di civil law il mercato dei capitali è arretrato e l’esiguità degli scambi non riesce ad intaccare le concentrazioni proprietarie, mentre nei paesi di derivazione anglosassone gli scambi sono cospicui e il finanziamento delle società proviene in maggioranza dal pubblico degli investitori piuttosto che dagli investitori pubblici.

In realtà tale tesi, seppur suggestiva, non regge alla prova storica. Enfatizzare il ruolo della legge positiva a tutela degli azionisti e il ceppo d’origine del sistema giuridico si scontra con l’oggettività di alcuni riscontri. In primo luogo, è altamente significativo che il primo mercato azionario nacque ad Amsterdam, ben prima di quello londinese, e l’Olanda non può certo classificarsi come un paese di common law. L’intuizione di LLS&V può essere salvata osservando che, seppur l’Olanda rientri a pieno titolo tra i paesi a diritto civile, moltissime sono le analogie con un paese a common law come la Gran Bretagna, ma da rintracciare, più che nel sistema positivo, nel grado di interventismo dello Stato sull’iniziativa economica privata. In secondo luogo, le public companies cominciarono a svilupparsi verso la fine dell’800, periodo in cui di garanzie legali per gli azionisti di minoranza negli Stati Uniti non v’era ancora traccia. A presidio degli investitori non era stata emanata nessuna legge federale, tant’è vero che la tutela degli azionisti risultava costosa e incerta se si sceglieva di adire gli organi di giustizia statali. Data l’ampia dislocazione sul territorio delle grandi società, accadeva di frequente che ci si rivolgesse a Corti di Stati diversi, le quali immancabilmente si pronunciavano in senso difforme, oppure si sceglieva direttamente di instaurare la causa nello Stato in cui poteva contarsi sul riguardo di un giudice corrotto. Proprio in conseguenza della scarsa ed inefficiente tutela apprestata dalla giustizia statale, si svilupparono, in questo periodo, accordi di autoregolamentazione e si ricorse ad arbitrati privati per risolvere le controversie: tali meccanismi, che lungo corso hanno avuto nella storia statunitense, testimoniano l’assenza di diritti per gli azionisti di derivazione statale e l’inospitalità del sistema di common law, almeno sotto questo punto di vista.
Un’altra teoria, elaborata da Lucian Bebchuk, sostiene che condizione per lo sviluppo dell’azionariato diffuso è che i benefici privati del controllo siano bassi: in sostanza, la proprietà concentrata è la regola, quella diffusa è l’eccezione. Ma un’analisi del genere non tiene in dovuta considerazione la realtà economica: la diffusione dell’azionariato presso il pubblico è la regola in mercati che pesano, quali quello statunitense o britannico, e nei paesi tradizionalmente più ancorati alla concentrazione della proprietà quest’ultima manifesta notevoli zone di erosione. Inoltre non si può semplicisticamente affermare che l’origine dell’azionariato diffuso dipenda dall’assenza di benefici del controllo: se ciò fosse vero, non si capirebbe allora l’obiettivo di chi cerca di acquisire il controllo di una società tramite una scalata e non si giustificherebbero le sempre più numerose operazioni di takeover.
Ancora, si può ricercare nella tradizione politica il mancato sviluppo di mercati azionari e obbligazionari in Europa. Mark Roe fonda l’atrofia dei mercati europei sullo sviluppo del c.d. Stato sociale, in cui la priorità non era la massimizzazione del profitto o l’aumento del volume degli scambi, bensì la tutela dei diritti sociali. Perciò, nei periodi di crisi, dovevano prevalere gli interessi dei lavoratori e di coloro il cui sostentamento dipendeva dalla società, più che quelli degli azionisti. Lo Stato tentava quindi di interferire nelle politiche societarie, garantendo protezione ai portatori di interessi che aveva selezionato come privilegiati: secondo la teoria di Roe, pochi azionisti di controllo sarebbero stati in grado di contrastare meglio queste indebite pressioni, piuttosto che un gruppo disomogeneo e disorganizzato di piccoli investitori.
