Quale destino per le società degli enti locali?

1. Negli ultimi anni, una serie di leggi ha investito le società controllate dagli enti pubblici locali, giungendo a porre l’interrogativo, titolo di queste brevi pagine: quale destino le attende?
La successione delle leggi si può riassumere con poche parole. Il primo intervento fu quello della c.d. legge Bersani, n. 248 del 2006. All’art. 13 essa statuì che “le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali o locali per la produzione di beni o servizi strumentali all’attività di tali enti” (con la sola esclusione dei servizi pubblici locali e dei servizi di committenza) “devono operare con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti” e non possono né erogare prestazioni a favore di terzi né partecipare ad altre società. La ragione di questa norma è enunciata all’inizio dell’art. 13: “Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori”.

2. L’anno successivo, l’art. 3, co. 27 della l. n. 244 del 2007 prescrisse, sempre a tutela della concorrenza, che le amministrazioni di cui all’art. 1, 2° comma del  d.lvo 30 marzo 2001, n. 165, “non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni o servizi non strettamente necessari per il perseguimento delle loro finalità istituzionali, né assumere o mantenere, direttamente o indirettamente, partecipazioni anche di minoranza in tali società”. Entro un breve termine (18 mesi) le partecipazioni si sarebbero dovute cedere a terzi (co. 29). Anche in questa norma vi era un’ eccezione al divieto: “è sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale” e l’assunzione di partecipazioni in esse.
Lo spettro di applicazione della normativa dettata dalla c.d. legge Bersani si ampliava straordinariamente: l’art. 1, co. del d. l.vo n. 165/2001 riguarda praticamente tutte le amministrazioni, Stato compreso. L’anno dopo si corse ai ripari: con l’art. 71, co. 1, lett. c) della l. 18 giugno 2009, n. 69, sono state fatte salve le disposizioni che disciplinavano le competenze del Ministero dell’economia alla data di entrata in vigore della l. n. 244/2007: in questo modo contorto vennero così salvate dalla cessione a terzi le partecipazioni dello Stato nelle mille società che possiede e venne rimosso il divieto di iniziative imprenditoriali volte alla produzione di beni e servizi non strettamente strumentali per il perseguimento dei fini istituzionali degli enti ristretto agli enti locali.

3. Tra il giugno 2008 ed il settembre 2009 Governo e Parlamento intervennero sulle società che erano state sottratte all’applicazione delle due leggi qui sopra richiamate, nn. 248/2006 e 244/2007, vale a dire le società di gestione dei servizi pubblici locali. Tutti sanno quanto straordinariamente complessa sia la situazione di queste società: talune erano totalmente pubbliche; altre totalmente private; altre ancora miste; la scelta del socio era avvenuta nei modi più vari. L’art. 23 bis, introdotto in sede di conversione del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 [1], modificato poi nel 2009 [2], ha dettato una nuova disciplina per il conferimento della gestione dei servizi pubblici, ed un regime transitorio.
La disciplina per il conferimento prevede tre ipotesi. La prima è che la gestione sia affidata ad un soggetto totalmente privato: deve essere scelto con gara, secondo i principi comunitari. La seconda ipotesi è che il conferimento avvenga ad una società mista, pubblico-privata. Anche qui il socio privato, cui deve essere attribuita una partecipazione non inferiore al 40%, deve essere scelto tenendo conto degli specifici compiti operativi che sarà chiamato a svolgere. Infine, come ultima, sostanzialmente eccezionale ipotesi, è previsto l’affidamento in house – cioè ad una società completamente partecipata dall’ente locale, su cui esso deve esercitare un controllo analogo a quello che eserciterebbe su una propria divisione interna.
Ciò che qui veramente rileva sono le norme transitorie, le norme cioè che regolano il passaggio dal regime in vigore alla data di entrata in vigore della legge ed il nuovo. Si può dire che il legislatore abbia usato la scure. Durano fino alla scadenza naturale le sole gestioni affidate a società miste, pubblico-private, in cui la gara per la scelta del socio abbia avuto ad oggetto tanto la qualità di socio quanto l’ attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio. Tutte le altre, sia quelle affidate a società a capitale misto, pubblico-privato, in cui il privato non sia stato scelto anche in funzione dei compiti operativi affidatigli, sia quelle in house, cessano ex lege ed improrogabilmente alla data del 31 dicembre 2011. C’è solo un limite per le gestioni in house: possono durare fino alla scadenza naturale se, entro il 31 dicembre 2011, le amministrazioni cedono almeno il 40% del capitale ad un socio con compiti operativi, scelto attraverso una gara in cui si valuti appunto questa funzione che gli deve essere assegnata. Tutti gli altri affidamenti – sostanzialmente quelli diretti, fatti senza scelta del socio in gara – cessano addirittura al 31 dicembre 2010.
Una norma molto singolare è quella dettata per gli affidamenti assentiti a società a partecipazione pubblica, quotate in borsa. Qui vi è una prima singolarità: affidamenti e quotazione in borsa hanno una data di riferimento molto precisa: il 1° ottobre 2003. Gli affidamenti con queste caratteristiche – in essere a tale data, ed a tale data a favore di società quotate in borsa – cessano alla scadenza contrattuale a condizione che la partecipazione pubblica al capitale della società scenda sotto il 40% entro il 30 giugno 2013 ed al 30% entro il 31 dicembre 2015; se ciò non accade, a queste date gli affidamenti vengono meno. È superfluo spendere anche una sola parola sulla portata traumatica di una norma di questo genere. Qualunque speculazione, mirata a ridurre al massimo il valore delle azioni, è possibile. [3]

