Il diritto societario europeo

Il Trattato delle Comunità europee (dallo scorso primo dicembre Trattato sul funzionamento delle comunità europee) riconosce il diritto di stabilimento alle società costituite in uno degli Stati membri e aventi la sede sociale (o sede legale), l’amministrazione centrale o il centro di attività principale (o sede effettiva) all’interno della Comunità. Il diritto di stabilimento comprende il diritto dell’impresa di insediarsi in uno Stato membro per una durata indeterminata al fine di esercitarvi un’attività economica. Esso si articola sia nella possibilità di stabilire la propria sede legale in uno Stato membro diverso da quello di origine, sia nella possibilità di aprire agenzie, filiali o succursali in un altro Stato membro rispetto a quello della sede legale secondo la legislazione dello Stato membro di destinazione. Il Trattato in sostanza tende ad equiparare le società alle persone fisiche cittadine degli Stati membri per quanto riguarda la libertà di stabilimento.

Tuttavia, poiché per il Trattato la società non esiste se non in forza dell’ordinamento nazionale che ne prevede la costituzione, il relativo stabilimento nel territorio di uno Stato diverso presuppone il mutuo riconoscimento delle società tra i vari Stati membri. Alla sua entrata in vigore nel 1958, il Trattato di Roma non assicurava la piena libertà di stabilimento per le società, non consentendone la piena mobilità, in particolare la possibilità di trasferire la sede legale in un altro stato membro senza la previa dissoluzione. Un secondo ostacolo era rappresentato dalla mancanza di una previsione che permettesse di trasferire la sede effettiva senza previa dissoluzione della società, nel caso in cui lo Stato membro di costituzione richiedesse che anche la sede effettiva si trovasse nel territorio dello Stato. Un terzo ostacolo riguardava la mancanza di una previsione che permettesse fusioni di società soggette a legislazioni nazionali diverse. Alla nascita delle Comunità europee, un quarto e ulteriore ostacolo alla mobilità delle società e alla libertà di stabilimento era rappresentato dalle diverse previsioni del diritto societario dei vari Stati membri, quali fra le altre le modalità di costituzione delle società, i requisiti di pubblicità, il regime del capitale, l’organizzazione interna, i diritti degli azionisti, la partecipazione dei lavoratori alla gestione sociale, la dissoluzione.

Il Trattato peraltro riconosceva tali limitazioni e proponeva come prima soluzione l’adozione di convenzioni tra gli Stati membri per il mutuo riconoscimento delle forme societarie nazionali e per il mantenimento della personalità giuridica nell’ipotesi di trasferimento della sede da uno Stato membro ad un altro e la possibilità di fusioni di società soggette a legislazioni nazionali diverse senza che questo ne richiedesse la previa dissoluzione. In secondo luogo, il Trattato introduceva le basi costituzionali per consentire alle autorità comunitarie di adottare delle misure volte a coordinare i diritti nazionali al fine di facilitare la realizzazione della libertà di stabilimento.

Obiettivo di questo articolo è delineare sinteticamente il cammino intrapreso dalle istituzioni comunitarie per assicurare la piena libertà di stabilimento delle società europee e la libertà di circolazione dei capitali, dalle iniziative adottate nei primi anni delle Comunità europee alle ultime proposte legislative al momento all’esame del Consiglio e del Parlamento.

Dapprima si tentò la strada di una convenzione tra gli Stati membri di coordinamento delle norme rispettive di diritto internazionale privato e delle norme sul conflitto di leggi, vale a dire di quelle norme con le quali gli Stati membri disciplinano l’uscita di una società dal proprio ordinamento giuridico e l’ingresso di una società nel proprio ordinamento giuridico. Il passo in avanti che si realizzava era però limitato alla rinuncia da parte degli Stati membri della possibilità di impedire l’uscita di una società che rispettasse la legislazione dello Stato di origine e destinazione. Questa convenzione non fu mai ratificata dai Paesi Bassi, in quanto non permetteva una mobilità delle società condizionata soltanto alle norme giuridiche dello Stato membro di destinazione. I Paesi Bassi in quel periodo ritenevano di avere la normativa societaria più flessibile per le società e si consideravano quindi potenzialmente beneficiari di un flusso migratorio nel loro paese, flusso che non sarebbe stato pienamente consentito dalla Convenzione che lasciava agli altri Stati membri la possibilità di porre limitazioni all’uscita di società dal proprio ordinamento giuridico, ad es. condizionandola al trasferimento anche della sede effettiva.