Ma anche quest’opinione presta il fianco ad alcune critiche. La concentrazione della proprietà non è una caratteristica permanente dello Stato sociale, tant’è che nei paesi asiatici o in quelli africani in via si sviluppo, che assomigliano più a stati plutocratici e sono ben lontani da slanci assistenziali, la concentrazione raggiunge livelli altissimi, sintomo di ambigui scambi di favori tra controllanti e classe politica piuttosto che baluardo contro le sue ingerenze. Seguendo la linea argomentativa di Roe, inoltre, si può obiettare come sia assai agevole esercitare pressioni contro uno o comunque pochi azionisti di controllo e non lo sia invece per nulla agire su una massa anonima e disinteressata di piccoli investitori.
Ciò che però più profondamente mette in discussione l’assunto di Roe è l’incompatibilità dei tempi: lo Stato sociale si affermò in un periodo storico ben successivo al radicamento della concentrazione della proprietà azionaria nelle mani di pochi. Infatti, già sul finire del XIX secolo, in Francia e Germania l’assetto societario pendeva in modo incontrovertibile a favore di un azionariato non diffuso tra il pubblico; negli stessi anni, in Gran Bretagna, paradossalmente spuntavano i germogli di nuove politiche sociali ma ciò non valse comunque ad intaccare la liquidità dei mercati.
I tentativi di individuare una sola condizione (protezione legale delle minoranze, scarsi benefici privati del controllo, ascesa dello Stato sociale), come terreno fertile per la diffusione dell’azionariato presso il grande pubblico e per lo sviluppo di liquidi mercati dei capitali, falliscono. Né si può semplicisticamente affermare che tale fenomeno sia cresciuto nei soli paesi di common law, sia perché allora si sviluppò sulla falsariga di questi mercati anche quello olandese e sia perché oggi l’Europa continentale sta convergendo verso il modello anglosassone, senza aver manifestato alcuna intenzione di recepirne il sistema legale anglosassone.

Il contesto giuridico in cui maturarono i mercati azionari, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, ha realtà ha avuto un certo peso, ma non in quanto insieme di norme e di apparati per l’amministrazione della giustizia, piuttosto quanto riflesso di una mentalità e di un rapporto diverso tra Stato e cittadino, tra pubblico e privato. Nei paesi pionieri nello sviluppo della finanza, Inghilterra e Stati Uniti, la regolamentazione privata precedette quella pubblica e questo fu possibile solo grazie ai grandi margini di autonomia che un sistema decentralizzato rilasciava ai privati. Al contrario, i paesi europei, in quello stesso periodo, erano soggetti a notevoli pressioni interventiste e dirigiste da parte dei governi: in Francia uno Stato burocratico e centralista sistematicamente controllava mercati e scambi, in Germania uno stato autoritario fondava un sistema bancocentrico che annullava le possibilità di espansione dei mercati. A prescindere quindi dalle caratteristiche di ogni paese, in cui il mercato è nato e si è sviluppato per motivi diversi, si può osservare che il sostrato politico e culturale migliore per l’attecchimento di mercati azionari liquidi è quello di uno Stato decentralizzato, in cui sia assente la smania di intervento nelle questioni economiche, dove c’è ampio spazio per le regolamentazioni private ed è concesso ricorrere ad arbitrati privati per risolvere le controversie se il sistema giudiziario è inefficiente. I paesi di civil law, oltre ad essere caratterizzati da sistemi centralizzati e governi invadenti, retaggio di una società feudale, lasciavano poco spazio all’iniziativa economica: le codificazioni restringevano i margini dell’autonomia privata, i giudici avevano meno discrezionalità nella decisione delle liti, un corpo legislativo statico e presuntivamente privo di lacune era meno elastico rispetto ai repentini cambiamenti della realtà economica.
