Gli impegni sui diamanti dividono i giudici europei

Il caso Alrosa ha fornito ai giudici europei l’occasione per fornire la chiave di lettura delle “decisioni con impegni”, disciplinate dall’art. 9 del regolamento del Consiglio dell’Unione europea n.1/2003, nonché dall’art. 14-ter della l. 287/1990. Occasione in parte mancata perché le interpretazioni dell’istituto, che emergono dalle sentenze del Tribunale di primo grado e della Corte di Giustizia, differiscono notevolmente tra di loro.
La decisione della Commissione[1], sottoposta al sindacato dei giudici europei, riguarda un accordo di fornitura di diamanti concluso tra De Beers, leader nel mercato mondiale della produzione e della fornitura di diamanti e Alrosa, una società russa che si colloca al secondo posto sul medesimo mercato.
Sull’intesa, che impegnava Alrosa a vendere a De Beers (e questa ad acquistare) diamanti grezzi naturali per un importo di 800 milioni di dollari l’anno, la Commissione aveva avviato contestualmente due procedimenti: il primo per infrazione dell’art. 81, nei confronti di entrambe le società ed il secondo per  abuso di posizione dominante nei confronti della sola De Beers.
Le due società avevano a questo punto presentato impegni congiunti per la progressiva riduzione della vendita di diamanti grezzi tra le due società, il cui valore doveva passare da 700 milioni di dollari nel 2005 a 275 nel 2010, e la successiva fissazione del limite massimo degli scambi a tale livello.
Su indicazione della Commissione, De Beers aveva poi presentato impegni individuali che prevedevano la progressiva riduzione degli acquisti di diamanti grezzi da Alrosa per arrivare poi alla definitiva cessazione di ogni rapporto commerciale con l’impresa russa a partire dal 2009.
Avverso la decisione di accettazione di questi impegni individuali, la società russa ha proposto ricorso al Tribunale, lamentando la eccessiva onerosità delle misure rese obbligatorie dalla Commissione e quindi la violazione del principio di proporzionalità.
Il Tribunale di primo grado[2] ha accolto il ricorso ed annullato la decisione della Commissione.
La sentenza del Tribunale di primo grado pone un netto parallelismo tra le decisioni di infrazione, adottate ai sensi dell’art. 7 del regolamento 1/2003 e le decisioni di accettazione di impegni, ex art. 9 del medesimo regolamento ed afferma l’identità della funzione esercitata nei due casi dalla Commissione.
La forma negoziata del procedimento non altera la sostanza pubblicistica del potere esercitato e la finalizzazione di questo al compito affidato alla autorità pubblica di tutela della concorrenza. In particolare la forma negoziata del procedimento non vale a trasformare la decisione della Commissione nella mera accettazione di una proposta liberamente formulata da una controparte contrattuale. La decisione finale costituisce pur sempre un provvedimento “vincolante che pone fine ad una situazione di infrazione, in occasione del quale essa esercita il complesso delle prerogative conferite dagli artt. 81 e 82 CE”.
Le conseguenze di questa impostazione investono il momento dell’accertamento dell’infrazione e la fase successiva, ed eventuale, del controllo giurisdizionale. La chiusura anticipata e patteggiata del procedimento non esonera la Commissione dall’obbligo di compiere tutte le analisi di mercato necessarie ad identificare esattamente i termini del problema concorrenziale e le misure proporzionate per farvi fronte.
Sulle decisioni così adottate, il giudice può esercitare un controllo giurisdizionale effettivo di proporzionalità, sotto il duplice profilo della idoneità rispetto allo scopo e della necessità[3]. In altre parole, il giudice può verificare che “l’istituzione, qualora esistano misure meno restrittive di quelle che intende rendere obbligatorie, e siano ad essa note, esamini la loro idoneità a rispondere alle preoccupazioni che giustificano la sua azione, prima di optare, qualora esse dovessero rivelarsi all’uopo inidonee, per la formula più restrittiva”.
Nel caso di specie, la decisione adottata dalla Commissione non ha superato il test di proporzionalità. Ha ritenuto difatti il Tribunale che: “dalle circostanze del caso di specie, risultava chiaramente che erano possibili altre soluzioni, meno restrittive del divieto permanente di operazioni commerciali tra la De Beers e la Alrosa per conseguire lo scopo prefisso, che la loro determinazione non presentava difficoltà tecniche particolari e che la Commissione non poteva dispensarsi dall’esaminarle”.
Opposte le conclusioni cui è pervenuta la Corte di giustizia nella sentenza del 29 giugno scorso[4]. Ma soprattutto notevolmente diverse le premesse dalle quali muovono i giudici europei di secondo grado.
Secondo la Corte di giustizia la disciplina dettata dall’art. 9 del reg. 1/2003 “è ispirata da considerazioni di economia processuale”. L’esigenza che il legislatore ha inteso salvaguardare è quella di risolvere in tempi rapidi il problema concorrenziale evidenziato dalla Commissione. Tale esigenza è assolta consentendo “alle imprese interessate di proporre le soluzioni che esse ritengono più appropriate ed adeguate per rispondere alle preoccupazioni della Commissione”.

