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Diritto negoziale della crisi d’impresa e prospettive di riforma dell’amministrazione straordinaria

di - 9 Luglio 2010
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3. – La riduzione assiologica degli interessi coinvolti nella crisi d’impresa determinata dalla tutela pressoché esclusiva del credito nel diritto ordinario – e dunque la considerazione di ogni interesse e di ogni posizione coinvolta nella crisi esclusivamente nello spettro della tutela del credito [12] – non ha mai sollevato problemi in punto di frizione con prevalenti interessi pubblici (riferibili, come si usa dire, allo Stato-persona). Infatti alla protezione di tali interessi sono classicamente deputate le discipline sulla liquidazione coatta amministrativa [13], peraltro nemmeno costruite sull’insolvenza come presupposto necessario (rilevando anche altri presupposti, e così l’irregolarità gestoria dell’ente).
Invece, per le imprese non connesse con l’attività del pubblico potere secondo lo speciale vincolo che legittima le procedure di liquidazione coatta, il presupposto oggettivo torna a essere costituito dall’insolvenza dell’imprenditore; tende perciò a riaffermarsi nella sua esclusività la tutela del credito.
La ritenuta insufficienza di una simile prospettiva rispetto alla crisi dell’impresa grande o grandissima ha determinato negli ultimi decenni – e a partire dalla crisi economica degli anni Settanta – le legislazioni sull’amministrazione straordinaria: sensibili alla protezione del vasto e poliedrico ordine di interessi (riferibili allo Stato-comunità) connessi alla conservazione dell’impresa [14] e volte a consentirne l’affermazione anche in pregiudizio dei creditori [15].
La differenza tra amministrazione straordinaria e liquidazione coatta amministrativa dipende dalla diversità degli obbiettivi della conservazione dell’impresa e della estinzione dell’ente deputato all’attività [16]. La distanza tra amministrazione straordinaria e diritto ordinario della crisi d’impresa è invece misurata dal conflitto che usualmente si instaura tra esigenze conservative dell’impresa e piena tutela degli interessi dei creditori: realizzabile quest’ultima non solo conservando l’impresa ma anche – e spesso in maniera più efficiente – liquidando il patrimonio [17].
Sotto quest’ultimo profilo il dibattito dottrinale non appare del tutto sopito. Si è autorevolmente escluso che la conservazione dell’attività possa configgere con l’interesse dei creditori, giacché la prosecuzione dell’impresa non potrebbe autorizzarsi in pregiudizio di coloro alla soddisfazione dei quali sarebbe esitalmente indirizzata la procedura concorsuale [18]. Si discute inoltre sui rapporti tra interessi pubblici e privati, ravvisando l’affermazione dei primi nella apertura della procedura mentre l’affermazione dei secondi sarebbe nello svolgimento della stessa, quale procedura concorsuale finalizzata alla sistemazione dell’insolvenza; proprio il carattere concorsuale dimostrerebbe inoltre che non i primi ma i secondi interessi sono effettivamente prevalenti [19].
Per questo ordine di idee, la conservazione dell’impresa sarebbe legittimata solo in quanto strumentale alla soddisfazione dei creditori o per lo meno a questa non pregiudizievole. Va però osservato che, a differenza di altre legislazioni chiare sul punto, nessuna norma del diritto settoriale prevede un tale rapporto strumentale tra conservazione dell’impresa e soddisfacimento dei creditori [20]; così come, e a differenza del diritto ordinario della crisi d’impresa, non si rinvengono disposizioni che inibiscano la prosecuzione dell’attività in pregiudizio dei creditori [21].
La considerazione olistica del diritto ordinario e del diritto amministrativo avverte, in definitiva, sulla diversa gerarchizzazione degli interessi nelle due branche, le quali si legittimano reciprocamente proprio per tali differenze, che poste in evidenza consentono la armonica sistematizzazione dell’intero diritto della crisi d’impresa [22].