Detto ciò, ogni esperienza ha le sue peculiarità. Negli Stati Uniti il mercato finanziario fu trainato dalla necessità di raccogliere ingenti capitali da parte delle società ferroviarie. A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, le società controllate da gruppi familiari si trasformarono progressivamente in public companies, ansiose di rastrellare finanziamenti dal grande pubblico ma soprattutto dai facoltosi investitori stranieri, i quali però pretendevano di essere adeguatamente rassicurati. A quel tempo non esistevano leggi federali a protezione degli azionisti, né era consigliabile rivolgersi al sistema giudiziario statale una volta che il danno si era verificato: come guadagnarsi allora la fiducia di chi deteneva la liquidità indispensabile per la crescita economica? Un importate ruolo fu giocato dalle grandi banche che, oltre a veicolare tali investimenti, in prima persona entravano nella società piazzando un loro agente all’interno dei consigli di amministrazione. In tal modo, assumendosi esse stesse il rischio del fallimento, ben si impegnavano nel monitorare i managers ed erano attente nel proteggere la società da scalate ostili. In quel periodo, difatti, le grandi imprese economiche erano continuamente messe a rischio dall’instabilità del controllo: le scalate erano vantaggiosissime in quanto, in mancanza di regole, nessun premio di controllo era dovuto e nessun obbligo di comunicazione al mercato delle proprie intenzioni era imposto; solo le grandi banche avevano gli strumenti per poter arginare takeovers occulti ed improvvisi.
Oltre alle banche, un impulso enorme allo scambio di partecipazioni azionarie venne dato dallo sviluppo del New York Stock Exchange (NYSE), mercato in cui venivano quotate solo le società in possesso di determinati requisiti. Il NYSE non era un monopolista, ma si trovava in aperta concorrenza con altri mercati statunitensi, ad esempio il Boston Stock Exchange; inoltre per la sua posizione  geografica puntava a raccogliere grandi capitali dall’estero. Si sviluppò così un mercato altamente competitivo e qualificato, in cui gli standards richiesti per la quotazione delle società erano elevatissimi e i meccanismi di negoziazione venivano semplificati il più possibile (ad esempio attraverso l’introduzione di una commissione fissa). Gli intermediari che gestivano il mercato erano egoisticamente interessati al suo ottimale funzionamento (al contrario della Francia in cui erano dipendenti statali stipendiati) per aumentarne l’affidabilità e di conseguenza il numero e l’entità delle transazioni eseguite. Ma anche le società quotate nel NYSE avevano ogni interesse all’efficienza e alla trasparenza perché la loro reputazione era strettamente collegata a quella del mercato stesso. Senza alcuna imposizione di legge, quindi, si mettono in atto severi accordi di autoregolamentazione: non vengono accettate società i cui titoli sono troppo volatili, come le imprese petrolifere, gli obblighi di informazione sono piuttosto avanzati, si arriva persino a rifiutare la quotazione di quelle società le cui azioni sono prive del diritto di voto, per evitare che con piccole percentuali si acquisisse il controllo senza agganciare il relativo rischio alla propria quota di proprietà. Il NYSE si propone come il guardiano del pubblico risparmio, un mercato sicuro, esclusivo, non troppo propenso al rischio e preoccupato di difendere i diritti degli azionisti: queste condizioni si verificano spontaneamente, senza alcun imposizione di legge e lo Stato resta impassibile a guardare, almeno fino alla crisi del 1929.
L’esperienza inglese, seppur maturata in un contesto molto simile a quello statunitense, presenta alcune divergenze, soprattutto per quanto concerne le caratteristiche del mercato. Innanzi tutto, le società inglesi avevano esigenze ben diverse da quelle americane, in quanto non erano alla spasmodica ricerca di liquidità, bensì ben più portate all’esportazione. Il London Stock Exchange (LSE) quotava un numero molto maggiore di società rispetto al NYSE, gli standards richiesti non erano poi così rigorosi, gli scambi erano sì intensi ma di minore entità, i controlli assai meno pervasivi. In sostanza il principio ispiratore del LSE era il laissez-faire, mentre nella non distante Borsa di Parigi era vietato tutto ciò che non era esplicitamente permesso.

