Alcune riflessioni di Emilio Giardina

The Economics of Ethics and the Ethics of Economics. Values, Markets and the State, Cheltenham, UK, Northampton, USA, Edward Elgar, 2009, a cura di Geoffrey Brennan e Giuseppe Eusepi.

1. Un libro è tanto più interessante per il lettore quanto più sollecita la sua propensione alla riflessione e all’approfondimento, quanto più suscita interrogativi che prima egli non si era posti, quanto più consolida in un quadro sistematico sue idee sparse in cerca di organizzazione. Il libro curato da B. e E. ha nelle sue varie articolazioni tutte queste caratteristiche. Onde, dopo una prima lettura, al fine di assolvere al compito affidatomi, per cui ringrazio, mi sono concentrato su alcuni capitoli del libro, quelli che hanno destato maggiormente la mia curiosità, e ne ho fatto una sorta di recensione. Ne è risultato un paper di 11 pagine a spazio 1, la cui lettura richiederebbe più di un’ora.
A questo punto mi si pone un problema che è al contempo etico ed economico. Etico, in quanto si tratterebbe di infliggere questa lunga sofferenza all’uditorio presente; economico, in quanto, volendo evitare siffatta crudeltà, devo economizzare il mio limitato tempo a disposizione, scegliendo cosa tagliare. Riassumerò drasticamente la sintesi del pensiero degli autori fatta nello scritto, e darò un contenuto molto stringato delle mie riflessioni, che nello scritto sono molto più articolate rispetto a quanto esporrò oralmente.
Intendo iniziare questo commento parlando dell’Introduzione. E non tanto perché l’Introduzione in una raccolta di scritti di vari autori vale ad individuare con immediatezza i termini dei problemi (questioni) che si vogliono analizzare, il filo rosso che lega i diversi contributi all’opera collettiva. Ma perché questa Introduzione è un bel saggio sulla ricerca interdisciplinare, che va al di là dei rapporti tra etica ed economia.
I nostri autori mettono in luce i disincentivi che un giovane ricercatore incontra quando esce dai confini della sua disciplina, i pregiudizi accademici che possono ostacolarne lo sviluppo della carriera, il sospetto con cui vengono valutati i suoi lavori. E si domandano se ciò abbia un fondamento razionale.
Certo il principio della divisione del lavoro, la logica della specializzazione della ricerca, ma anche il fatto che ogni disciplina, come dice la parola stessa, si costituisce per l’appunto per dare regole metodologiche al lavoro di ricerca, per formare una professione in grado di valutarne efficacemente la qualità dei risultati, certo tutto questo spiega l’atteggiamento di sospetto, per non dire critico, nei confronti della ricerca interdisciplinare. E anche la reputazione spuria che finisce per connotare chi la fa, il quale ad esempio viene considerato nel caso specifico dei rapporti tra economia ed etica un economista dai filosofi, ed un filosofo dagli economisti.
Ma i confini disciplinari strettamente intesi, affermano i nostri autori, portano al conformismo nella ricerca, ed anche nell’organizzazione degli studi, allontanano menti brillanti dal varcare la soglia di altre discipline, in una parola, come essi dicono distorcono l’agenda intellettuale. E non va trascurato il fatto che diversi premi Nobel dell’economia, da Arrow a Buchanan, da Becker ad Harsanyi a Sen, hanno palesato significative inclinazioni interdisciplinari proprio sui temi oggetto del volume, con ciò mostrando che c’è spazio in questa regione di confine per raccogliere allori.
Con questo spirito Brennan ed Eusepi hanno promosso questa raccolta di studi riguardanti i rapporti tra economia ed etica. A proposito dei quali essi indicano tre questioni. Una prima riguarda la ristrettezza degli assunti motivazionali degli agenti economici fissati dall’approccio standard, allargando i quali si sono aperti fecondi territori di indagini. La seconda concerne le modalità con cui aggregare le credenze morali, atteso che si riconosce l’esistenza del pluralismo morale. La terza si occupa di nuovi approfondimenti che può avere la tradizionale distinzione in economia tra approccio normativo e approccio positivo.
