Multidisciplinarietà, preferenze e valori

un commento al volume The Economics of Ethics and the Ethics of Economics. Values, Markets and the State, Cheltenham, UK, Northampton, USA, Edward Elgar, 2009, a cura di Geoffrey Brennan e Giuseppe Eusepi.

Sono molto contento di essere stato invitato a commentare e a riflettere sul volume edito da Eusepi e così ricco di spunti e di sollecitazioni. I punti a mio avviso più stimolanti del volume su cui intendo fare qualche considerazione sono quelli del valore della multidisciplinarietà, del rapporto tra preferenze e valori, e del modo in cui i valori debbano essere trasmessi, che sono al centro di due dei saggi più importanti del volume.

1. L’elogio della multidisciplinarietà

Ritengo che il riduzionismo della monodisciplinarietà rappresenti ed abbia rappresentato una delle maggiori piaghe del pensiero economico. Se da una parte esso ha consentito di approfondire il lato positivo dell’economia, andando a fondo nello studio su di un singolo fenomeno, dall’altra ha prodotto inevitabilmente dal punto di vista normativo suggerimenti di policy assolutamente insoddisfacenti perché basati sul funzionamento di un frammento della realtà senza alcuna attenzione alle connessioni di quel frammento con quanto accade nel sistema socioeconomico complessivo.

Se la realtà è complessa e fatta di diverse angolature ridurla ad una sola dimensione può creare seri guasti. Né vale la giustificazione che del resto si occuperanno gli altri. Ragionare come se le varie sfere (economica, sociologica, psicologica, della produzione, ambientale) siano separate vuol dire di fatto ignorare le connessioni e i feedback che esistono tra di esse e quindi dare ricette su presupposti sbagliati. Parafrasando è come se noi affidassimo la scrittura di un manuale per la guida di una macchina ad un esperto dell’acceleratore che conosce soltanto quella parte della vettura. Ci dirà come si può accelerare ma avrà poca dimestichezza con le altre spie della vettura, con le regole della sua stabilità, ecc. Il problema purtroppo non è solo degli economisti ma anche delle altre discipline scientifiche. In fisica, come in biologia ed in medicina abbiamo esplorato in maniera molto approfondita le caratteristiche di singole parti ma siamo ancora molto indietro nel comprendere il funzionamento di sistemi complessi.

La stessa difficoltà degli economisti nell’anticipare e nel comprendere la crisi finanziaria globale è figlia dell’ossessione monodisciplinare. Per capire questa crisi era infatti necessario collegare le conoscenze relative ad almeno tre aspetti del sistema economico: la macroeconomia, le dinamiche del settore mobiliare e infine il pricing dei derivati, il funzionamento del loro mercato e gli effetti della circolazione degli stessi in termini di rischio sistemico. Posso dire con quasi certezza che non esiste nessun economista in grado di spaziare con la propria ricerca su tutti e tre questi settori (l’unica eccezione è forse Robert Shiller che infatti della crisi aveva intuito molto). I macroeconomisti classici poi hanno trascurato e stilizzato a tal punto il mercato finanziario nei loro modelli che la parola “finanza” non compare che in rarissimi casi nei modelli pubblicati sulle principali riviste.

L’approccio multidisciplinare è un’assoluta necessità se vogliamo risolvere il problema tridimensionale dell’economia globale (limiti in termini di povertà e disoccupazione causati dalle difficoltà di creare e distribuire valore economico, sostenibilità/insostenibilità ambientale dello sviluppo economico, paradossi nel rapporto tra crescita economica e soddisfazione di vita). Il risultato più clamoroso dell’ossessione monodisciplinare sono le ricette di policy che ambientalisti ed economisti oppongono parlando due lingue l’una incomprensibile all’altro.  È ovvio che è possibile conciliare il consumare di meno dei primi con il consumare di più dei secondi soltanto con un approccio multidisciplinare ed integrato di economia ambientale che studia in che modo è possibile aumentare l’efficienza ambientale della produzione ovvero creare valore economico in modo ambientalmente sostenibile.

Come ricordano gli autori nel libro, la motivazione dei difensori della monodisciplinarietà è che la stessa con le sue regole rigorose consente di controllare la qualità della ricerca scientifica. Gli esempi fatti sopra indicano che se includiamo nella qualità le ricette di policy che scaturiscono dai modelli è vero assolutamente il contrario. Ma questa considerazione vale anche dal punto di vista positivo se consideriamo come la monodisciplinarietà, con le sue chiusure alle conoscenze derivanti da discipline attigue come la psicologia e la sociologia, ha senz’altro favorito il riduzionismo antropologico che ha connotato il pensiero degli economisti fino ad oggi. In questo senso la multidisciplinarietà rappresenta un terreno fertilissimo perché è proprio dalla ricerca effettuata al confine tra le discipline che si produce spesso l’innovazione più interessante. Non a caso nel libro si ricordano i premi nobel la cui originalità di ricerca è dipesa dalla loro capacità di essere a cavallo tra due discipline (da Sen ad Akerlof fino a Kahneman).