L’autoregolamentazione in Inghilterra non ebbe un gran successo. Ciononostante l’azionariato diffuso, seppur in epoca più tarda rispetto agli Stati Uniti, non esitò ad affermarsi: come mai? In primo luogo l’apparato giudiziario inglese, per quanto fosse caotico e incoerente il sistema delle fonti, era sorprendentemente efficiente e riscuoteva gran fiducia presso i sudditi, riducendo al minimo l’ansia per la mancanza di protezione e il conseguente ricorso alla regolamentazione privata. In secondo luogo si tende a dimenticare, proprio per il loro affacciarsi prematuro nell’albo delle legislazioni sul mercato finanziario, che l’Inghilterra il suo complesso di regole le aveva già, e dal lontano 1856. Il Company Act sanciva la libertà di costituzione delle società per azioni, ponendo però tre pilastri fondamentali: la tipicità del rapporto sociale, il quale implica la predeterminazione da parte della legge dei diritti dei soci, con la conseguente impossibilità di approfittamenti da parte di chi ha una posizione di maggior forza nella compagine sociale; la pubblicità del bilanci per soddisfare le esigenze informative degli investitori e dei creditori sociali; la pluralità dei soci, senza la quale non è pensabile attribuire il beneficio della limitazione della responsabilità al solo patrimonio della società. Con il trascorrere dei decenni, anche a seguito di vari scandali finanziari, la legislazione intervenne puntualmente a correggere le inefficienze del sistema: nel 1900 vengono migliorate le misure anti-frode, nel 1907 si rafforzano gli obblighi di disclosure, nel 1929 si compiono indagini sulla solidità finanziaria delle società prima di accettarne la quotazione, nel 1950 è emanato un codice di regolamentazione delle scalate, nel 1972 viene resa obbligatoria un’offerta pubblica di acquisto di tutte le azioni una volta superata la soglia del trenta per cento delle azioni possedute. Tutte norme volte ad incentivare la diffusione dell’azionariato, aumentando le misure protettive per gli investitori e imponendo il pagamento di un premio per l’acquisizione del controllo.
Tra le regole stabilite per via legislativa dall’Inghilterra, negli Stati Uniti alcune erano state anticipate dal NYSE tramite autoregolamentazione, altre furono adottate tramite la prima legge federale sul mercato mobiliare, il Security Act del 1933. Tale impianto legislativo fu la risposta al crollo di Wall Street nel 1929 e portò con sé alla creazione, nel 1934 di un nuovo ente governativo, il Secureties and Exchange Commission (SEC), preposto alla vigilanza delle borse valori.
Questa carrellata legislativa consente anche di tirare le somme sul peso che il diritto positivo può aver esercitato sulla diffusione dell’azionariato. Di certo la legge non ha avuto il ruolo di propulsore della nascita delle public companies: un tale modello di corporate governance si sviluppa in ragione dell’impellente bisogno di ingenti capitali per poter finanziarie le proprie attività e riesce a farlo grazie alla fiducia accordatale dagli investitori, protetti o da un sistema giudiziario efficiente o da un mercato affidabile. Ma ciò non vuol dire che il diritto positivo non abbia il suo peso. I mercati, per loro natura instabili o volatili, attraversano momenti di depressione difficilmente evitabili: in questi casi è la legge che deve opportunamente subentrare, traghettando le società in crisi di liquidità verso acque più felici e rassicurando gli azionisti. La legge agisce quindi come un paracadute che deve opinatamente aprirsi quando un sistema, nato e gestito in forza dell’autoregolamentazione, mostra le sue inevitabili inefficienze. In tal modo non si perde la fiducia degli investitori e non si mette a repentaglio la vita di società la cui esistenza è indissolubilmente legata alla raccolta del pubblico risparmio.
L’azionariato diffuso ed un mercato attivo e liquido possono quindi nascere in assenza di garanzie legislative, come la storia dimostra, ma non possono svilupparsi oltre un certo limite o sopravvivere ai periodi di crisi se non con l’intervento di una solida regolamentazione statale. Poiché, però, i fenomeni economici e le prassi commerciali si affermano ben prima della legge (spesso tanto prima da passare inosservati o da non essere pienamente compresi), gli interventi legislativi sovente giungono in ritardo, quando uno scandalo ha già causato molti danni e al medesimo tempo ha avuto il triste merito di portare alla luce del sole le patologie del sistema. Non a caso molte legislazioni arrivano dopo inattesi scandali finanziari e, per confermare questa tendenza, non serve risalire molto indietro nel tempo, ma è sufficiente fermarsi al 2002 con l’emanazione del Sarbanes-Oxley Act, che ha ridefinito i poteri della SEC a seguito dei casi WorldCom, Enron e Tyco International.