Detto questo sull’Introduzione, vorrei fare due brevi considerazioni sulla ricerca interdisciplinare. La prima riguarda un interrogativo: ricerca interdisciplinare è la stessa cosa di ricerca multidisciplinare? O è cosa diversa? È corretto dire che nel primo caso si tratta di uno studioso che si è formato nell’ambito di una ben distinta disciplina, e che a un certo punto varca la soglia del suo territorio occupandosi di quello altrui (o se vogliamo impiegare l’atteggiamento critico prima richiamato dai nostri autori, invadendolo da dilettante)? E nel secondo caso di una ricerca fatta in collaborazione da studiosi di diverse discipline i quali impiegano congiuntamente ciascuno i ferri del suo mestiere per lo studio di un medesimo fenomeno?
Dal richiamo dei premi Nobel fatto da B. e E. sembra che essi propendano per questa distinzione, e che quindi non si riferiscano alla ricerca multidisciplinare, ma solo a quella interdisciplinare. Ma la distinzione così formulata non sgombra il campo da ulteriori interrogativi. Quando studiosi di diversa formazione disciplinare collaborano nello studio di un medesimo fenomeno occorre che trovino uno stesso linguaggio, un medesimo codice di comunicazione, nel senso precisato da Arrow in un noto suo saggio. Se riescono nei loro intenti i frutti della loro cooperazione sono spesso fecondi. Le migliori prospettive della scienza oggi sembra che risiedano nella ricerca multidisciplinare. Come provano ampiamente ad esempio gli sviluppi della biologia molecolare nella quale convergono discipline diverse quali fisica, chimica e biologia. Per non parlare dell’applicazione dei modelli esplicativi dei sistemi disordinati elaborati dalla fisica teorica allo studio dei mercati dei titoli azionari e obbligazionari. Gli incontri di Santa Fe tra economisti e fisici teorici sono state esperienze interessanti.

Ma tornando alla ricerca interdisciplinare, come prima definita, cosa impedisce che un medesimo studioso che intende varcare i confini della sua disciplina originaria, si impegni a coltivare nuovi orticelli, intrecciando all’interno della sua ricerca, e all’interno della sua mente, quella comunicazione che avviene tra diversi studiosi nel caso della ricerca multidisciplinare? Non si può essere nel contempo specialisti in diverse discipline? Bravi specialisti, o addirittura specialisti di eccellenza in utroque jure?
La seconda considerazione interessa gli studiosi italiani di Scienza delle finanze in quanto richiama una questione che ha agitato la nostra disciplina soprattutto nella prima metà del secolo scorso: quella del rapporto tra diritto ed economia finanziaria. Combinare lo studio delle due discipline avrebbe significato qualcosa di simile alla combinazione del legno con il ferro, scrisse Luigi Einaudi in polemica con le posizioni di Griziotti e della sua scuola. E l’atteggiamento critico di Einaudi ebbe convergente eco nel versante dei giuristi. Certo in quel caso l’approccio interdisciplinare soffriva di alcuni difetti, che qui non è il caso di analizzare. Ma muoveva da un’esigenza di completezza della ricerca che lo svilupparsi dell’approccio Law and Economics ha dimostrato essere non trascurabile. Ritorneremo su questo argomento tra poco, quando prenderemo in esame il contributo di Luisa Giuriato che, prendendo le mosse dalla Tradizione italiana in materia di giustizia tributaria, si sofferma sul pensiero di due giuristi, L.V. Berliri e Ezio Vanoni, che hanno adottato un approccio che potremmo definire antesignano della Law and Economics.

2. Ma prima vorrei fare qualche breve considerazione sul secondo lavoro di Brennan ed Eusepi presente nel volume. Si tratta di un contributo alla pulizia terminologica, nel senso non dell’eliminazione di parole dal linguaggio degli economisti e dei filosofi, ma dell’eliminazione degli equivoci verbali, delle confusioni terminologiche che spesso sono alla radice del dibattito scientifico nei nostri campi di ricerca. Sono molto simpatetico con i nostri autori, dato che leggendo il loro scritto mi è venuto di riflettere che diversi miei lavori in sostanza sono stati un’opera di chiarificazione dei concetti e dei termini impiegati nella letteratura sull’argomento da me trattato, come ad esempio la “capacità contributiva” nella dottrina economica e giuridica, o il concetto di “onere del debito pubblico” o quello di massimo paretiano di utilità
L’affermazione di B. e E. che gli economisti, a differenza dei filosofi, hanno poco gusto ad estendere l’analisi concettuale all’uso dei termini del linguaggio, riservando il loro rigore per le equazioni, trova alleati in altri studiosi. Di recente Kotlikoff e Green hanno concluso un saggio dal significativo titolo “On general relativity of fiscal language”, dicendo che molto di quanto è stato scritto e detto in materia di politica fiscale (imposte, deficit, trasferimenti, ecc.) è stato un esercizio nella linguistica e non nella scienza economica.