4. – La riforma del diritto comune della crisi d’impresa conclusasi nel 2007 con il c.d. ‘decreto correttivo’ si è svolta, come si usa dire, all’insegna della ‘privatizzazione’ [23].
Il nucleo concettuale riposto nel termine (e sul quale può conquistarsi una concordia di opinioni) è nel superamento, anche in questo settore del diritto patrimoniale, della vecchia regola pubblicistica di stampo corporativo – e con essa dell’idea del governo statuale della crisi d’impresa –  a vantaggio della regola di diritto privato.
Nel significato minimo (e tecnico) ‘privatizzazione’ descrive pertanto il movimento di riconduzione del diritto della crisi d’impresa nell’ambito suo proprio e originario: il diritto privato.
Prova eloquente di questa dinamica è nelle ‘soluzioni negoziali’ della crisi d’impresa. Sia le fattispecie semplicemente presupposte dal legislatore (come gli accordi stragiudiziali) sia quelle disciplinate per accenni (come i piani attestati) sia quelle tradizionali e profondamente rivisitate (come i concordati) sia, infine, quelle nuove (come gli accordi di ristrutturazione) si declinano oggi secondo due paradigmi costitutivi del diritto patrimoniale: il contratto e la deliberazione.
Si tratta di paradigmi nuovissimi (rispettivamente, per previsione e per conformazione) per il diritto concorsuale italiano del secolo scorso ma, come pure testimoniano storicamente gli abrogati codici di commercio, costitutivi del diritto privato.
Il paradigma contrattuale era in precedenza del tutto assente. Nel vigore delle vecchie regole la soluzione consensuale della crisi d’impresa si conduceva a prescindere da previsioni legali, dedicate esclusivamente alle procedure concorsuali. Le quali, in quanto ‘procedure’, manifestavano una natura diversa da quella contrattuale. L’accordo sulla crisi, conseguito al di fuori di procedure concorsuali, era qualificato ‘stragiudiziale’: e l’aggettivo, sottolineando una estraneità, rimarcava pure lo statuto inferiore (e la dubbia legittimazione) di queste pratiche rispetto alle soluzioni procedurali. Nella nuova legge gli accordi hanno piena legittimazione, e in caso di insuccesso possono essere esentati dall’azione revocatoria. Per di più, degli accordi che soddisfino determinati presupposti può essere richiesta l’omologazione; ed è chiaro che il deposito dell’accordo in tribunale ne assicura la piena legittimazione anche nel mondo delle ‘procedure’.
A differenza del paradigma contrattuale, il paradigma deliberativo non integra una novità assoluta. Particolarmente innovativa è però la conformazione che esso assume. Secondo le disposizioni abrogate, l’approvazione del concordato preventivo da parte dei creditori costituiva uno dei fattori necessari al successo della procedura; ma, di tutti quanti, non era certo il prevalente. Perché i creditori potessero deliberare, era necessario che il debitore fosse ammesso dal tribunale alla procedura. Il giudizio sull’ammissione era condizionato da valutazioni di ‘meritevolezza’ condotte sulla figura del debitore; e da valutazioni di merito espresse sul contenuto della proposta. Inoltre, l’approvazione del concordato poteva essere vanificata in sede di omologazione: dal giudizio del tribunale sulla non convenienza della proposta. Disposizioni similari governavano il concordato fallimentare.
Le regole in vigore restituiscono ai creditori il pieno potere determinativo sulla domanda di concordato. Al giudice è attribuito il compito di assicurare la legalità della procedura; il controllo si arresta dunque su profili di legittimità, e non invade il merito della proposta. In fase di omologazione, il giudizio sulla convenienza è esperibile soltanto nel caso di opposizione spiegata dal creditore dissenziente appartenente a classe dissenziente; dunque, proprio come impone il principio dispositivo, su istanza di parte [24]. Disciplina similare vale per il concordato fallimentare, nel quale si segnala, inoltre, l’apertura della legittimazione attiva a ogni interessato.
Accordi sulla crisi d’impresa e concordati recano una matrice accomunante, data dall’essere gli uni e gli altri manifestazioni di autonomia negoziale del debitore e dei creditori. È per questo che le espressioni di sintesi finora adoperate per coniugare accordi sulla crisi d’impresa e concordati sono incentrate sul concetto di ‘soluzione della crisi d’impresa’ attraverso l’esercizio dell’autonomia negoziale. Si discorre infatti di ‘soluzioni negoziate’ oppure ‘concordate’ della crisi d’impresa [25].
Per un guadagno in precisione terminologica occorrerebbe tuttavia accantonare ogni locuzione empirica e atecnica, come pure si mostra essere quella su (generiche) ‘soluzioni negoziali’.
Potrebbe allora discorrersi di ‘diritto negoziale della crisi d’impresa’.
In questa espressione, l’aggettivo ‘negoziale’ descrive uno specifico settore del diritto rilevante: discriminato non solo in positivo (per l’aggregazione dei fattori negoziali costituiti da accordi e concordati) ma anche in negativo (per esservi estranea la procedura di fallimento) [26].

Note

12.  Lo stesso lavoratore riceve tutela concorsuale ordinaria in quanto creditore: cfr., per tutti, d’Alessandro, Crisi dell’impresa e tutela dei lavoratori, [1974] in Scritti, cit., 736 ss.