4. Il 2010 vede l’apparire di un decreto legge che detta “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, come sempre di grandissima complessità. È del 31 maggio; reca il n. 78. Lo ha convertito la l. 30 luglio 2010, n. 122, ovviamente con modificazioni.
Per il tema che si va qui tentando di esplorare deve essere ricordato – salvi errori, naturalmente – il solo co. 32 dell’art. 14. Esso introduce un duplice ordine di divieti. Proibisce ai comuni con meno di 30.000 abitanti la costituzione di società di qualsiasi genere e prescrive la liquidazione di quelle esistenti. Fa salve quelle costituite da una pluralità di comuni, che collettivamente superino la soglia dei trentamila abitanti. Vieta ai comuni con popolazione compresa tra i 30.000 ed i 50.000 abitanti di detenere la partecipazione in più di una sola società; se ve ne sono in numero maggiore … una si può salvare; le altre vanno liquidate.

5. Tutto ciò pone due ordini interrogativi. Il primo attiene alle ragioni di questa irruzione del legislatore statale nell’ordinamento delle autonomie locali. Il secondo alle conseguenze, sul piano del diritto e quindi della complessità del quadro che così si vorrebbe realizzare.
Il fenomeno in sé di queste leggi, ed in particolare dell’ultima, è infatti molto singolare. È di piana, incontrovertibile evidenza che il d.l. n. 78/2010, al pari della l. n. 244 del 2007 si sia preoccupato di finanza pubblica. Il legislatore ha così cercato di tagliare alla radice una fonte incontrollabile di spese di gran lunga superiori ai ricavi, costituita da iniziative industriali gestite dagli enti pubblici locali: in tale gestione si cela infatti un vizio di fondo, costituito dal prevalere degli interessi politici e di partito su quelli che discendono da un’ottica di produzione e di profitto, e che quindi conducono ad una amministrazione efficiente ed economica.
Resta il fatto che è difficile immaginare rimedio più radicale per un male almeno in linea di principio rimediabile con mezzi ordinari, ivi compreso il fallimento delle singole imprese insolventi. È ragionevole dubitare che fosse davvero impossibile trovare un sistema forse astrattamente meno incisivo di questo prescelto, ma in concreto anche meno devastante e più stabile nel lungo periodo. Basti pensare al caso delle società quotate che gestiscono servizi pubblici, in cui gli enti locali soci devono ridurre la partecipazione prima sotto il 40% e poi sotto il 30%. Perché? Cui prodest?
Le leggi sopra ricordate evocano il tema della concorrenza, enunciato nelle premesse dei vari articoli, quasi a loro giustificazione. Esso resta però nell’ombra. Nessuno discute che nell’universo delle società degli enti locali e di quelle che erogano pubblici servizi in particolare vi siano problemi di concorrenza. Non sembra infatti che vi sia alcuna vera ragione concorrenziale per costringere a dismettere le partecipazioni in società che producono per il mercato beni o servizi non strettamente necessari per l’attività istituzionale degli enti locali che le controllano; o per travolgere le società concessionarie di servizi pubblici in cui il socio privato sia stato scelto sì con gara, ma non mirata anche a valutare le sue capacità di gestore. In quest’ultimo caso, si è addirittura introdotto un vizio genetico del procedimento di scelta del socio, con una norma sostanzialmente retroattiva.