I chiarimenti che i nostri autori hanno dato sul significato dei termini e dei concetti in economia e in filosofia di valore e valori, di credenze, desideri, gusti, soddisfazione, prezzo, benessere, utilità, e dei loro reciprochi rapporti, rimangono un punto fermo che non potrà essere ignorato da chi si accinga ad impiegarli nella sua ricerca. Dato che siamo in argomento di valori, dico che meritano una medaglia al valore scientifico. E così possono rientrare nelle statistiche che Frey pone a base del suo contributo al volume in esame sul tema dei premi e delle onorificenze.
Il loro lavoro è denso di argomentazioni che impongono una riflessione più approfondita di quella che può emergere da una prima lettura. Mi limito qui a dire che mi ha colpito il loro rilievo secondo cui gli economisti non sono attenti a chiarire come gli individui ordinano le loro credenze e i loro desideri, e come questi si trasformino in preferenze. E ciò in un mondo di informazione limitata, e quindi di preferenze anche male informate. O la considerazione che la massimizzazione della soddisfazione delle preferenze non è la constatazione di un fatto, ma un assunto normativo, la proposta di un valore.
Ma che relazione c’è tra valori e preferenze? Sono indipendenti? Come distinguerli? I nostri autori propongono diverse soluzioni, che si muovono sia sul piano dei valori morali di ciascuno che su quello delle interrelazioni con gli altri, nel mercato o nel campo delle azioni collettive. E a questo proposito analizzano i comportamenti, morali e no, che derivano dalle convenzioni, dai comportamenti che adottiamo perché sono adottati dagli altri, dalle regole che seguiamo perché le seguono gli altri. L’argomento mi richiama alla mente un recente dibattito tra il filosofo del diritto Guastini e il costituzionalista-contrattualista Baldassarre a proposito del positivismo giuridico, che nella versione esclusiva rigetta e in quella inclusiva accetta il recepimento di valori nell’analisi giuridica.
Oltre alle preferenze come valori e ai valori come preferenze, B. e E. analizzano anche la relazione di possibile contrapposizione tra i due concetti quando le preferenze vengono distinte nella categoria dei valori e in quella dei gusti. La primazia spetta alla prima categoria? La risposta è sì secondo i filosofi, se l’individuo agisce in modo razionale. Ma gli economisti distinguono il comportamento razionale da quello morale.
Alcuni economisti peraltro recepiscono i valori morali nelle preferenze, considerando ad esempio l’altruismo come fonte di utilità per chi è generoso con gli altri. O richiamando il concetto di metapreferenze. Ma i nostri autori tengono fermo il punto che esiste una tensione tra valori e gusti, e che non ci comportiamo sempre in conformità ai nostri valori. Essi ne traggono un’implicazione di grande rilievo: il principio della sovranità del consumatore viene così a perdere quella generale connotazione morale che usualmente gli si attribuisce. Con soddisfazione degli economisti pubblici che hanno cercato di percorrere lo sdrucciolevole terreno dei beni meritori e de meritori.