Il primo settore che ha dovuto gioco forza diventare multidisciplinare è quello degli studi finanziari atteso che per comprendere la microstruttura dei mercati e i comportamenti degli investitori finanziari non si può fare a meno di ragionare a cavallo tra economia e psicologia. Nasce così la behavioural finance.

L’altro terreno di incontro naturale e di fertilizzazione incrociata è quello degli studi sulla felicità. Per anni gli economisti hanno scritto funzioni di utilità sulla base di ipotesi filosofiche  aprioristiche  decidendo cosa rendesse le persone felici. La novità degli ultimi decenni è che con gli studi sulla soddisfazione di vita è possibile verificare empiricamente se tali ipotesi sono valide. Lo stesso accade con gli studi sempre più diffusi di economia sperimentale nei quali si sta comprendendo progressivamente l’eterogeneità, la ricchezza e la complessità delle motivazioni comportamentali dei soggetti economici.

Cosa hanno imparato gli economisti da questi studi in termini di multidisciplinarietà ? Ad esempio che nel rapporto tra felicità e reddito, se nel breve periodo l’ipotesi di concavità della funzione di utilità attesa è sostanzialmente suffragata dai dati, nel medio lungo periodo il fenomeno psicologico dell’adattamento edonico rende la relazione molto più piatta. I risultati empirici dei lavori sulle determinanti della soddisfazione di vita rivelano inoltre che la felicità degli individui è continuamente “perturbata” da confronti con i nostri simili. Se non dobbiamo passare all’estremo opposto ritenendo che un aumento di reddito egualmente distribuito non aumenti la soddisfazione di vita perché lascia le posizioni relative inalterate, non possiamo non osservare quanto i confronti con il gruppo di riferimento rappresentato da coloro che si considerano i nostri simili hanno un impatto fondamentale sulla nostra soddisfazione di vita. Fino a generare paradossi come quello osservato da Clark nel 2006 per il quale, in uno studio sulle regioni inglesi, i disoccupati in aree ad alta disoccupazione sono più felici di quelli in aree a bassa disoccupazione per la prevalenza dell’effetto sociologico (confronto con i pari meno negativo) su quello economico (minore probabilità di trovare lavoro visto l’alto numero di disoccupati.

2. Preferenze e valori: partiamo dalle evidenze empiriche recenti

Come nel caso della multidisciplinarietà, anche la riflessione sul rapporto tra preferenze e valori, più che (o meglio prima di) procedere filosoficamente ed aprioristicamente, dovrebbe fare tesoro del sempre più vasto patrimonio di evidenze empiriche a disposizione degli studiosi.

Prima di riflettere teoricamente se i valori debbano orientare o meno i comportamenti degli agenti economici e se un sistema di regole dovrebbe imporli o promuovere comunque il loro rafforzamento è opportuno partire dall’osservazione che le scelte economiche delle persone sono profondamente influenzate dai valori. Per fare solo un esempio, il settore dei consumi e dei risparmi solidali partito da situazioni di nicchia va estendendosi sempre di più dimostrando che la disponibilità a pagare per i valori incorporati in alcuni prodotti non è soltanto dichiarata nelle indagini a mezzo intervista ma si concretizza in reali comportamenti di acquisto. Il fatto che esista un mercato fatto di imprese (importatori e botteghe equosolidali, istituzioni di microfinanza che non massimizzano il profitto, economia di comunione, imprese cooperative di vario genere) che rinunciano ad una parte o tutti i loro profitti per produrre beni e servizi che incorporano tali valori, e di cittadini che sono disposti, a parità di tutto il resto, a preferire nei loro acquisti i prodotti che incorporano questi valori anche se costano di più, testimonia che in un’economia dove i beni intangibili giocano un ruolo sempre più importante, i valori  come la responsabilità sociale e la solidarietà rappresentano ormai una delle dimensioni su cui si gioca la competizione sul mercato. Senza entrare nella complessità delle dinamiche di questo tipo di competizione, fondata su un bene invisibile e non di esperienza (la responsabilità sociale), e dunque soggetta a tutti i problemi di asimmetria informativa del caso che marchi, standard e società di rating cercano in parte di colmare, ciò che più interessa ai fini delle riflessioni degli autori del libro è se i valori sono qualcosa di diverso dalle preferenze o sono ormai interiorizzati e trasformati in esse.

Il mondo dell’economia solidale, grazie all’alleanza di imprenditori pionieri che hanno anteposto obiettivi sociali a quelli tradizionali con i cittadini responsabili che hanno “votato con il portafoglio” per i loro prodotti, partendo da dimensioni tutto sommato marginali è diventato un importante lievito e fermento del sistema economico grazie alla sua capacità di contagio. Nel settore bancario come in quello alimentare e della grande distribuzione le quote di mercato dei prodotti solidali hanno spinto i competitori tradizionali massimizzatori di profitto ad aumentare il loro grado di responsabilità sociale per competere con i nuovi entrati fino a vendere essi stessi quel tipo di prodotti. Il caso più eclatante di contagio è forse oggi il mercato delle banane dove in Svizzera ed in Inghilterra i prodotti equosolidali hanno conquistato rispettivamente il 47 e il 25 percento delle quote di mercato.