6. Emerge qui il problema di diritto.
Non sembra dubbio che il divieto mantenere partecipazioni in società industriali sia fenomeno giuridico diverso, ad. es. dal divieto di circolare in città con mezzi a motore o di usare un certo combustibile, come è avvenuto con il carbone. È diverso per una ragione per così dire strutturale: non vieta una singola azione, ma proibisce di darsi (o mantenere) un certo assetto patrimoniale. Disposizioni di questo genere investono la capacità della persona giuridica, nel senso che, pur potendo essa astrattamente volere ed in concreto avere gli strumenti per gestire una società e la sua impresa, in concreto questo è giuridicamente impossibile – appunto vietato.  Nessuno può avere due coniugi; gli enti locali non possono possedere società.
Non sembra del pari dubbio che limitazioni di questo genere alla capacità giuridica degli enti pubblici locali possano essere introdotte soltanto con legge dello Stato. È vero che il titolo V della Costituzione, dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001, disegna un sistema di forte autonomia funzionale dei comuni ed in generale degli enti locali (sono enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione, dice l’art. 114); da ciò si potrebbe trarre che nessuno può prescrivere loro come debbono strutturare le loro attività di natura imprenditoriale. È però altrettanto vero che, secondo l’art. 119 u.c., “comuni, province, città metropolitane e regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato”, e che, come prescrive ancora l’art. 119, essi possono indebitarsi solo per finanziare spese per investimenti e che “è esclusa ogni garanzia dello Stato per i prestiti contratti”. Di fronte a queste norme costituzionali parrebbe difficile negare che limitazioni alla capacità giuridica degli enti locali come quelle di cui si va dicendo rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato.

7. Ma qui sta il problema presupposto, forse ancora più grave. Per dettare una disciplina di questo genere era dunque necessaria una legge dello Stato. Legge dello Stato sì, certo: ma quale legge?
Il problema può essere rappresentato in termini relativamente semplici. Il divieto di assumere e mantenere partecipazioni in società industriali non è una prescrizione qualsiasi. Proprio per il fatto che incide nella capacità giuridica degli enti locali, deve (dovrebbe) inserirsi in una prospettiva di lungo periodo, nel cui ambito soltanto può trovare il proprio significato: in sostanza, deve (dovrebbe) trattarsi di un passaggio nel corso di un processo di riforma degli enti locali, volto, ad es., a portarli al solo esercizio di funzioni amministrative, finanziate con l’imposizione fiscale, esclusa ogni prestazione di servizi. Detto incidentalmente, anche le modalità di vendita delle partecipazioni; l’eventuale liquidazione delle società; il pagamento dei debiti residui; l’impiego delle risorse eventualmente derivate dalla dismissioni; la gestione del personale; sono tutti temi sui quali la parola del legislatore non avrebbe fatto danno. Last but not least, si sarebbe dovuto stabilire con ogni chiarezza a quali conseguenze avrebbe condotto la violazione dei divieti – dunque il mantenimento delle partecipazioni.
Di tutto ciò non vi è traccia nell’ambito delle norme di cui si parla. Esse sembrano buttate lì, nello sterminato mare di leggi che viene detto ordinamento, non si sa bene se come bombe a mano in una battaglia o sassi in uno stagno. Si pone il divieto di possedere società o anche solo partecipazioni in esse, senza dire come tutto ciò deve avvenire. Questo fatto è grave, perché decisioni di tal genere e tale portata non possono essere prese solo per annunciare l’avvio di un riordino dei conti. Sono interventi di sistema, che cambiano l’assetto degli enti locali. Bisogna avere bene in mente dove si vuole arrivare e con quali strumenti perseguire la meta. Sta qui il problema della legge, ovvero di quale legge ci si debba valere per realizzare un intervento così radicale, come questo di cui si va dicendo [4].