13.  Anche la dottrina maggiormente restia ad ammettere, in tale procedura, la subordinazione dell’interesse dei creditori al superiore interesse pubblico (su cui cfr., chiaramente, De Martini, Il patrimonio del debitore nelle procedure concorsuali, Milano, 1956, 26 ss.) annota come, nel concordato, il ruolo svolto dalla autorità amministrativa (su cui cfr. oltre) dimostra che interesse pubblico e interesse dei creditori non possono essere posti sullo stesso piano (così Bonsignori, Processi concorsuali minori, cit., 1997, 631).

14.  Per la qualificazione di tali interessi come di ordine pubblico, cfr. Guglielmucci, Una procedura concorsuale amministrativa sotto controllo giudiziario, in Fallimento, 2000, 133.

15.  Cfr. d’Alessandro, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi: due anni di esperienze, [1981] in Scritti, cit., 786 s. che – con rinnovata attualità – polemizza con la scelta legislativa rilevando come la procedura, perseguendo sia la finalità di tutela del credito che la finalità di conservazione dell’impresa, sembrerebbe tesa verso obbiettivi contraddittori e non realizzabili contestualmente mentre in realtà l’obbiettivo avuto di mira sarebbe unico: la gestione della crisi della grande impresa «che poi […] diventa una gestione non della crisi ma dell’economia in generale, visto che l’economia è tutta in crisi».
La concreta esperienza della amministrazione straordinaria ha confermato come la compressione dell’interesse dei creditori antecedenti alla apertura della procedura sia stata gravissima, poiché l’antieconomica prosecuzione dell’attività commissariata ha favorito il lievitare incontrollato dei crediti prededucibili con conseguente erosione degli attivi (cfr., in generale, Paolucci, Imprese in crisi (amministrazione straordinaria), in Digesto disc. priv. sez. comm., VII, Torino, 1992, 210, e il censimento di Napoleoni, Finalità e filosofia della nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria, in Bonfatti, Falcone (cur.), La riforma della amministrazione straordinaria, Roma, 2000, 26 ss.; da ultimo, v. Stanghellini, La crisi d’impresa fra diritto ed economia, cit., 346, che così liquida quell’esperienza: «in nome degli interessi dei lavoratori vennero tenute in vita, all’unica condizione i dipendenti fossero almeno 300, imprese decotte, che quasi sempre bruciarono ai danni dei creditori tutta la ricchezza residua»). Per la ricostruzione del problema cfr. Corapi, Creditori anteriori e creditori di massa nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Riv. dir. civ., 1982, I, 291.

16.  Cfr., per tutti, de Ferra, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1989, 385.

17.  Emblematica, sul punto, la normativa fallimentare. Essa si presenta esclusivamente come una disciplina della liquidazione, in cui l’attività gestoria si organizza e si svolge secondo un preciso programma, detto nell’art. 104 ter l.f. «di liquidazione» (per essere, invero, di recupero e poi di liquidazione dell’attivo: sia censito e inventariato che recuperato).

18.  Cfr. Oppo, Profilo sistematico dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Riv. dir. civ., 1981, I, 246 ss., a cui aderiscono, tra gli altri, Corapi, Creditori anteriori e creditori di massa nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, cit., 292 ss.; Lanfranchi, La natura liquidatorio-satisfattiva dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e le sentenze 22 maggio 1987 nn. 181 e 185 della Corste Costituzionale, in Riv. dir. civ., 1987, II, 610, nota 44.

19.  Cfr., tra gli altri, F. Vassalli, I casi di chiusura dell’amministrazione straordinaria, in Atti del Convegno Sisco del 27 novembre 1987 su L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi . Esperienze, riflessioni, prospettive, Milano, 1989, 125; Pacchi, Effetti dell’amministrazione straordinaria nei confronti dei creditori, in Bonfatti, Falcone (cur.), La riforma della amministrazione straordinaria, cit., 149 ss.