La ratio stessa della norma induce perciò la Corte a ritenere che, nel contesto dell’art. 9, il principio di proporzionalità assume un significato ed una portata diversi rispetto a quel che avviene nel contesto dell’art. 7.
In quest’ultimo caso, la portata del principio è quella specificata dallo stesso art. 7, n. 1 , per il quale la Commissione può imporre alle imprese interessate “l’adozione di tutti i rimedi strutturali e/o comportamentali purché siano proporzionati all’infrazione commessa e necessari a farla cessare effettivamente”.
Nel contesto dell’art. 9, in mancanza di una espressa previsione in tal senso, i rimedi che potrebbero essere eventualmente imposti ex art. 7 del regolamento 1/2003 non “servono necessariamente da riferimento ai fini della valutazione della portata degli impegni”, né  è corretto considerare “automaticamente sproporzionato tutto quanto vada oltre tale misura”. La Commissione deve limitarsi a controllare il contenuto degli impegni alla luce dei problemi che essa ha identificato nella sua valutazione preliminare (punto 41).
La Corte individua nel carattere della volontarietà degli impegni il dato che consente di superare i limiti derivanti dal principio di proporzionalità. Si legge nella sentenza: “le imprese che propongono impegni in base all’art. 9 del regolamento 1/2003 accettano coscientemente che le loro concessioni possano eccedere quanto potrebbe imporre loro la Commissione stessa in una decisione che adotterebbe conformemente all’art. 7 di tale regolamento, a seguito di una inchiesta approfondita”. L’accettazione consapevole di una possibile sproporzione sarebbe compensata, nell’ottica delle imprese, dal vantaggio di evitare “la constatazione di una violazione del diritto alla concorrenza e l’eventuale irrogazione di una ammenda”[5]
In conclusione, secondo la Corte, l’equiparazione operata dal Tribunale tra le decisioni adottate ex art. 9, del regolamento 1/2003 e quelle di infrazione adottate ex art. 7 è errata[6]. Le seconde sono sottoposte al test di proporzionalità. Le prime ad un sindacato molto più ristretto: il giudice può solo verificare se “la valutazione effettuata dalla Commissione sia manifestamente errata”[7]I
I limiti del sindacato sarebbero stati oltrepassati dal Tribunale, laddove questo “ha espresso una sua valutazione divergente avente ad oggetto l’ idoneità degli impegni congiunti ad eliminare i problemi di concorrenza identificati dalla Commissione per giungere alla conclusione che nel caso di specie esistevano soluzioni alternative meno onerose per le imprese del totale divieto di effettuare operazioni commerciali”[8].
La sentenza di primo grado è stata così annullata, con il conseguente rigetto del ricorso proposto da Alrosa avverso la decisione della Commissione.
Il dissenso tra i giudici europei di primo e di secondo grado verte dunque su di un aspetto cruciale per l’inquadramento dell’istituto e che può essere sintetizzato in questi termini: le misure concordate tra l’autorità pubblica di tutela della concorrenza e le imprese indagate sono pur sempre soggette ai vincoli dell’adeguatezza, della necessità e della non eccessiva onerosità ed al relativo sindacato giurisdizionale, oppure l’osservanza delle regole riconducibili al principio di proporzionalità è resa superflua dal consenso, manifestato dall’impresa indagata?
Per il Tribunale, i criteri dell’adeguatezza, della necessità e della non eccessiva onerosità (riassumibili poi nel principio di proporzionalità) assolvono una esigenza di garanzia di una sfera di interessi che travalica i confini del rapporto particolare tra l’amministrazione e i diretti destinatari dell’atto. A tali criteri, in quanto appunto forma di garanzia di una sfera di interessi più ampia e coincidente al limite con l’interesse generale, sono sottoposte anche le decisioni patteggiate di accettazione di impegni, le quali rappresentano pur sempre atti di esercizio del potere attribuito alla Commissione dagli artt. 81 e 82.
Per la Corte di giustizia, il consenso prestato dall’impresa indagata, con la proposta e l’accettazione degli impegni, limita la portata del test di proporzionalità ed il sindacato giurisdizionale all’ipotesi dell’errore manifesto. La prospettiva, nella quale si pone la Corte di giustizia è quella favorevole ad assegnare ai principi di legalità, proporzionalità e giustiziabilità, ovvero al regime amministrativo, una funzione di garanzia del singolo, rispetto all’esercizio di un potere amministrativo unilaterale ed imperativo.
In ballo è, in definitiva, la individuazione dei limiti dell’attività amministrativa, intesa come ambito di attività sottoposta ai principi propri del regime amministrativo: se questi coincidono con l’area della azione autoritaria ed unilaterale dell’amministrazione o della attività di questa finalizzata  a quei compiti, di interesse generale, che le sono assegnati dalle legge.
La tesi della Corte di giustizia ha suscitato pochi consensi. Si è osservato che non tiene conto “dei reali rapporti di forza tra Autorità di concorrenza ed imprese che sono fortemente sbilanciati a favore delle prime, soprattutto nell’ambito di un procedimento di infrazione in corso[9].
L’obiettivo di evitare l’applicazione della sanzione e la pubblicità negativa derivante da una decisione di condanna possono spingere l’impresa indagata a proporre essa stessa e ad accettare impegni eccedenti rispetto a quanto idoneo e necessario a ricostituire l’equilibrio concorrenziale del mercato. Il pericolo di degenerazione del sistema è duplice.