B. e E. concludono il loro saggio mettendo in luce che mentre gli economisti possono studiare come lo scambio nel mercato viene a trasformare le diverse preferenze in un insieme comune di valori relativi dei beni, questo non è consentito ai filosofi. Perché essi specificano i valori in termini di ciò che è permesso e di ciò che non è permesso. Così anche ad ammettere ad esempio che giustizia e libertà possano essere specificate in termini di “più o meno”, resta il problema che questi valori hanno i connotati dei beni pubblici, cioè i relativi rapporti devono essere accettati da tutti, richiedono un consenso generale. Non ho riflettuto abbastanza su questo argomento per permettermi di dare un suggerimento. Ma uno spunto di riflessione sì. Che riguarda il modo in cui quello che mi sembra un analogo problema viene affrontato dai giuristi che accettano il positivismo inclusivo nel senso prima precisato. Cioè il problema del bilanciamento che in sede di giudizi di costituzionalità delle leggi viene fatto tra i principi e quindi i valori enunciati nella Costituzione. Con un giurisprudenza che se non si può dire che raccolga il consenso di tutti, dobbiamo ritenere che esprima la valutazione contenuta nel patto costituzionale. Si tratterebbe certamente di una soluzione che differisce da quella che il mercato concorrenziale offre per i beni privati. Ma è una soluzione che determina un assetto simile a quello che un approccio del tipo costituzionale-contrattualistico alla Buchanan presenta per i beni pubblici.

3. Anche il contributo di Buchanan al libro, come del resto ogni suo scritto, stimola diverse riflessioni. Buchanan prende in esame il fenomeno dei rendimenti crescenti, considerati nell’ottica del modello di Adam Smith, e non in quella del modello marshalliano, in cui il fenomeno è dovuto alle economie di scala dipendenti dalla riorganizzazione dell’industria ai fini dello sfruttamento delle economie esterne. Nel modello di Smith i rendimenti crescenti nascono per il fatto che si determina un processo di allargamento della dimensione del mercato e quindi di crescita della specializzazione: all’origine si pongono le scelte duali degli individui e delle famiglie che si inducono ad offrire crescenti unità di input, e destinano i rendimenti così ricavati alla domanda di nuovi output. È questo nesso offerta-domanda che sta alla base della crescita della specializzazione, e quindi del valore aggregato del mercato.
Il fenomeno sottolinea Buchanan ha un contenuto etico in quanto la scelta iniziale degli individui di accrescere l’offerta degli input non è determinata come nel modello marshalliano dalla pressione della concorrenza sulle imprese e dalla necessità di queste di sopravvivere massimizzando i profitti. Bensì dall’influenza dell’ethos culturale di chi partecipa al mercato, ethos che può anche essere collegato, ma non necessariamente, alla virtù Puritana del lavoro, del risparmio, dell’investimento produttivo e della correttezza.
Questa sintesi del pensiero di Buchanan non ne rende adeguatamente la ricchezza dell’argomentazione, che il lettore può gustare scorrendo lo scritto. Ma il tempo è tiranno, e sono costretto a riservarlo ad alcune riflessioni che il saggio suscita. La prima riguarda un argomento che formò oggetto di una discussione tra Rawls e Musgrave quando fu pubblicata “Una teoria della giustizia”, vale a dire il ruolo del tempo libero. Nel nostro caso il tempo libero può entrare in gioco in quanto anch’esso può costituire una virtù dettata dall’ethos culturale della società, così come la virtù del lavoro nello schema di Buchanan. A fronte della corsa all’arricchimento, spesso ad ogni costo, che riscontriamo nel mondo contemporaneo, della pressione stressante all’accrescimento del valore dell’impresa che induce diversi manager a non chiudere occhio per il sonno, della spinta coercitiva al consumo imposta anche da una pubblicità senza limiti, a fronte di tutto questo possiamo evocare il comandamento religioso “santificare le feste”, il valore che l’otium aveva nella società della Roma classica, il tempo gratificante della lettura e della riflessione, l’ethos della frugalità, e così via.
Buchanan non manca di osservare che la crescita del valore aggregato del mercato può essere condannata in alcuni sistemi etici, e accenna in proposito alle dimostrazioni anti-globalizzazione; e aggiunge che l’atteggiamento critico per ragioni morali nei confronti dell’allargamento del mercato può riguardare singoli beni o servizi, come avvenne negli Stati Uniti nel caso degli alcolici. Ma dichiara che il suo scritto non è il luogo per discutere circa la cultura contraria alle interazioni di mercato, essendo sufficiente ai fini di tale scritto che ci si mantenga in un quadro che valuti positivamente lo sviluppo economico come usualmente misurato. Voglio osservare che si può condividere questo quadro, e ciò nonostante non condividere il valore etico di ogni direzione di espansione del mercato. Così posto, il problema rimanda a quello dei limiti dell’intervento pubblico nell’economia, compresi i limiti di carattere etico, che merita ben altri approfondimenti, che qui non sono possibili.