All’emersione del pericolo del forum shopping come elemento ostativo al raggiungimento di un accordo sulla libertà di stabilimento societaria seguì una risposta da parte delle istituzioni comunitarie che, adottando alla fine degli anni ’60 un piano di armonizzazione sistematica del diritto societario degli Stati membri, di fatto mirarono a ridurre al massimo gli effetti della concorrenza fra legislazioni nazionali e quindi a permettere l’adesione degli Stati membri alla piena mobilità delle società. Se questa scelta ha permesso un’ampia armonizzazione nel successivo decennio, essa non è stata in grado di superare le differenze fondamentali tra i diritti societari degli Stati membri, il cui numero intanto aumentava progressivamente, in primo luogo riguardo alla partecipazione obbligatoria dei lavoratori alla gestione e alla disciplina dei gruppi di società.

Negli anni ’80 il punto di riferimento del diritto societario europeo passa da un processo di armonizzazione progressiva degli ordinamenti nazionali ad un processo nel quale i nuovi strumenti societari comunitari rinviano largamente alla legislazione degli Stati di costituzione. Tale direzione si era delineata già nel 1985 con il Gruppo europeo di interesse economico (GEIE), la cui disciplina rinvia ampiamente alla legislazione del paese di costituzione. Lo statuto della Società europea (SE) è stato adottato nel 2001, con un’ampia restrizione delle materie disciplinate direttamente (formazione, sede, governo societario, partecipazione dei lavoratori alla gestione della SE) e un largo rinvio per tutti gli altri aspetti sia all’autonomia statutaria, sia, soprattutto, alla legislazione nazionale dello Stato membro della sede. Previsioni sulla partecipazione obbligatoria dei lavoratori alla gestione della SE si applicano poi non solo a quelle SE che abbiano la propria sede in uno Stato membro la cui legislazione così preveda, ma anche nei casi di formazione di una SE attraverso fusione o scissione se almeno una delle forme societarie di provenienza (o di destinazione in caso di scissione) abbiano la propria sede in uno di questi Stati. Infine, anche la mobilità di una SE assoggettata al regime di codeterminazione nello Stato di provenienza viene condizionata al mantenimento di tale regime. Tali previsioni di fatto introducono due diverse tipologie di SE in considerazione dell’applicabilità dell’istituto della codeterminazione limitando quindi il diritto di stabilimento – a causa dell’impopolarità della codeterminazione in quegli Stati nei quali questa non è prevista in via obbligatoria – principalmente agli Stati “omogenei”. L’esperienza dei primi anni di applicazione dello Statuto SE mostra infatti che le SE, di numero peraltro ridotto,  sono state costituite essenzialmente in paesi caratterizzati dall’obbligatorietà della partecipazione dei lavoratori alla gestione. Inoltre, il numero dei trasferimenti della sede (legale e effettiva, secondo quanto richiesto dallo statuto SE), è stato fino ad ora trascurabile.

