Il rientro dal debito pubblico in Europa

1.    La crisi e i conti pubblici.
Con l’esplosione della crisi finanziaria nel 2008, si è assistito in tutti i paesi europei ad incrementi molto forti dei debiti pubblici, non solo perché i deficit di bilancio sono aumentati (in valore assoluto), ma anche perché i Pil sono diminuiti, per cui il rapporto debito-Pil è salito di decine di punti percentuali. La tabella I mostra i paesi dell’Europa occidentale, con undici paesi dell’euro più Danimarca, Svezia e Regno Unito. Le prime due colonne mostrano gli incrementi di deficit e debito nel 2009, la terza il livello del deficit nello stesso anno (tutti in rapporto al Pil), mentre la quarta le diminuzioni del Pil, sempre nel 2009.

Tabella I

2009
Δdeficit
Δdebito
deficit
(-)ΔPil
euro area
4,3
9,3
6,3
4,1
eu 27
4,5
12
6,8
4,2
Belgio
4,8
6,9
4,8
3
Danimarca
6,1
7,4
2,7
4,9
Germania
3,3
7,2
3,3
4,9
Irlanda
7
20,1
14,3
7,1
Grecia
5,9
15,9
13,6
2
Spagna
7,1
13,5
11,2
3,6
Francia
4,2
10,1
7,5
2,6
Italia
2,6
9,7
5,3
5
Olanda
6
2,7
5,3
4
Austria
3
3,9
3,4
3,6
Portogallo
6,6
10,5
9,4
2,7
Finlandia
6,4
9,8
2,2
7,8
Svezia
3
4
0,5
5,1
Regno Unito
6,6
16,1
11,5
4,9

I deficit pubblici hanno ovviamente una chiara influenza sulle variazioni del debito, e si può notare anche una relazione positiva, anche se meno forte, tra le variazioni dei deficit e quelle del debito:

Il grafico successivo mostra il rapporto tra gli aumenti dei deficit e le diminuzioni dei Pil: come si vede non vi è relazione; ciò potrebbe essere spiegato affermando che le politiche di aumento dei deficit non sono servite a ridurre la caduta della produzione, perché altrimenti dovremmo avere una relazione negativa [1]. L’affermazione sarebbe coerente con la visione anti-keynesiana che ha dominato gli ultimi decenni della teoria e della politica macroeconomica. Ma vi può essere una spiegazione keynesiana della mancanza di relazione: se la caduta della produzione è più forte nel paese A che nel paese B, a parità di effetti automatici e di politiche discrezionali, troveremo una relazione positiva tra la caduta del Pil e l’incremento del deficit. Supponiamo che i due paesi abbiano la stessa caduta della produzione, ma A abbia degli stabilizzatori automatici più forti o decida politiche di bilancio più espansive; in questo caso A avrà una riduzione meno accentuata del Pil di fronte ad un maggior deficit, esibendo una relazione negativa. Non è quindi sorprendente che non vi sia relazione tra gli aumenti dei deficit e le diminuzioni dei Pil.

2. Gli effetti dei deficit.
Tornando alla tesi anti-keynesiana, l’inizio può trovarsi in un documento tedesco del Consiglio degli esperti economici, che nel 1981 propose una riduzione delle spese pubbliche come mezzo per combattere la recessione degli inizi degli anni ottanta. Secondo la german view, detta anche expectations view, se il taglio delle spese pubbliche viene percepito come avente effetti permanenti, i consumatori percepiranno una (futura) riduzione delle imposte, quindi un aumento del reddito disponibile, e pertanto i consumi aumenteranno e con essi il reddito e la produzione. Si è sostenuto [2]  che questo comportamento dei consumatori si sarebbe verificato sia in Danimarca che in Irlanda negli anni ottanta; che al contrario l’esperienza svedese dei primi anni novanta costituirebbe la controprova di manovre di bilancio che non ottengono l’effetto desiderato sulle aspettative dei consumatori, perché basate più sulle entrate che sulle spese pubbliche.
Sul piano logico, non vi è nulla da obiettare alla tesi basata sulla german view; essa si basa su proposizione avanzate da Ricardo e riprese dopo oltre un secolo e mezzo da Barro, sull’equivalenza tra debito pubblico ed imposta (straordinaria) sul patrimonio, ovvero sulla negazione che il debito pubblico costituisca ricchezza netta [3] . Più interessante sembra porsi due domande: l’esperienza danese ed irlandese degli anni ottanta e quella svedese degli anni novanta possono davvero essere portate come esempio della correttezza della german view?  E soprattutto cosa dobbiamo attenderci dalle misure di taglio dei deficit che tutti i paesi europei stanno effettuando?
Se la german view fosse vera, e se le misure di consolidamento del debito fossero effettuate con riduzioni di spesa pubblica strutturali (e percepite come tali), potremmo assistere ad una ripresa dei consumi, della produzione e del reddito. Nel caso contrario, come temono molti osservatori, una prolungata fase deflazionistica si estenderebbe su tutta l’Europa, mettendo a rischio gli stessi conti pubblici e la tenuta dell’euro.