C’è un altro punto che suscita la mia riflessione. La scelta duale degli individui che determina la crescita della specializzazione può comportare l’introduzione e la produzione di nuovi beni. Buchanan sottolinea che c’è “un mare di beni” suscettibili di sfruttamento attraverso l’ulteriore specializzazione. E afferma che questo potrebbe accrescere l’utilità di tutti i partecipanti, o almeno di alcuni senza perdita di utilità da indennizzare per altri. Per i casi in cui questo non avviene, egli mette in guardia rispetto agli interventi pubblici correttivi che potrebbero mancare il bersaglio in termini del criterio di Pareto. Ora è chiaro che l’introduzione di nuovi beni spesso ha un effetto di sostituzione rispetto ai vecchi. E le sofferenze delle categorie e dei ceti che vengono colpiti dalle grandi trasformazioni generate dalle diverse rivoluzioni industriali, che pur nell’aggregato vanno considerate positivamente, mettono in luce l’esistenza di un problema morale di non piccolo rilievo. Non mi sembra che Buchanan abbia voluto affrontarlo in questo scritto. Ma è un problema che sul terreno dei rapporti tra economia ed etica non può essere ignorato.

4. Stefano Gorini presenta un contributo che è insieme l’applicazione dell’approccio del razionalismo critico al tema del rapporto tra economia ed etica, e un manifesto dell’uomo laico. Al quale manifesto, da parte mia, mi sento di aderire. Mentre qualche perplessità nutro circa la sua posizione in ordine alla distinzione tra giustizia morale e giustizia sociale. Perplessità forse generata da una mia non perfetta comprensione del suo pensiero.
Egli premette la distinzione tra i concetti di libertà morale e di libertà sociale. Il primo definito in termini dell’esperienza personale dell’individuo circa la sua coscienza e autocoscienza. Il secondo in conformità all’impiego fattone nelle scienze sociali, nelle dimensioni di libertà sociale negativa, cioè come libertà di azione, e libertà positiva, vale a dire possibilità di partecipazione alle istituzioni politiche.
Da questa distinzione fa discendere quella tra giustizia morale e giustizia sociale, la prima definita in termini di valori morali e la seconda in termini degli interessi. E quest’ultima per comodità di analisi circoscrive alla giustizia economica.
In questo campo viene presa in considerazione dapprima la giustizia commutativa, i cui canoni per essere soddisfatti richiedono condizioni di concorrenza perfetta, e quindi assenza di poteri di estrarre rendite nei rapporti interpersonali. Quando si tratta di beni pubblici, per i quali occorre l’esercizio della coercizione, le richiamate condizioni sono realizzate dalle soluzioni alla Lindahl.
Passando alla giustizia distributiva, Gorini ne precisa l’essenza con i contenuti egualitari. Eguaglianza in termini di benessere. Ma benessere che va concepito non come quantità di utilità o felicità misurabile oggettivamente, e suscettibile di comparazioni interpersonali, bensì nella sua vera natura che coinvolge gli interessi comportamentali dell’individuo, cioè le sue azioni e le sue scelte, assunte come strumenti utili per conseguire altri fini. Per cui ogni definizione empirica di eguaglianza va basata su cose e fatti del mondo naturale esterni all’individuo e non alle sue condizioni interne di carattere psicologico o mentale.
A questo proposito l’autore tiene a sottolineare che ogni concetto coinvolto appartiene al dominio dell’utile, degli interessi, e non interpella valori morali. La giustizia morale entra in gioco solo quando non si evitano condizioni, regole, comportamenti che causano sofferenze alle persone, soprattutto a quelle più svantaggiate, sofferenze che le umiliano ingiuriando in ciascuno la propria autostima, che è l’essenza del concetto morale di libertà-indipendenza. Concetto che nella prima parte del suo scritto Gorini analizza a fondo, e che qui per ovvie ragioni di tempo non ho avuto la possibilità di richiamare, non dando compiuta espressione alla ricchezza della sua riflessione.