Anche i sistemi finanziari dell’Europa continentale, impegnati in una sempre più sfrenata corsa alla raccolta di capitali, stanno attualmente convergendo verso il modello anglosassone di azionariato diffuso e i legislatori nazionali, preso atto della transizione economica in corso, tentano, non senza affanni, di adattare le regole vigenti ai nuovi assetti. In Italia si è saliti sul treno del rinnovamento con la “legge Draghi” (Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria, D. Lgs n. 58 del 1998), e si è andati avanti per la stessa via con la riforma del diritto societario (D. Lgs 6 del 2003), che ha profondamente inciso sul sistema della corporate governance, tentando di ampliare i margini dell’autonomia privata. Ma si è ancora assai lontani dai risultati raggiunti da Stati Uniti e Gran Bretagna: le tradizionali sacche di controllo e di concentrazione proprietaria, lungi dall’essere spazzate via, hanno tenacemente resistito e la coesistenza con una maggiore diffusione tra il pubblico delle azioni ha creato un sistema anomalo, talvolta in grado di assommare le inefficienze dell’uno e dell’altro modello.

Certamente ci troviamo in un periodo di transizione, durante il quale la mentalità tradizionale fa fatica a calarsi nelle nuove regole. Non si può però ignorare il disegno del legislatore nelle modifiche al sistema della corporate governance: chiarire e rafforzare i poteri degli organi gestori, controbilanciandoli con un più stringente regime di responsabilità, ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria, mettendo a disposizione modelli societari più adeguati alle esigenze dell’impresa, favorire la nascita, la crescita e la competitività delle società attraverso l’accesso ai mercati internazionali dei capitali. Il Testo Unico del 1998 aveva segnato la strada maestra insistendo sulla necessità di rivedere alcuni principi base in materia di società quotate in mercati regolamentati: la predisposizione di mezzi più incisivi a tutela delle minoranze, una maggiore trasparenza, accessibilità e diffusione delle informazioni societarie, un più pervasivo sistema dei controlli interno ed esterno, soprattutto in relazione ai dati contabili.
L’analisi sin qui condotta consente di prendere atto che tra i due modelli, public companies e società controllata da pochi o da un solo azionista, nella realtà economica quello dominante e destinato a sopravvivere è il primo, che si accompagna allo sviluppo di mercati dei capitali liquidi ed affidabili.  Ma ciò non implica necessariamente che sia anche il sistema più efficiente. A prescindere dalle dispute sui fattori all’origine dell’azionariato diffuso, tutti gli Autori fin qui esaminati concordano nell’affermare il problema più spinoso di un modello societario simile è quello dei costi di agenzia, tanto più elevati tanto è maggiore la separazione tra la proprietà e il controllo della società.
Quando proprietà e controllo non coincidono, automaticamente si instaura tra la miriade di azionisti della public company (i principali) e gli amministratori della società (agenti) un rapporto di agenzia, in cui l’interesse delle due categorie di soggetti solo parzialmente coincide. Infatti, i piccoli investitori sono generalmente propensi al rischio, in quanto loro obiettivo primario è conseguire elevati profitti, mentre eventuali perdite possono essere tollerate grazie alla diversificazione nella speculazione in diversi settori; i managers sono invece avversi al rischio perché puntano a conservare la propria posizione e non sono disposti ad esporre ad eccessivi pericoli la società che è la loro unica fonte di reddito. Questo conflitto di interessi è aggravato dalla circostanza che mentre il manager è nella posizione migliore per assumere le scelte ottimali per la società, ma non sempre ha l’interesse a farlo, l’azionista non dispone agilmente né delle informazioni sull’andamento dell’impresa, né sulla qualità della gestione degli amministratori. Questi ultimi, pertanto, saranno più che tentati di gestire la società in vista della soddisfazione dei propri interessi, spesso a scapito del perseguimento dello scopo sociale e della redditività delle partecipazioni degli azionisti. La dispersione della proprietà rende difficile monitorare l’operato dei managers ed esercitare pressioni per spingerli alla gestione ottimale a causa della anzidetta asimmetria informativa, che impedisce anche di valutare quali possano essere le strategie vincenti. Inoltre non è facile che possa essere raggiunta l’aggregazione sufficiente ad esercitare un potere sugli amministratori in quanto nessun azionista vorrà esporsi in prima persona se poi potrà godere dell’iniziativa di controllo assunta da altri (problema del free rider).