Il caso danese.
3. Va ricordato che nell’ottobre del 1979 Paul Volcker, da poco nominato a capo della Fed, in una riunione riservata dell’Open Market Committee, decide di adottare una rigida politica monetaria per stroncare le aspettative inflazionistiche, che si erano consolidate negli anni settanta, e che sarebbero state alimentate dalla seconda “tassa degli sceicchi”. La politica monetaria degli USA è seguita dal governo della signora Tatcher, e si diffonde in tutta l’Europa, con forti aumenti sia dei tassi a breve che di quelli a lunga durata. In effetti, nel 1980, sia gli Stati Uniti che il Regno Unito entrano in recessione; l’unico altro paese europeo che li segue è proprio la Danimarca.

Nella Tabella II abbiamo i dati riguardanti i saggi di crescita reale del Pil, dei consumi e degli investimenti privati; deficit, debito, entrate e spese sono in percentuale del Pil. Come si vede, gli investimenti sono in forte caduta nel 1980, certamente dovuta all’aumento dei tassi d’interesse (cresciuti di due punti rispetto all’anno precedente). La recessione determina un aumento del deficit e del debito, così che nel 1882 il governo decide una stretta di bilancio; l’anno successivo la spesa primaria (al netto cioè della spesa per interessi) scende da 49,8 a 48,5. Peraltro la manovra di rientro dal deficit si avvale anche di un robusto aumento delle entrate che salgono di 2,3 punti percentuali. La ripresa avverrà dal 1984 con un forte rilancio degli investimenti, dovuto sicuramente alla diminuzione dei tassi d’interesse [4]. Solamente due anni dopo la manovra restrittiva di bilancio i consumi privati crescono più del Pil, la cui ripresa è già avvenuta; questo fatto introduce un elemento di dubbio sulla german view, in quanto il ruolo degli investimenti sembra essere stato quello più rilevante.

Tabella II

Danimarca 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990
Pil -0,6 -2,1 2,7 1,7 3,5 3,6 4 0 1,2 0,2 1
deficit 3,2 6,7 8,8 6,9 4 2 -3,3 -2,3 -1,5 -0,3 1
debito 36,5 48,2 60,2 69,2 72,9 70 62,1 58 60,2 58 57,8
entrate totali 49,9 49,9 49 51,3 53 54,4 56,1 56,4 58,2 57,3 55,1
spese pubbliche 50,4 54 55,6 56,3 56 54,9 51,8 53,1 54,9 55,1 54,7
interessi 3,8 5,1 5,8 7,8 9,3 9,6 8,5 8 7,6 7,2 7,3
consumi -2,3 -1,8 1,9 1 2,1 4 5,9 -2,2 -2,1 -0,1 1
investimenti -12,1 -19,6 7 1,8 10,9 14,3 16,4 -0,8 -3,2 -0,6 -2,2
tassi a lunga 18,7 19,3 20,5 14,4 14 11,6 10,6 11,9 10,6 10,2 11

Ovviamente un semplice ragionamento su dati ex post non è conclusivo; l’analisi di Giavazzi e Pagano si basa su una stima econometrica di una funzione del consumo dalla quale emerge un forte errore previsivo, che viene interpretato come la prova di un mutamento di aspettative da parte dei consumatori. Tuttavia, usando altre funzioni del consumo, i risultati sono diversi e questo mutamento del comportamento dei consumatori non emerge [5]. Va sottolineato che alla fine del decennio la spesa primaria danese sarà più alta di quella dell’inizio (47,4% contro 46,6%). Dobbiamo pensare che negli ultimi anni ottanta i consumatori danesi abbiano invertito le aspettative sulla diminuzione delle spese pubbliche?