La SE, ad ogni modo, permettendo lo spostamento della sede legale (sia pure accompagnato dallo spostamento della sede effettiva), lascia all’imprenditore la scelta dell’ordinamento giuridico più confacente alla propria organizzazione interna, di fatto riconoscendo il principio della concorrenza degli ordinamenti.  Questo principio è stato riconosciuto più ampiamente dalla Corte di giustizia per le società di prima costituzione. A partire dalla sentenza Daily Mail del 1988, la Corte ha progressivamente riconosciuto il diritto per un’impresa di trasferire la propria sede effettiva in un altro paese dell’Unione senza previa liquidazione, pur riconoscendo la possibilità per lo Stato di origine di condizionare questo trasferimento ad alcuni adempimenti. A partire poi dalla sentenza Centros del 1999 la Corte ha riconosciuto alle società di prima costituzione il diritto di separare il regime della sede legale da quello della sede effettiva e di stabilire quest’ultima anche in Stati membri la cui legislazione societaria riconosce la sede effettiva come un requisito irrinunciabile della costituzione in quel paese, con la conseguenza che ogni impresa di prima costituzione può scegliere il regime legale che ritiene più confacente alla propria organizzazione interna. Le società di prima costituzione possono quindi costituirsi nello Stato membro di loro scelta e svolgere anche la loro intera attività sociale in un altro Stato membro, senza che quest’ultimo possa rifiutare di riconoscere la loro capacità giuridica né possa applicare loro, nemmeno in parte, il proprio diritto societario.

La direttiva fusioni transfrontaliere (decima direttiva) prevede la possibilità di porre in essere la fusione di società di capitali stabilite nell’UE senza la previa dissoluzione di nessuna delle entità coinvolte attraverso l’applicazione delle previsioni nazionali sulle fusioni interne, in primo luogo relative al processo decisionale e alla protezione di creditori e stakeholders delle singole entità coinvolte nel progetto di fusione, e da previsioni della direttiva analoghe a quelle della Società europea relativamente alla nuova entità risultante dal processo di fusione. In particolare, la decima direttiva contiene da un lato delle previsioni sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione della società con ampi riferimenti al regime della SE e dall’altro alcuni, sia pur limitati, aspetti di semplificazione. Rispetto alla possibilità offerta dallo statuto SE di porre in essere fusioni transfrontaliere, la decima direttiva estende tale possibilità ad altre forme societarie oltre che alle sole S.p.A. La direttiva permette poi di trasferire la sede legale di una società in un altro Stato membro attraverso la fusione per incorporazione in una società veicolo del paese desiderato, sia pure a condizione di rispettare, tra l’altro, dei requisiti in materia di partecipazione dei lavoratori alla gestione societaria nonché i requisiti della legislazione nazionale in materia di sede. D’altra parte, non vi è ancora una norma generale che permetta il libero trasferimento della sede legale in un altro Stato membro, sebbene secondo alcuni l’introduzione di una tale norma sia stata sollecitata dalla Corte di giustizia nella sentenza Daily Mail. Di recente, con la sentenza Cartesio, la Corte ha negato agli Stati membri la possibilità di opporsi ad un trasferimento della sede legale di una società registrata nel proprio territorio, riconoscendo quindi alle società il diritto di trasferire la sede legale in un altro Stato membro qualora il paese di destinazione non richieda anche lo spostamento della sede effettiva. Tuttavia, bisogna tenere presente che anche in questo caso la mobilità della sola sede legale non sarebbe comunque possibile verso quegli Stati dove la possibilità di registrare la sede legale di una società è condizionata al trasferimento in questo stesso Stato anche della sede effettiva, tra i quali anche il nostro. Infine, soltanto alcuni Stati membri sembrano prevedere, al momento, l’ipotesi della migrazione della sede legale di una società straniera nel proprio ordinamento.

Negli ultimi anni il diritto societario europeo vede l’introduzione di strumenti legislativi e non legislativi volti a rimuovere alcuni degli ostacoli al diritto di stabilimento e alla libertà di circolazione dei capitali, in un contesto caratterizzato da un lato dal permanere di differenze sostanziali tra i modelli societari nazionali e dall’altro dalla crescente integrazione dei mercati dei capitali.

Nel suo piano di azione adottato nel 2003, la Commissione illustrava una serie di priorità per il miglioramento del diritto delle società e delle pratiche di governo societario nell’Unione europea.  Tra le priorità che hanno trovato seguito negli anni successivi si segnalano l’adozione di direttive e regolamenti concernenti: la semplificazione della seconda direttiva in tema di capitale delle società; la rimozione degli ostacoli al voto degli azionisti delle società quotate; la fusione transfrontaliera di società; l’inclusione di una dichiarazione annuale sul governo societario nei documenti di bilancio annuali delle società quotate e lo statuto della Società cooperativa europea.