Si è cercato di minimizzare tali costi con molti meccanismi, nessuno dei quali è stato però in grado di annullarli completamente. Si è fatto leva sul rafforzamento degli obblighi di disclosure per colmare l’asimmetria informativa tra outsiders (azionisti) ed insiders (amministratori), si sono adottate forme di corporate governance in cui si valorizzano organi di controllo interni e si impone o raccomanda la presenza di soggetti indipendenti e disinteressati, si è inasprita la disciplina del conflitto di interessi, si è agganciata la retribuzione degli amministratori all’andamento del titolo o agli utili risultanti dal bilancio, in modo da avvicinare il loro interesse a quello degli azionisti. Ovviamente qualcuno di questi rimedi si è rilevato efficiente, qualcun altro ha avuto successo finché non è intervenuto lo scandalo di turno che lo ha relegato nell’angolo della diffidenza. A tutt’oggi quindi la ricerca di incentivi per indurre gli agents a coltivare esclusivamente l’interesse della società prosegue incessante.
Ma questo non prova che un sistema societario in cui prevalga la concentrazione proprietaria non sia immune dai costi di agenzia solo perché l’azionista di controllo internalizza i costi e i benefici delle strategie imprenditoriali. Il rapporto principale-agente si viene similmente a riproporre tra azionista di maggioranza e di minoranza: chi detiene il controllo potrà indirizzare la gestione della società attraverso la scelta di amministratori di fiducia e se vorrà approfittarne potrà sottrarre risorse al patrimonio aziendale oppure svenderle ad altre società controllate. In Italia, in particolar modo, sono oltremodo diffuse le patologie dei gruppi piramidali, dove una holding arriva a controllore con quote a volte anche infinitesimali moltissime società a valle; tale organizzazione si presta assai bene ad operazioni poco limpide, in cui vengono sistematicamente defraudati gli azionisti di minoranza delle società a valle, incapaci di esercitare pressioni sui propri managers.
Dalla presenza dei costi d’agenzia in entrambi i modelli si può affermare che questi non possano costituire una valida discriminante per stabilire il sistema più efficiente. Dagli studi comparatistici emerge senza alcun dubbio una stretta correlazione tra livello di protezione degli azionisti di minoranza e diffusione dei titoli di partecipazione societari presso il pubblico. Nel modello anglosassone i piccoli risparmiatori godono di un grado protezione maggiore, sono incentivati ad investire perché le società hanno bisogno di raccogliere capitale e sono attirati dalla distribuzione degli utili e dalla possibilità di un rapido disinvestimento. In un sistema in cui l’azionariato è concentrato nelle mani di pochi, le minoranze, nel migliore dei casi, sono un impaccio per il controllante quando non sono considerata alla stregua di un innocuo fantasma, che non può nulla anche se rivendica molto; gli utili (quando vengono fatti comparire) vengono trattenuti il più possibile dalla società stessa per non essere elargiti alla platea degli azionisti.