4. Il caso irlandese.
Il caso irlandese si configura in modo diverso da quello danese. In Danimarca, infatti, la seconda metà degli anni ottanta fu caratterizzata da un notevole rallentamento dei consumi e degli investimenti, e quindi, malgrado una buona domanda estera, anche del Pil. In Irlanda, invece, è proprio nella seconda metà che la forte crescita del debito, spinto da un alto disavanzo primario, si arresta, mentre il Pil accelera la sua marcia. Si è parlato di un tentativo di stabilizzazione fallito [6] nel 1982, e Giavazzi e Pagano (1990) mettendo a confronto la manovra del 1982 con quella del 1987, sottolineano che la prima avvenne con un aumento di imposte, mentre la seconda con un taglio delle spese pubbliche. Anche in questo caso si può fare un ragionamento analogo a quello fatto per l’Irlanda.

Tabella III

Irlanda 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990
Pil 3,1 3,3 2,3 -0,2 4,3 3,1 0,3 4,7 4,3 6,2 7,6
deficit 11,6 12,2 12,6 10,7 8,9 10,2 10,1 8,1 4,2 1,7 2,2
debito 75,2 81,2 91,3 102 106,5 109,6 121,8 123,1 118,4 108,2 101,5
entrate totali 34,5 35,4 37,3 38,4 39,5 38,8 38,9 39 39,7 36,2 35,9
spese pubbliche 39,5 41,5 44,3 44,9 44,4 45 45,2 44,3 42,2 36,3 36,7
interessi 6 6,8 8,2 8,5 8,6 9,4 8,8 8,8 8,2 7,4 7,4
consumi 0,4 1,7 -6,9 0,8 2 4,6 2,9 3,3 4,4 5,9 0,6
investimenti -3,7 7,3 -3,4 -9 -2,7 -7,8 0 -2,3 -1,6 15,6 12,1
tassi a lunga 15,4 17,3 17 13,9 14,6 12,7 11,1 11,3 9,4 8,9 10,1

Il problema è se vi sia stato un ruolo significativo della german view o la spiegazione vada ricercata in altri elementi [7], ed in particolare nella forte espansione della domanda estera e nel calo dei tassi d’interesse. Va notato che nei due anni precedenti il 1987 [8]  i consumi erano cresciuti del 7,6%, rispetto ad una crescita del Pil di 3,4%. L’Irlanda inoltre decide di giocare con decisione la carta della competizione fiscale, attirando una notevolissima massa di capitali; così, mentre la Danimarca dovrà affrontare nei primi anni novanta una risalita del debito, il quale solo dal 1994 inizierà a scendere con regolarità, la discesa del debito irlandese sarà forte e continua dal 1987, fino a che la crisi finanziaria non porterà alla luce i rischi connessi ad un fortissimo indebitamento privato.