8. Sappiamo naturalmente bene che la legge quale veicolo di precetti generali ed astratti è morta – e non solo in Italia – con scarse prospettive di resurrezione. La sua agonia è molto lontana nel tempo. Già Cammeo e Santi Romano osservavano che di legge nel senso classico del termine non si poteva parlare per la legge che fissava l’appannaggio del principe ereditario ed in generale per tutte quelle che attribuivano benefici a qualcuno; di leggi provvedimento si parla ormai da decenni (almeno da quando, nei primi anni ’60 del secolo scorso, si provvide alle espropriazioni delle industrie elettriche private a favore dell’ENEL mediante decreti legislativi delegati, con l’intento di evitare i ricorsi al Consiglio di Stato); si teorizza oggi quel che viene detto “amministrare per legge” [5]. È insomma acquisito alla nostra esperienza giuridica che la legge in sé altro non sia che un atto giuridico dotato di una forza formale particolare (è insindacabile dal giudice, salvo che per contrasto con la normativa comunitaria; il giudice può solo sospettarne l’incostituzionalità e rimettere la questione alla Corte costituzionale), che può avere qualsiasi contenuto, lato sensu precettivo o normativo. Nei fatti, come l’esperienza insegna, questa forza formale è stata attribuita a qualsiasi tipo di “volere”, vale a dire ad atti di qualsiasi “contenuto”.
Tutto ciò dà ingresso a molti problemi di puro diritto costituzionale, sui quali non ci si può fermare. Uno è però determinante per il tema che si va discutendo.
La legge provvedimento (per semplicità di linguaggio ci si consenta l’uso di questo termine in qualche misura improprio) ha la caratteristica di risolvere un problema concreto con uno strumento rigido, la legge appunto, al quale si deve nuovamente ricorrere per un successivo intervento. Nei fatti, il suo uso esautora amministrazione e Parlamento, a favore del Governo. Esautora l’amministrazione perché non dispone del potere legislativo: deve attenersi alla legge esistente; esautora il Parlamento perché esso non è materialmente in grado di esercitare l’iniziativa legislativa nello sterminato mare di norme di legge coordinate (e scoordinate) tra loro, modificate in singole parole, parzialmente abrogate etc. etc. È difficilissimo esercitare l’iniziativa legislativa se non si possono conoscere le norme in vigore e gli interventi di cui hanno bisogno. Solo il Governo, dunque, è in grado di tenere sotto controllo le leggi in vigore e di assumere l’iniziativa per modificarle.
Sennonché non tutto ciò che accade pone soltanto problemi concreti; né, del pari, non tutti gli strumenti che si adottano per risolvere un problema concreto sono strumenti altrettanto concreti, tagliati su misura, per così dire. Succede spesso che un problema contingente, concreto, venga affrontato con norme che, pensate in termini specifici, ad hoc, si rivelano poi norme di carattere generale: come tutti sanno, l’intenzione del legislatore non ha alcun rilievo ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione della legge. Ma sono norme di carattere generale monche, appunto perché non pensate in funzione di ciò che dicono, ma solo di ciò che il legislatore aveva in mente con riguardo alle circostanze date.
Questo fa sì che molte norme possano essere inattuabili nella loro formulazione generale, magari non voluta. Si possono attuare in alcuni casi; non sempre. L’esempio paradigmatico è quello della legge n. 244 del 2007, di cui si è detto sopra. Essa aveva una formula – il richiamo all’art. 1, co. 2, d. l.vo 30 marzo 2001, n. 165 – che includeva tra gli enti pubblici tanto gli enti locali, quanto lo Stato e le regioni: anch’essi avrebbero dovuto dismettere ogni partecipazione. Di fronte alla “difficoltà” di cedere in pochi mesi le partecipazioni in Enel, Eni, RAI, Finmeccanica etc., con l’art. 71, co. 1, lett. c), l. 18 giugno 2009, n. 69, anch’esso sopra ricordato, il divieto di possedere partecipazioni in società industriali operanti sul mercato è stato limitato agli enti locali. In parole più semplici: nella foga dei tagli, il legislatore ha ecceduto, andando ben oltre le proprie intenzioni. Nell’uso della norma provvedimento per riportare ordine in un settore ad elevata criticità la scure gli è sfuggita di mano, come si dice.