Viceversa, non hanno trovato seguito le iniziative annunciate in tema di: introduzione di un regime alternativo a quello del capitale minimo previsto dalla seconda direttiva; misure volte a garantire il rispetto del principio “un’azione un voto” nelle società quotate;  introduzione di un regime europeo della responsabilità degli amministratori delle società quotate e l’introduzione di una disciplina europea dei gruppi di società; obblighi di trasparenza da parte degli investitori istituzionali quanto alle loro politiche e concreto esercizio del diritto di voto nelle società nelle quali investono; statuti della mutua europea e dell’associazione europea; trasferimento della sede delle società.

Oltre alla direttiva fusioni transfrontaliere, l’introduzione della direttiva sull’offerta pubblica di acquisto (Opa) e della direttiva sui diritti degli azionisti (c.d. Shareholders’ rights) rappresentano i risultati principali del Piano d’azione della Commissione del 2003. Si tratta di strumenti aventi l’obiettivo di facilitare l’investimento e la mobilità del capitale di rischio investito nelle società quotate in Europa. La direttiva Opa ha l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli al ricambio nel controllo delle società quotate, in primo luogo attraverso l’introduzione di due vincoli per il management e gli azionisti di controllo, segnatamente la c.d. board neutrality rule (o passivity rule), vale a dire il divieto per il consiglio di amministrazione di adottare misure di difesa, se non su autorizzazione dell’assemblea; in secondo luogo la c.d. breakthrough rule, vale a dire l’inefficacia degli strumenti di rafforzamento del controllo in caso di offerta pubblica di acquisto. La direttiva nasce dall’osservazione formulata dalla Commissione europea della necessità di porre un freno all’esistenza in Europa di assetti proprietari caratterizzati da strumenti di rafforzamento del controllo, quali ad es. patti di sindacato e azioni a voto multiplo e della desiderabilità di facilitare il ricambio nel controllo. Tuttavia, la necessità di raggiungere un compromesso politico ha portato nel 2005 all’adozione da parte del Parlamento e del Consiglio di un testo che permette fra l’altro agli Stati membri di non esigere l’applicazione dei due principi o di subordinarne l’esercizio a clausole di reciprocità. Secondo la Commissione europea l’adozione della direttiva non ha prodotto e con ogni probabilità non produrrà mutamenti significativi nello status quo.

La direttiva Shareholders’ Rights mira sia a rimuovere alcuni ostacoli all’espressione del voto a distanza da parte di azionisti nazionali e transfrontalieri (attraverso il voto per delega e la partecipazione all’assemblea attraverso strumenti elettronici) sia a introdurre alcuni presidi minimi volti a facilitare il diritto degli azionisti di minoranza di convocare l’assemblea e di partecipare alla definizione dell’ordine del giorno. Nel documento di analisi che accompagna la proposta di direttiva la Commissione argomenta che negli Stati membri ostacoli in termini di mancanza di informazioni e adempimenti eccessivamente costosi impediscono a molti azionisti di minoranza di partecipare al voto in assemblea, come dimostrato dalla bassa presenza al voto nelle società quotate europee. Si pone in questo modo un problema di democrazia societaria, in quanto le società quotate rischiano di essere amministrate da una ristretta minoranza di azionisti.  A questo riguardo, la direttiva rimuove i principali ostacoli all’esercizio del voto degli azionisti di minoranza, in primo luogo attraverso una semplificazione delle procedure del voto per delega; riconosce maggiori poteri alle minoranze nella formazione dell’ordine del giorno; obbliga il management a mettere a disposizione degli azionisti maggiori e tempestive informazioni preassembleari.

