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L’ascesa dell’azionariato diffuso: il ruolo della legge e dello Stato nella separazione tra proprietà e controllo

di - 15 Dicembre 2010
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Per pregiudizi politici sul modello capitalistico, invece, la separazione tra proprietà e controllo è lungamente, e per molti aspetti lo è tuttora, stata percepita come una grave patologia da bandire nel nostro sistema finanziario, in cui gli azionisti sono subdolamente espropriati del loro potere decisionale e relegati a mere comparse con il solo compito di mettere a disposizione i propri risparmi a emeriti sconosciuti. Ma una descrizione del genere mal si concilia con la realtà e soprattutto con gli obiettivi del piccolo azionista. Chi investe i suoi risparmi in una grande società non brama affatto potere decisionale e la possibilità di influire sulle decisioni aziendali; il suo unico interesse è speculativo, mirato in primis a rivendere le azioni a un prezzo maggiore di quello di acquisto e secondariamente a percepire dei dividendi. Ci si preoccupa, ingiustificatamente, di far ottenere agli azionisti di minoranza dei diritti che essi stessi sono i primi a non volere, o quanto meno a considerarli una variabile indifferente nelle loro scelte di investimento. L’azionista giudicherà poi i risultati della società in base al valore delle azioni, decidendo se rinnovare la sua fiducia ai managers conservando il proprio investimento in attesi di ulteriori profitti, oppure manifesterà la sua delusione vendendole: come si può vedere, una strategia a dir poco elementare, adatta ad un soggetto che non è un investitore professionale e che non saprebbe neanche sfruttare la miriade di strumenti e di rimedi che il legislatore si premura di offrire all’azionista in generale e a quello di minoranza in particolare. L’unica grande preoccupazione del piccolo investitore, ossia quella che va sedata per favorire la diffusione tra il pubblico degli strumenti finanziari, è quella di non gettare al vento i suoi soldi finanziando una scatola vuota: quindi, piuttosto che abbassare i quorum per far valere azioni di responsabilità, per convocare l’assemblea, per denunciare le irregolarità al tribunale, è certamente più rassicurante per il soggetto sapere che la società a cui sta partecipando ha i “conti in ordine”. Si è disposti a rischiare su un possibile deprezzamento delle azioni, ma si vuole avere la certezza che queste non diventino in breve tempo carta straccia, o peggio ancora, che non siano già tali al momento dell’acquisto. Per questo vanno rafforzati sempre più i controlli interni ed esterni sulla verità e correttezza dei dati patrimoniali, economici e finanziari forniti dalle società, e sono da incentivare i meccanismi informativi sull’andamento della gestione, sulle prospettive di crescita, sull’evoluzione prevedibile del mercato.
L’azionariato diffuso, in quanto pone nelle mani degli amministratori il controllo della società, è in grado inoltre di creare un vero e proprio mercato dei managers, la cui reputazione è direttamente collegata al rendimento della società. Dirigenti la cui inettitudine si riflette sul deprezzamento delle azioni esporranno la società al rischio di scalate ostili e chi ne assumerà il controllo non tarderà a sostituirli con soggetti più competenti per valorizzare l’azienda che ha appena rilevato. Si instaura da questo punto di vista un circolo virtuoso, in cui si selezionano tecnicamente i più capaci anche se è bene ricordarsi che, non trovandoci in un sistema di informazione perfetta, è irrealistico pretendere che si riesca a scalzare tutti gli incapaci che occupano poltrone importanti. Resta comunque indubitabile il fatto che un controllo precario, basato sulla redditività delle azioni, stimola di più la competitività, la preparazione e l’impegno dei managers piuttosto che un controllo stabile fondato sulla proprietà e che è in grado di obbligare le decisioni sotto la scure del ricatto.
In conclusione, lungi dal voler emettere un presuntuoso verdetto sulla maggiore efficienza dell’azionariato diffuso rispetto alla concentrazione della proprietà, vorrei annotare un’improprietà lessicale che genera non poche ambiguità e si riflette inevitabilmente anche sul severo giudizio dato al modello anglosassone. Quest’ultimo viene generalmente connotato come un sistema in cui è netta la separazione tra proprietà e controllo, in quanto gli azionisti non dispongono di percentuali sufficienti ad esercitare pressioni sull’organo amministrativo: ma tale caratteristica non può essere considerata una patologia tipica del modello anglosassone e da cui è invece immune un assetto come il nostro. Direi, piuttosto, che in un modello di azionariato diffuso la separazione tra proprietà e controllo è pressoché completa, mentre nei paesi in cui persistono forti concentrazioni proprietarie la disgiunzione è parziale, giacché ci sarà sempre una parte di proprietà sfornita di controllo, classicamente gli azionisti di minoranza. Ed ecco allora che, magicamente, potrebbero comparire anche nel nostro tutti quei problemi collegati alla separazione tra proprietà e controllo paventati nei modelli market-oriented.

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