Per pregiudizi politici sul modello capitalistico, invece, la separazione tra proprietà e controllo è lungamente, e per molti aspetti lo è tuttora, stata percepita come una grave patologia da bandire nel nostro sistema finanziario, in cui gli azionisti sono subdolamente espropriati del loro potere decisionale e relegati a mere comparse con il solo compito di mettere a disposizione i propri risparmi a emeriti sconosciuti. Ma una descrizione del genere mal si concilia con la realtà e soprattutto con gli obiettivi del piccolo azionista. Chi investe i suoi risparmi in una grande società non brama affatto potere decisionale e la possibilità di influire sulle decisioni aziendali; il suo unico interesse è speculativo, mirato in primis a rivendere le azioni a un prezzo maggiore di quello di acquisto e secondariamente a percepire dei dividendi. Ci si preoccupa, ingiustificatamente, di far ottenere agli azionisti di minoranza dei diritti che essi stessi sono i primi a non volere, o quanto meno a considerarli una variabile indifferente nelle loro scelte di investimento. L’azionista giudicherà poi i risultati della società in base al valore delle azioni, decidendo se rinnovare la sua fiducia ai managers conservando il proprio investimento in attesi di ulteriori profitti, oppure manifesterà la sua delusione vendendole: come si può vedere, una strategia a dir poco elementare, adatta ad un soggetto che non è un investitore professionale e che non saprebbe neanche sfruttare la miriade di strumenti e di rimedi che il legislatore si premura di offrire all’azionista in generale e a quello di minoranza in particolare. L’unica grande preoccupazione del piccolo investitore, ossia quella che va sedata per favorire la diffusione tra il pubblico degli strumenti finanziari, è quella di non gettare al vento i suoi soldi finanziando una scatola vuota: quindi, piuttosto che abbassare i quorum per far valere azioni di responsabilità, per convocare l’assemblea, per denunciare le irregolarità al tribunale, è certamente più rassicurante per il soggetto sapere che la società a cui sta partecipando ha i “conti in ordine”. Si è disposti a rischiare su un possibile deprezzamento delle azioni, ma si vuole avere la certezza che queste non diventino in breve tempo carta straccia, o peggio ancora, che non siano già tali al momento dell’acquisto. Per questo vanno rafforzati sempre più i controlli interni ed esterni sulla verità e correttezza dei dati patrimoniali, economici e finanziari forniti dalle società, e sono da incentivare i meccanismi informativi sull’andamento della gestione, sulle prospettive di crescita, sull’evoluzione prevedibile del mercato.
L’azionariato diffuso, in quanto pone nelle mani degli amministratori il controllo della società, è in grado inoltre di creare un vero e proprio mercato dei managers, la cui reputazione è direttamente collegata al rendimento della società. Dirigenti la cui inettitudine si riflette sul deprezzamento delle azioni esporranno la società al rischio di scalate ostili e chi ne assumerà il controllo non tarderà a sostituirli con soggetti più competenti per valorizzare l’azienda che ha appena rilevato. Si instaura da questo punto di vista un circolo virtuoso, in cui si selezionano tecnicamente i più capaci anche se è bene ricordarsi che, non trovandoci in un sistema di informazione perfetta, è irrealistico pretendere che si riesca a scalzare tutti gli incapaci che occupano poltrone importanti. Resta comunque indubitabile il fatto che un controllo precario, basato sulla redditività delle azioni, stimola di più la competitività, la preparazione e l’impegno dei managers piuttosto che un controllo stabile fondato sulla proprietà e che è in grado di obbligare le decisioni sotto la scure del ricatto.
In conclusione, lungi dal voler emettere un presuntuoso verdetto sulla maggiore efficienza dell’azionariato diffuso rispetto alla concentrazione della proprietà, vorrei annotare un’improprietà lessicale che genera non poche ambiguità e si riflette inevitabilmente anche sul severo giudizio dato al modello anglosassone. Quest’ultimo viene generalmente connotato come un sistema in cui è netta la separazione tra proprietà e controllo, in quanto gli azionisti non dispongono di percentuali sufficienti ad esercitare pressioni sull’organo amministrativo: ma tale caratteristica non può essere considerata una patologia tipica del modello anglosassone e da cui è invece immune un assetto come il nostro. Direi, piuttosto, che in un modello di azionariato diffuso la separazione tra proprietà e controllo è pressoché completa, mentre nei paesi in cui persistono forti concentrazioni proprietarie la disgiunzione è parziale, giacché ci sarà sempre una parte di proprietà sfornita di controllo, classicamente gli azionisti di minoranza. Ed ecco allora che, magicamente, potrebbero comparire anche nel nostro tutti quei problemi collegati alla separazione tra proprietà e controllo paventati nei modelli market-oriented.