5. La dinamica del rapporto debito-Pil.
Quando i creditori vedono che un debitore ha alte o crescenti passività finanziarie, incominciano a preoccuparsi e a chiedere interessi più alti, e la situazione può precipitare in crisi di liquidità prima e di insolvenza poi. La dinamica del rapporto debito-Pil ha quindi una notevole importanza sul costo del debito stesso. Essendo un rapporto, dipende dall’evoluzione del numeratore rispetto a quella del denominatore; un paese può anche avere costantemente un deficit (in ammontare assoluto) positivo ed allo stesso tempo avere un rapporto debito-Pil in diminuzione, se il Pil cresce più del debito. Al netto delle vendite di attività detenute dal settore pubblico [9], la variazione, tra un anno ed un altro, del rapporto debito-Pil è dato dalla differenza tra il deficit (in rapporto al Pil) e il tasso di crescita moltiplicato per il livello del rapporto debito-Pil.
Questo spiega i forti aumenti del debito tra il 2008 ed il 2009; ad esempio, i quasi dieci punti di aumenti in Italia sono dipesi, all’incirca, per metà dal deficit e per metà dalla caduta del Pil. Anche nel 2010, in cui secondo le previsioni dovrebbe tornare un segno positivo nella crescita del Pil nella maggior parte dei paesi europei (salvo Grecia, in cui è previsto -3% ed Irlanda e Spagna, con -0,9% e 0,4%), il debito continuerà a crescere perché la spinta dei numeratori, cioè dei deficit (anche se in via di flessione) sarà più forte di quella del denominatore. Ovviamente la situazione peggiore è quella della Grecia, nella quale al deficit si sommeranno 3,3 punti percentuali dovuti alla diminuzione del Pil.
Come è noto, tutti i paesi europei hanno deciso di accelerare le misure di rientro dai deficit di bilancio, di fronte alle tensioni sui titoli di Stato iniziate dalla fine 2009 con la Grecia, ed estesesi progressivamente ai paesi iberici, all’Irlanda ed anche all’Italia, nonché all’euro. È probabile che le divisioni ed incertezze tra i paesi europei, e tra essi e la BCE, abbiano contribuito all’aumento degli spread rispetto ai titoli tedeschi e ai premi dei CDS. Si tratta di un esperimento di politica economica che non ha precedenti, se non nell’esperienza dei primi anni novanta, quando la Bundesbank effettuò una stretta monetaria (in risposta al modo in cui il governo tedesco aveva finanziato l’unificazione) costringendo tutte le altre banche centrali a seguirla. Sappiamo come finì: nel settembre del 1992 l’attacco guidato da George Soros contro lira e sterlina portò all’uscita dallo SME e alla svalutazione; l’anno dopo l’attacco si rivolse verso il franco francese, ma questa volta senza successo [10].
L’attenzione si è rivolta in particolare sulle scelte del governo di Angela Merkel; come ha scritto Luigi Zingales [11], l’anno scorso “di fronte allo stupore del mondo, i tedeschi in piena recessione” approvarono una norma costituzionale che, dal 2016, ammette (salvo circostanze eccezionali) solo uno 0,35% di deficit. Quale sono le conseguenze economiche delle scelte della signora Merkel? Zingales ricorda che “dato un risparmio delle famiglie e delle imprese, una riduzione del disavanzo fiscale si traduce pari pari in un aumento del surplus della bilancia dei pagamenti”. Va ricordato che la bilancia commerciale tedesca è già largamente in attivo e che circa il 40% delle esportazioni tedesche si rivolgono ai paesi dell’euro. La conclusione di Zingales è che “i tedeschi, quindi, hanno deciso unilateralmente di esportare deflazione in tutti i rimanenti paesi dell’area euro”.
Cosa si può obiettare a questa tesi, che è molto diffusa tra i commentatori economici? Certamente, dato un livello di risparmio, la contabilità nazionale lega un euro in meno di deficit pubblico ad un euro in più della bilancia commerciale. La speranza potrebbe risiedere allora nella german view; un aumento di consumi, ed anche di investimenti, attivati proprio dalla rigorosa politica di bilancio. Purtroppo le probabilità che le cose vadano in questo senso non sono molte; è difficile pensare che l’Europa nel suo insieme possa ripetere esperienze come quelle di Danimarca e Irlanda degli anni ottanta. Ammesso e non concesso che i consumatori danesi e irlandesi siano stati ricardiani, non vi è dubbio che allora l’Europa cresceva ad un buon ritmo; quali effetti possono derivare da una situazione in cui Germania, Regno Unito, paesi mediterranei ed (obtorto collo) anche Francia effettuano un rientro dai deficit, è difficile da valutare.
Certamente per la Grecia la prospettiva sembra delineare una mission impossible; invece di una prospettiva di buona crescita europea, si trova a dover uscire dalla situazione critica in cui i suoi governanti l’hanno cacciata, con una politica super-deflattiva. Ma problemi seri si prospettano anche per gli altri paesi mediterranei; per l’Italia la valutazione di Salvatore Rossi [12] nell’audizione al Senato del 10 giugno sulla manovra di bilancio è che “la manovra potrebbe cumulativamente ridurre la crescita del Pil di poco più di mezzo punto … determinando un maggior disavanzo nel 2012 … che porterebbe il saldo di quell’anno a circa il 3% del Pil”. Affinché il rapporto debito-Pil inizi a ridursi nel 2012, con un deficit al 3%, dobbiamo avere una crescita nominale del Pil superiore al 2,5% [13]. La cosa è possibile ma non è affatto certa, anche perché nella valutazione non viene considerato l’effetto depressivo proveniente dalle manovre di tutti gli altri paesi europei.