Le mie perplessità in ordine alle sue conclusioni, o forse è meglio dire: gli interrogativi che mi hanno fatto sorgere, riguardano una certa ristrettezza che mi pare di scorgere circa i confini del mondo morale da lui fissati. E voglio esprimermi in termini di esempi. Il fenomeno dei super bonus di cui si sono appropriati tanti manager, le cui società di appartenenza erano sull’orlo del fallimento, o quelli che in simili condizioni sono state salvate dall’intervento pubblico, ebbene questo fenomeno interpella i miei sentimenti morali, ancorché non si tratti di un fenomeno che coinvolga valori di libertà-indipendenza. E li interpella anche un altro fatto domestico, di più contenuta rilevanza, vale a dire l’abolizione dell’ICI sulle prime case dei più ricchi, la mia compresa.
Gorini probabilmente mi richiamerà alla coerenza nella formulazione dei miei giudizi. Se accetto, come ho detto, i suoi punti di partenza in ordine al razionalismo critico, le conclusioni non possono che essere quelle da lui prese. Se è così, questo mi rende perplesso, e mi stimola a una ulteriore riflessione.
Stefano non manca di precisare che le valutazioni in materia di giustizia morale riguardano anche i territori diversi dall’economia. E in questa prospettiva considera la ricerca sugli embrioni, prendendo in esame anche la possibilità che si intervenga sul genoma dei nascituri modificandone ancorché ai fini di miglioramento genetico le condizioni naturali di identità-indipendenza. E per questa ragione sembra condividere la posizione di Habermas secondo cui queste manipolazioni vanno proibite.
Anche a questo proposito mi sono posto alcuni interrogativi. L’uomo con i suoi interventi sull’ambiente ha da sempre modificato per vie esterne il corso dell’evoluzione naturale della specie, e per l’appunto si parla dell’evoluzione culturale come di un fattore fondamentale di correzione di tale corso. Oggi per il bene o per il male si prospetta la possibilità di intervenire per vie interne, cioè direttamente sul genoma. L’atteggiamento restrittivo che mi sembra Gorini assuma, riguarda non solo le possibili scelte fatue di genitori che ad esempio desiderano figli con gli occhi azzurri, ma se ho capito bene anche il caso di malattie genetiche gravi, quale ad esempio la corea di Huntington, che porta ad una morte precoce, la cui data la lettura del genoma consente oggi di conoscere con precisione. Se i genitori vengono a conoscere il difetto genetico è meglio distruggere l’embrione ovvero, se possibile, manipolare il gene responsabile della malattia? Gorini richiama l’argomento per riaffermare che non è necessario ricorrere alla morale non secolare per risolvere questi problemi. Condivido, ma non mi sembra che la bussola per orientarsi in questo difficile terreno possa essere la considerazione che un intervento sul genoma interferisce con la condizione di libertà-indipendenza dell’individuo che viene a nascere.

Bruno Frey, De Neve e Frowler hanno pubblicato di recente un lavoro dal titolo “Geni, Economia e felicità”, in cui mettono in luce che le condizioni basilari su cui poggia il benessere soggettivo degli individui, la loro felicità, si è scoperto in alcuni studi sui gemelli che dipendono anche dal gene trasmettitore della serotonina (5HTT). E loro ne hanno dato una conferma empirica in base ai dati riguardanti la salute degli adolescenti. Se al fine di accrescere la propensione alla felicità sarà possibile intervenire su questo gene, e su quelli correlati (la dipendenza non è circoscritta al richiamato gene), mi domando se l’intervento venga ad infrangere il divieto di Habermas.

5. E passiamo ora allo scritto di Luisa Giuriato. La sua premessa è la constatazione dell’alto grado di evasione che da tempo si riscontra in Italia e la rilevazione della percezione che i contribuenti hanno in ordine ai difetti e alle insufficienze che caratterizzano non solo la loro relazione con lo Stato ma anche le loro interrelazioni. L’autrice richiama i fattori che la teoria dell’evasione ha posto a base del fenomeno supponendo l’agire di un contribuente razionale che mira a massimizzare l’utilità attesa (probabilità dell’accertamento, misura delle sanzioni, probabilità di condoni), ma ha cura di sottolineare anche l’importanza della valutazione morale che questo contribuente esprime. L’imposta è vista non solo come manifestazione del potere d’imperio dello Stato ma anche nel contesto di un rapporto di scambio tra il singolo e l’ente pubblico e tra questo e gli altri cittadini. Quando in questi rapporti si percepisce uno sbilancio, la reazione è per l’appunto l’evasione, che viene quindi vista come strumento per riportare in pareggio lo squilibrio.