La conclusione è che delle direttive che in concreto dovevano porre in essere il completamento della libertà di stabilimento soltanto alcune sono state adottate (Società europea, direttiva Fusioni transfrontaliere), peraltro accompagnate da significative restrizioni in termini di disciplina della sede e rispetto del regime di partecipazione obbligatoria dei lavoratori dello stato di provenienza, mentre la direttiva sul trasferimento della sede e lo statuto della Società privata europea non sono ancora stati adottati.

Da ultimo, con la proposta di statuto della Società privata europea, la Commissione ha proposto di superare gli ostacoli derivanti dalla diversità degli ordinamenti societari nazionali attraverso uno statuto societario europeo che esclude in molti ambiti l’applicabilità del diritto nazionale e lascia all’autonomia statutaria il compito di delineare l’organizzazione interna e il regime del capitale.  Il negoziato SPE è al momento in corso e non è chiaro se la proposta della Commissione verrà accettata dal Consiglio e dal Parlamento oppure se, come sembrano prefigurare i primi commentatori, la grande flessibilità del modello proposto verrà limitata con rinvii agli ordinamenti dei Stati membri.

Una serie di iniziative sono pure in corso riguardanti: l’adeguamento del regime di pubblicità societaria posto in essere dalla prima direttiva alla crescente operatività transfrontaliera all’interno dell’Unione; un riesame della regolamentazione contabile introdotta dalla quarta e settima direttiva, dello statuto della Società europea e della direttiva OPA e una possibile iniziativa della Commissione concernente l’introduzione di uno statuto europeo della fondazione.

Allo stesso tempo, la risposta delle istituzioni comunitarie alle conseguenze della crisi finanziaria si articola anche in un capitolo riguardante il diritto societario. Nel 2009 la Commissione europea ha adottato una nuova raccomandazione sulla remunerazione degli amministratori delle società quotate, che dovrebbe essere seguita nel corso del 2010 e del 2011 da iniziative legislative concernenti la stessa remunerazione e più in generale il governo societario delle società quotate.

Un ulteriore ostacolo alla libertà di stabilimento è rappresentato dall’assenza di una legislazione fiscale europea sufficientemente armonizzata da prevenire opportunità per il forum shopping fiscale e le conseguenti misure restrittive oggi adottate da molti Stati membri. Tuttavia, l’obiettivo di contemperare la necessità di rimuovere gli ostacoli fiscali alla libertà di stabilimento con il divieto che la libertà di stabilimento abbia esclusivamente contenuti di forum shopping fiscale non sembra raggiungibile nel breve termine.

L’esperienza statunitense insegna che la piena libertà di stabilimento è possibile soltanto in un contesto nel quale non vi siano radicali differenze tra gli ordinamenti societari statali. Negli Stati Uniti il diritto societario si articola in larga parte in norme dispositive e anche quando vi sono delle norme imperative le differenze fra gli Stati non sono cosi grandi come in Europa. Inoltre negli Stati Uniti la mobilità delle società non sembra essere legata ad opportunità di natura fiscale. La piena mobilita delle società è accettata perché legata essenzialmente allo sfruttamento delle differenze nell’efficienza dei tribunali civili e di moderate differenze in termini di legislazione imperativa.

D’altra parte, nell’Unione europea, le potenzialità di un pieno diritto di stabilimento in termini di risparmi sui costi del capitale sono maggiori che negli Stati Uniti a causa della grande diversità nell’efficienza degli ordinamenti giuridici nazionali. La piena libertà di stabilimento e in particolare la possibilità di trasferire la sede legale indipendentemente dalla sede effettiva permetterebbe alle società stabilite nell’Unione europea di approfittare di un ordinamento giuridico più efficiente in termini di durata del contenzioso e prevedibilità delle pronunce giurisprudenziali.

Questo articolo rappresenta una sintesi dell’articolo dello stesso autore: Prospettive del diritto societario europeo, disponibile in: www.ssrn.com. Le opinioni espresse sono strettamente personali e non coinvolgono in nessun modo la Banca d’Italia. Ringrazio Massimo Condinanzi, Judit Fischer, Stefano Manestra, Giacomo Ricotti e Alessandra Sanelli per le preziose osservazioni ricevute.