6. Conclusioni.
È possibile che tutta l’Europa divenga una grande Germania, o che almeno i paesi dell’euro si germanizzino? O la cura di bilancio risulterà fatale alla stessa esistenza dell’euro, come ritiene Zingales? Per non parlare di Paul Krugman, il quale vorrebbe che gli Stati Uniti facessero un politica di bilancio ancora più espansiva e che considera folli le scelte dei paesi europei, Germania in particolare. Anche supponendo che la cura germanica funzioni per gli altri paesi dell’euro, quali conseguenze vi sarebbero con un’area europea che andasse in surplus di bilancia dei pagamenti per circa 250 miliardi di euro? Surplus che sarebbe ottenuto, in larga parte, aggravando il deficit degli Stati Uniti. Queste domande, che molti osservatori si sono posti, al momento restano senza risposta. Il problema è che la risposta dovrebbe venire dall’Unione Europea, la quale dovrebbe farsi carico di programmi di spesa di investimenti che le misure di bilancio vietano ai singoli paesi. In fondo, anche come risposta alla recessione (certamente più lieve) del 1993, l’allora Presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, aveva presentato un Libro Bianco [14] che formulava un piano volto ad accrescere gli investimenti e quindi la competitività dell’Europa. Il piano prevedeva un ruolo dell’UE come finanziatore o co-finanziatore di grandi progetti d’investimento, per un ammontare complessivo di 574 miliardi di Ecu, equivalenti a circa 480 miliardi di euro, una cifra del tutto rimarchevole, che avrebbe dato alla Commissione un ruolo di primo piano; e proprio questo è stato lo scoglio contro il quale il piano Delors si è scontrato.

Lavori citati

De Bonis V. (1996), “The effects of budget cuts on consumption: the case of Denmark”, Problemi di Finanza Pubblica, vol. 9.

De Bonis V. (1997), “Contrazione fiscale e crescita della produzione: il ruolo del settore estero nel caso dell’Irlanda”, Economia Internazionale, vol. 50.

De Bonis V. – Paladini R. (1998), “Fiscal Adjustments in Europe and Ricardian Equivalence”, BNL Quarterly Review, settembre 1998.

Dornbush R. (1988), Credibility, Debt and Unemployment: Ireland’s failed stabilization, NBER Working Paper.

Giavazzi F. – Pagano M. (1990), “Can severe fiscal contractios be expansionary? Tales of two small European countries”, NBER Macroeconomics Annual.

Giavazzi F. – Pagano M. (1996), “Non-Keynesian effects of fiscal policy changes: international evidence and the Swedish experience”, Swedish Economic Policy Review, vol. 3.

Note

1.  Per la verità il grafico tra il livello del deficit e la diminuzione dei Pil (non riportato) mostra una lieve relazione negativa, ma di scarsa significatività.

2.  Si veda Giavazzi e Pagano 1990 e 1996.

3.  Infatti il titolo del noto articolo di Barro del 1974 era: “Are Government Bonds Net Wealth?”. Quando Barro scrisse l’articolo ignorava l’equivalenza ricardiana, sulla quale avevano scritto generazioni di economisti.

4.  Anche una leggera svalutazione della moneta può avere aiutato la ripresa degli investimenti.

5.  Si veda De Bonis (1996) e De Bonis – Paladini (1998), dove si mostra che il calo dei tassi d’interesse hanno svolto un ruolo non solo sugli investimenti, ma anche sui consumi.

6.  Questo è il titolo di un lavoro di Rudiger Dornbusch (1988), che curiosamente esce proprio quando il secondo tentativo di stabilizzazione sta riuscendo alla grande.

7.  Si veda De Bonis 1997.

8.  La manovra del 1987 fu portata avanti con decisione da un governo di minoranza, il quale, come riferiscono Giavazzi e Pagano (1990), risultò più incisivo della manovra del 1982, effettuata da un litigioso governo di coalizione.

9.  O altre operazioni “sotto la linea”, cioè operazioni che non variano il deficit ma direttamente il debito.

10.  Per stroncare l’attacco speculativo il margine di oscillazione dello SME fu dilatato di dieci volte, in modo da non offrire un facile terreno di gioco alla speculazione.

11.  “Berlino prima della classe”, Il Sole 24 Ore 10-06-10.

12.  Direttore dell’area ricerca economica e relazioni internazionali della Banca d’Italia.

13.  Prescindendo da vendite di attività reali o finanziarie.

14.  Crescita, Competitività, Occupazione: le sfide e le vie per entrare nel XXI secolo, Bruxelles 1993