Le misure concordate tra l’Autorità e l’impresa indagata, al di fuori dei vincoli imposti dal principio di proporzionalità e dal relativo sindacato giurisdizionale, potrebbero anche produrre danni a terzi, e in definitiva allo stesso equilibrio concorrenziale del mercato.
Questa eventualità non è resa maggiormente accettabile dalla considerazione del carattere volontario degli impegni.
Come ha osservato il Tribunale, nell’ambito della procedura disciplinata dall’art. 9, la decisione della Commissione non assume il valore di mera accettazione di una proposta liberamente formulata da una controparte contrattuale, ma resta invece pur sempre un atto di esercizio “delle prerogative conferite dagli artt. 81 e 82 CE[10]
Gli impegni, sganciati dal vincolo di proporzionalità rispetto alla infrazione, in virtù del consenso espresso dall’impresa indagata, potrebbero essere piegati al perseguimento di finalità di mero benessere del mercato e dei consumatori. Il rischio è quello di accentuare una china regolatoria, che è estranea ai compiti tipici dell’autorità antitrust.
Inoltre, da un punto di vista pratico, viene da chiedersi quale utilità presenti, ai fini di tutela della concorrenza, una procedura condotta all’ insegna della sommarietà, nella quale ad un accertamento sommario dell’ illecito antitrust segue una valutazione altrettanto sommaria del contenuto delle misure prescritte.
Né convince la risposta fornita sul punto dalla Corte di giustizia, la quale si appella ad esigenze di “economia processuale”, alla opportunità cioè di concludere rapidamente il procedimento avviato dalla Commissione. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’area di naturale applicazione, e di possibile applicabilità, della procedura disciplinata dall’art. 9 è quella delle violazioni non gravi. Ma proprio nelle ipotesi di violazioni non gravi, la Commissione, o in genere l’autorità amministrativa antitrust, può anche astenersi del tutto dall’intervenire.
Sul piano teorico, suscita perplessità l’idea che il previo consenso, manifestato dall’impresa indagata possa affievolire la portata dei principi di proporzionalità-giustiziabilità e dunque che il regime amministrativo (ovvero il complesso dei principi e delle norme che regolano l’agire amministrativo) riguardi esclusivamente quella sfera di attività nella quale l’amministrazione agisce come autorità.
Proprio il diritto europeo ed i suoi giudici ci hanno istruiti ad una concezione sostanziale della pubblicità e all’idea che il “regime amministrativo” trova il suo punto di riferimento non già nella peculiarità delle forme, nelle quali si debba esprimere l’organizzazione o l’attività, bensì nella sostanza di queste. Sul piano del diritto interno questa conclusione trova una conferma nell’art. 97 Cost., interpretato dalla giurisprudenza come riferibile a tutta l’attività amministrativa, indipendentemente dalle forme nelle quali è svolta[11].