La storia del consumo e risparmio responsabile ci dice che i valori si sono in questo caso trasformati in comportamenti di acquisto.  Difficile stabilire se i consumatori solidali agiscono sulla base di “commitment” kantiano, ovvero dovere morale che scavalca le loro preferenze, o se quel dovere è stato talmente interiorizzato da diventare esso stesso preferenza e la sua soddisfazione fattore in grado di incrementare la soddisfazione di vita di tali consumatori.  Certo è che come Bertrand Russel dichiarava di gustare di più le albicocche quando ripercorreva la complessa storia della loro diffusione a partire dalla dinastia Ming, numerosi studi di psicologia dimostrano che al consumo solidale è associata una soddisfazione (uno warm glow direbbe Andreoni) che deriva dal sapere che il proprio gesto può andare ad incidere positivamente sui processi d’inclusione di produttori agricoli marginalizzati. Da questo punto di vista dobbiamo considerare l’ingresso dei valori nella piazza del mercato (paradossalmente il fenomeno di cui parliamo non segue l’imperativo di dare valori al mercato ma piuttosto quello di dare un mercato ai valori) come un completamento fondamentale delle funzioni dello stesso. Tradizionalmente il mercato realizza guadagni di efficienza aumentando o non riducendo la soddisfazione dei contraenti dopo la transazione ma non è in grado di incidere sulle diseguaglianze di partenza con le quali i contraenti sono arrivati al mercato. Anche una vendita di rene da parte di un adulto consenziente non sfugge a questo guadagno di efficienza ma scandalizza perché non interviene su una diseguaglianza di partenza che spinge un individuo molto povero a privarsi di parte del suo corpo per soddisfare un bisogno materiale.

L’economia solidale supera questo limite del mercato dandogli anche un’importante funzione distributiva. La transazione economica non è più neutrale nei confronti delle dotazioni ma intende mettere in moto, attraverso la transazione stessa, un percorso in grado di aumentare le opportunità e l’accesso al mercato stesso di chi ne è ai margini.

3. C’è vera libertà senza educazione ai valori? Un argomento contro la neutralità nei confronti dei valori

Resta a questo punto una questione resa ancora più urgente dalla crisi finanziaria globale. In una riflessione a margine di questo evento l’Enciclica Caritas in Veritate constata in un passaggio su cui concordano molti addetti ai lavori che il mercato in alcuni momenti patologici rischia di distruggere quella fiducia di cui  ha bisogno per sopravvivere. La fiducia tra le controparti (nelle due accezioni di trust e trustworthiness), il senso civico, la disponibilità a pagare per i beni pubblici e la fiducia nelle istituzioni concorrono a costituire quello che gli economisti chiamano capitale sociale e che viene oggi unanimemente considerato il collante che tiene insieme il sistema economico. Il momento peggiore della crisi finanziaria globale è stato proprio quando, dopo il fallimento della Lehman il 15 Settembre 2008 il mercato interbancario si paralizza perché le banche non si fidano più delle loro controparti nella compravendita di liquidità.  Il crollo della fiducia rischia di trasmettersi ai risparmiatori e se ciò non avviene è soltanto per la pronta disponibilità da parte delle autorità (governi e banche centrali) ad assicurare i depositi dei cittadini (coprendo gli eventuali buchi e crisi di liquidità del sistema di assicurazione dei depositi) e a fornire al mercato tutta la liquidità necessaria per continuare a funzionare. A seguito di ciò che abbiamo appreso dalla crisi, ma non solo, si può dire oggi che uno dei maggiori filoni di ricerca degli economisti è proprio quello della “legge di moto” dei valori ovvero dei meccanismi e delle determinanti che regolano la loro creazione e distruzione.

Se i valori sono dunque essenziali per il corretto svolgimento della vita economica essi sono anche fondamentali per ampliare le capabilities degli individui consentendo loro di usufruire di un ventaglio più ricco di opportunità. Da questo punto di vista già le riflessioni di Becker e alcuni suoi illuminanti modelli spiegavano bene come, anche in presenza di disponibilità monetarie adeguate,  esistono molti beni che non sono direttamente fruibili se gli individui non sono allenati ai valori e alle virtù. Facendo un esempio banale è molto bello sciare ma è possibile usufruire di questa opportunità solo previo apprendimento ed allenamento. In senso negativo le forme di dipendenza più grave rappresentano una malattia che riduce gravemente le nostre capacità di autocontrollo e ci impediscono di fruire e di godere di tutta una serie di beni e di attività che aumenterebbero la nostra soddisfazione di vita.

Da questo punto di vista possiamo concepire la dinamica della virtù con una legge di moto molto simile a quella del capitale fisico, con un processo di deprezzamento delle nostre capacità quando non vengono opportunamente allenate ed uno di investimento che ne accresce lo stock disponibile. È questa prospettiva che, pur cercando di evitare imposizioni di conformismi, ci spinge a non essere neutrali di fronte ai valori e a sostenere tutte quelle iniziative che ne stimolano la coltivazione e il perseguimento presso i cittadini, soprattutto quelli più giovani.