9. Si può così tornare al tema da cui si sono prese le mosse e che dà il titolo a queste note. Quale destino per le società degli enti locali?
A nostro avviso, norme costruite come quelle di cui si è qui discusso in realtà sono destinate a restare prive di effetti – ovvero inattuate. La prima ragione è che esse colpiscono indiscriminatamente tutti gli enti locali, in buone e pessime condizioni finanziarie. Come è palese, questo le espone a dubbi di costituzionalità, sotto il profilo della violazione degli artt. 3 e 97 Cost. Ma soprattutto poi non è previsto alcun passaggio, alcuna verifica, alcuna procedura per giungere alle dismissioni. Di fronte ad una struttura sostanzialmente rigida come è quella degli enti locali, questo rende l’obbligazione inesigibile, come si direbbe in diritto privato. Chi fa i bandi, chi regola le fasi transitorie, chi disciplina la liquidazione ed i rapporti in essere? Di fronte a questo, passa addirittura in secondo piano il fatto che non sia previsto l’esercizio di alcun potere sostitutivo.
A riprova di quanto si dice si pensi alle norme, sopra riportate, che prescrivono la decadenza anticipata di certe concessioni, senza necessità di delibera dell’ ente. È chiaro che si è pensato di produrre così un effetto ex lege, senza intermediazione degli enti interessati. Ma è fattibile? La risposta non può che essere negativa. La norma è dettata per i servizi pubblici locali. È certamente sana nella sua ispirazione. Ma un servizio pubblico non può essere interrotto. Senza una linea continua di provvedimenti che governino il passaggio verso la scelta del nuovo socio, il servizio continuerà. Si può scommettere, con il vecchio socio.

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La fiaba insegna che la legge non è un’astrazione, un atto dotato di certe caratteristiche formali. È anche questo, ma deve essere calibrata sull’intervento che si vuole fare. Se si tratta di conferire un bene a qualche ente, certamente una legge provvedimento è sufficiente. Ma se si vuole incidere nel sistema non ci sono scelte. Ci vuole una legge pensata, studiata, formulata come generale. Diciamo pure, una legge di natura, costruita dall’uomo.

Note

1.  La legge di conversione è la n. 133 del 6 agosto 2008.

2.  Con il d.l. 25 settembre 2009, n. 135, conv. in l. 20 novembre 2009, n. 166.

3.  Merita riportare il co. 9 dell’articolo di cui si va dicendo, il quale vieta la partecipazione a gare per l’affidamento di un servizio pubblico a chi già ne gestisca uno, in Italia o all’estero, senza esserselo conquistato in seguito a gara:
“Le società, le loro controllate, controllanti e controllate da una medesima controllante, anche non appartenenti a Stati membri dell’Unione Europea che, in Italia o all’estero gestiscono di fatto, o per disposizioni di legge, di atto amministrativo o per contratto, servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica, ovvero ai sensi del comma 2 lettera b), nonché i soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, non possono acquisire gestione di servizi ulteriori, ovvero in ambiti territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare. Il divieto di cui al periodo precedente opera per tutta la durata della gestione e non si applica alle società quotate in mercati regolamentati e al socio selezionato ai sensi della lettera b) del comma 2. I soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali possono comunque concorrere su tutto il territorio nazionale alla prima gara successiva alla cessazione del servizio, svolta mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica, avente ad oggetto i servizi da essi forniti”.

4.  A riprova di quanto si va dicendo (che questa specie di esecuzione sommaria delle società degli enti locali ne rende la scomparsa difficile, da renderla improbabile) v. GUZZO, Le nuove regole dei servizi pubblici locali alla luce della disciplina attuativa introdotta dal d.P.R. n. 168/2010, www.dirittodeiservizipubblici.it.

5.  Per una accurata storia della legislazione priva di carattere generale, dalle sue origini alle motivazioni che la hanno sorretta, v. S. SPUNTARELLI, Amministrazione per legge, 2007