La decisione del Tribunale di primo grado ha avuto una eco immediata nella giurisprudenza italiana.
Nella sentenza dell’8 maggio 2009, n. 4994, Servizi di soccorso autostradale, la prima sezione del Tribunale amministrativo del Lazio ha affrontato la questione dei limiti al potere discrezionale della Autorità, quando essa adotta le decisioni ex art. 14-ter., e della sottoponibilità di queste al sindacato di proporzionalità.
Gli impegni con i quali le società concessionarie autostradali si erano obbligate ad affidare il servizio di soccorso autostradale mediante concessioni ad operatori selezionati  a seguito di procedure ad evidenza pubblica sono stati sottoposti dal giudice amministrativo al test  di proporzionalità, secondo i due parametri della idoneità e della necessità.
La decisione dell’Autorità è stata annullata poiché questa “ non solo non ha dimostrato la congruità delle misure (…) rispetto alle finalità asseritamente perseguite con l’avvio del procedimento istruttorio, ma ulteriormente ha omesso di offrire apprezzabili argomentazioni in ordine alla necessità di approvazione delle stesse”.
Il Tar ha pure avvertito il pericolo che misure eccedenti il problema concorrenziale possano concretare un “intervento manipolativo” dell’Autorità sul mercato. Ma questo “quantunque veicolato dalla accettazione di impegni proposti dalle parti, appare trasmodare dalle prerogative legittimamente esercitabili dall’Autorità, venendo ad integrare una determinazione regolatoria del mercato stesso, che il Collegio ritiene esorbitante rispetto alle attribuzioni di vigilanza, controllo e verifica in ordine al corretto svolgimento delle dinamiche competitive che l’ordinamento disciplina e demanda all’Antitrust”
La vicenda è ora all’esame del Consiglio di Stato e sarà interessante verificare se il revirement della Corte di giustizia, rispetto all’interpretazione seguita dal Tribunale, troverà un seguito nella giurisprudenza nazionale.

Note

1.  Decisione della Commissione, 22 febbraio 2006, caso COMP/38.381, De Beers, in GUUE, 27 LUGLIO 2006.

2.  Tribunale di primo grado, 11 luglio 2007, T-170/06, Alrosa c. Comissione.

3.  Id., punto 126.

4.  Corte di Giustizia, 29 giugno 2010, C-441/07, Commissione c. Alrosa.

5.  Id., punto 42.

6.  Id., punto 50.

7.  Id., punto 42.

8.  Id., punto 66.

9.  Così M. SIRAGUSA, Le decisioni con impegni, in Studi per il ventennale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

10.  Cfr. Tribunale di primo grado, 11 luglio 2007, cit. punto 87.

11.  Cfr. Cons. Stato, (Ad. Plen.), 22 aprile 1999, n. 4, che ha affermato il principio dell’applicabilità del regime amministrativo, condensato nell’endiadi del buon andamento e dell’imparzialità dell’art. 97 Cost., a tutta l’attività dell’amministrazione, anche se svolta nelle forme del diritto privato.