20.  Cfr. invece lo schema concettuale del ricordato § 1 InsO.

21.  Nel fallimento è possibile anche l’esercizio dell’impresa; ma tale esercizio è definito, nella legge stessa, «provvisorio»; ed è condizionato dalla tutela dell’interesse dei creditori. Come emerge chiaramente dall’art. 104 l.f. (ancora più eloquente sul punto del vecchio art. 90 l.f.), l’istituto è funzionale alla conservazione dell’impresa, ma compatibilmente con l’interesse dei creditori: il quale interesse si realizza compiutamente proprio nella liquidazione delle attività. La tutela di ogni altro e diverso interesse è provvisoriamente (precariamente) possibile purché – avverte la legge – l’esercizio dell’impresa nel fallimento non arrechi pregiudizio ai creditori e sempre che il comitato dei creditori non ravvisi opportuna la sua cessazione (cfr., per la perdurante attualità, lo studio di Rivolta, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, spec. 135 ss.). Nemmeno l’introduzione nella legge riformata della figura dell’affitto di azienda (che pure intensifica la rilevanza dell’autonomia negoziale nel fallimento) incrina la vocazione liquidatoria della procedura: potendo disporsi l’affitto esclusivamente «al fine di una più proficua vendita» (cfr. art. 104 bis, comma 1, l.f.). Esercizio provvisorio e affitto di azienda (unitamente alla vendita di azienda disciplinata nell’art. 105 l.f.) si spiegano nella concezione, accolta nella legge, della conservazione dell’impresa (ma) a fini liquidatori e nell’interesse dei creditori (sempre per la perdurante attualità, v. l’ulteriore studio di Rivolta, L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento, Milano, 1973, spec. 84 ss.) seppure, e beninteso, si tratti di nuova concezione, detta della liquidazione «conservativa» e «riallocativa» (cfr., Fimmanò, Art. 104 l.f., in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2006, 1576 ss.; Id., Art. 104 bis l.f., ivi, 1618 ss.).

22.  Plausibilmente edificabile, anziché attraverso i classici approcci riduzionistici, secondo la classificazione sistematica delle differenze. Nella teoria del diritto cfr., per questo avviso, Coleman, La pratica dei principi. In difesa di un approccio pragmatista alla teoria del diritto, (trad. it.) Bologna, 2006, 97 s., nota 4, secondo cui «una buona spiegazione può mostrare in che modo le varie parti dell’intero differiscano l’una dall’altra in modo sistematico o di principio, e in che modo il farlo contribuisca alla coerenza dell’intero».

23.  Per una proficua lettura introduttiva cfr. Rovelli, I nuovi aspetti privatistici nel diritto societario e concorsuale e la tutela creditoria, in Fallimento, 2009, 1029 ss.; per le implicazioni sulla attività bancaria, A. Nigro, «Privatizzazione» delle procedure concorsuali e ruolo delle banche, in Guerrera e altri, Le soluzioni concordate delle crisi d’impresa, Torino, 2007, 1 ss.

24.  Né deve essere trascurata la struttura della legittimazione alla opposizione: ristretta a un caso specifico, in modo da valorizzare al massimo la stabilità della deliberazione assunta a maggioranza (secondo una linea di intervento sulle legittimazioni all’impugnativa già sperimentata nella riforma del diritto societario).

25.  Il termine ‘soluzione’ indica funzionalmente il senso (la direzione semantica) dell’incontro concettuale tra autonomia negoziale e crisi d’impresa: quest’ultima è presentata come un problema accusato dall’impresa nel suo svolgersi; la dimensione del ‘problema’ giustifica l’approccio in termini di ‘soluzione’; il metodo perseguito per attingere al risultato è l’esercizio della autonomia negoziale. Ecco dunque, nell’uso recente, il riferimento alle soluzioni ‘negoziate’ o ‘concordate’. In realtà, l’autonomia negoziale si esplica, nell’ambito in esame, non solo nelle forme dell’accordo, ma anche nelle forme della deliberazione. Appare dunque alquanto criticabile l’uso dottrinale di discorrere di ‘soluzioni negoziate’, ossia di ‘soluzioni contrattuali’, escludendo (o alludendo all’esclusione) dall’insieme (de)i concordati preventivo e fallimentare (infatti e del resto concepiti esclusivamente come procedure concorsuali). Maggiormente appropriato è discorrere di ‘soluzioni negoziali’ della crisi d’impresa. Sul punto, interessanti notazioni in Stanghellini, La crisi d’impresa fra diritto ed economia, cit., 329 ss.

26.  Per la precisazione sull’uso del termine ‘negoziale’, si comprende come in questo lavoro non interessi discutere della attualità – peraltro ormai revocata in dubbio dai più – della categoria del ‘negozio giuridico’ quale sintesi concettuale di ogni ‘atto di volontà’ produttivo di effetti giuridici. In particolare, l’aggettivo non vuole certo suggerire un simile (improbabile) riduzionismo logico per i due istituti implicati dal diritto rilevante: ‘contratto’ e ‘deliberazione’. Invece, si propone di richiamarli entrambi per il contenuto di autonomia privata che ognuno di essi esplica costitutivamente. Lo stesso ha già fatto chi, pur combattendo la categoria negoziale, vi ha dedicato una opera impegnativa: sottolinenando nella premessa la sfiducia verso la sintesi concettuale veicolata dalla classica locuzione; preferendo pertanto alla sintesi l’analisi; e mostrando che, proprio in forza di quella, accanto alla usuale materia contrattuale può trovare spazio e ragione di essere trattata la (generalmente trascurata) materia della deliberazione (cfr. Galgano, Il negozio giuridico, in Trattato Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, Milano, 20022, VII).

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