Berliri e Vanoni nelle loro opere hanno posto il principio dell’interesse a fondamento del rapporto tra Stato e contribuente, il primo limitandosi a prendere in esame solo la funzione allocativa dell’ente pubblico, il secondo considerando anche quella redistributiva.
Entrambi gli autori si muovono nel solco della tradizione italiana della SdF, della quale vengono richiamate soprattutto le posizione di L. Einaudi e De Viti de Marco, ed entrambi, asserisce la Giuriato, condividono lo scetticismo in ordine ai tradizionali principi di giusta ripartizione delle imposte.
Berliri condivide il concetto einaudiano di giustizia, cioè l’idea che sul terreno della ripartizione dei carichi pubblici non si possa fare che “giustizia grossa”, e che quindi non si possa che perseguire con grande approssimazione i valori ideali. E richiama a tale proposito la pratica della giurisprudenza, che nel rispondere alle richieste dei cittadini non può mancare di risolvere le controversie che implicano la valutazione di benefici o costi riguardanti beni comuni dei contendenti. Concepito in questo paradigma l’interesse si differenzia dal beneficio dei servizi pubblici. Nel senso che non dipende dalla valutazione che fa il contribuente dei vantaggi ricavati dall’azione pubblica, ma si riferisce, come rileva l’autrice, a comuni valori economici e sociali.
Questa costruzione, pur apprezzata per la sua originalità, viene criticata da L. G. anzitutto per il suo carattere non operativo, e poi perché ignora le complesse questioni inerenti alla formazione delle decisioni collettive, finendo con l’incorrere in un ragionamento circolare.
Da parte mia, vorrei fare alcune brevi considerazioni. Dato che ci muoviamo nell’ambito della Tradizione finanziaria italiana, mi sembra utile richiamare il pensiero di un altro grande economista appartenente a questa tradizione, Maffeo Pantaleoni. Il quale non aveva dubbi sulla legittimità scientifica di un approccio che ammette che si possano valutare le posizioni soggettive e gli interessi degli altri, pur avvertendo che l’esperienza mostra che di norma manca la volontà e la convenienza a fare il bene altrui anziché il proprio. Questa posizione fu condivisa da Pareto in una lettera a Pantaleoni in cui commentava le bozze del noto saggio di quest’ultimo sui massimi edonistici.
Quanto al concetto di Einaudi di “giustizia grossa”, cui si ispirò Berliri, mi piace richiamare il noto libro “La giustizia” del filosofo Perelman, pubblicato nello stesso anno del lavoro di Berliri, il quale distingueva la giustizia dalla carità, notando che è la carità che considera gli esseri come individui, mentre la giustizia tende a fare astrazione dagli elementi che non sono comuni a parecchi esseri.
I limiti dell’approccio di Berliri, osserva l’autrice, furono presenti a Vanoni, il quale considerò il principio dell’interesse in un contesto in cui l’ente pubblico esplica anche la funzione redistributiva. L’equivalenza tra imposte e servizi pubblici esiste solo nell’aggregato, e non a livello individuale. Non c’è scambio per il singolo tra benefici e oneri tributari, ma ciascuno ha interesse a che lo Stato esista. E l’imposta trova la sua giustificazione, la sua causa giuridica, solo in quanto l’attività pubblica soddisfa i bisogni collettivi.
Ma per Vanoni, sottolinea L. G., il dovere tributario ha anche natura morale, in quanto rappresenta lo strumento per conseguire il bene collettivo. E su queste basi Vanoni da ministro delle finanze attuò la riforma del 1951 che introdusse la dichiarazione annuale dei redditi, inserendola in un progetto in cui si intendeva stipulare un patto equo tra contribuenti e fisco.
L’autrice non manca di ricordare il contributo dato da Vanoni quale componente della Commissione economica alla elaborazione della Costituzione repubblicana, nella quale operò perché si introducesse la sua concezione del fondamento etico del dovere fiscale.

Per completare il contributo dato da L. G. alla ricostruzione del pensiero di Vanoni in materia di etica ed economia, che lei guarda da un’angolatura particolare, mi sembra utile dare maggiore enfasi all’appartenenza del nostro autore alla scuola di Pavia, e ai legami intellettuali e professionali con il suo maestro, Benvenuto Griziotti, ricordato solo per la teoria della causa impositionis. Vanoni certamente subì l’influenza del pensiero di Einaudi e de Viti, ma sulle sue idee ebbe maggior peso l’insegnamento del maestro. Non è il caso qui di approfondire l’argomento ed anche il tema delle interrelazioni scientifiche tra gli studiosi della scuola di Pavia in tante loro ricerche, dalla natura del fenomeno finanziario al metodo per studiarlo, dalla concezione dello Stato alla nozione di bisogno pubblico, alla causa impositionis, alla capacità contributiva autonoma delle società per azioni, ai principi di ripartizione delle imposte.
Ma su quest’ultimo argomento mi sembra opportuno aggiungere qualche parola. Vanoni in assonanza col pensiero di Griziotti aveva sostenuto che la capacità contributiva non è un attributo oggettivo e immutabile della persona o della cosa, bensì il risultato del giudizio del legislatore. Giudizio espresso in conformità ai principi cui si ispira la sua azione politica, e riguardante gli indici che esprimono l’attitudine alla contribuzione, la valutazione di tali indici, le condizioni che differenziano le situazioni delle persone e delle cose, tenuto conto dei fattori che influenzano in vari modi la formazione delle decisioni pubbliche. Questa sua posizione egli confermò nell’ambito della sottocommissione per la finanza della Commissione economica del Ministero per la Costituente, coordinata da Sergio Steve, il quale attribuisce a lui il primo capitolo del Rapporto dal titolo “Diritto all’imposta e formazione delle leggi finanziarie”. Dell’Assemblea Costituente successivamente eletta faceva parte anche Edgardo Castelli, al tempo sottosegretario alle finanze, assistente di Griziotti, il quale formulò e presentò il testo di un articolo in materia di principi distributivi dei tributi, che venne ad aggiungersi a quelli contenuti nel progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione dei 75, progetto che non prevedeva alcuna norma in questa materia. Il testo presentato da Castelli, integrato da altri emendamenti e approvato dopo ampia discussione, diventò l’attuale art. 53 della Costituzione repubblicana.
Griziotti cercò di fare di questa norma il fondamento della sua teoria della causa impositionis. Ma la sua costruzione non è risultata persuasiva. La dottrina costituzionalista e quella tributaria assunsero sin dall’inizio una posizione svalutativa del principio costituzionale, considerandolo una norma programmatica e come tale solo una manifestazione di buone intenzioni. Ma Forte in un saggio del 1957 ne rivendicò l’efficacia precettiva, ed io negli anni seguenti ne cercai di argomentare in modo sistematico la portata e i limiti. Su questa norma si è poi sviluppata un’ampia letteratura, e il dibattito è ancora molto vivo, e di recente ha interessato la legge istitutiva dell’Irap. La Corte Costituzionale ne ha riconosciuto la rilevanza come effettivo principio giuridico alla stregua del quale va valutata la legittimità delle leggi tributarie.
Vanoni che aveva sottoscritto nell’Assemblea l’emendamento Castelli, da fine giurista quale era non poteva non essere consapevole che la proposta del suo collega pavese di introdurre tale principio nella Costituzione rigida della nostra Repubblica avrebbe portato a dare al principio della capacità contributiva quel contenuto precettivo di cui la nozione teorica difettava, esprimendo in concreto l’indirizzo di politica tributaria del legislatore costituente. Quindi, a differenza di quanto L. G. afferma con riferimento all’opera di Berliri, possiamo concludere che le sue idee in materia di giustizia tributaria vennero recepite nel nostro ordinamento giuridico positivo, acquisendo così un sicuro carattere operativo.