Alessandro Giuliani: l’esperienza giuridica fra logica ed etica

Alessandro Giuliani nacque a Lecce il 20 settembre 1925. Laureato in Giurisprudenza nell’Università di Pavia, collaborò dapprima con Bruno Leoni ma dal 1959, per contrasti, il rapporto con il noto studioso di scienza politica si interruppe. Studiò in Spagna e in Scozia, presso l’Università di Aberdeen, dove consolidò il rapporto di amicizia con Peter Stein. Insegnò nelle Università di Pavia (Storia delle dottrine economiche, Diritto comune, Storia del diritto italiano, Filosofia del diritto), Perugia (Filosofia del diritto) e Roma “La Sapienza” (Filosofia del diritto: chiamato nel 1973 alla cattedra di Filosofia del diritto, dopo tre anni in questa Università Giuliani preferì tornare nell’Ateneo perugino, dove fu Preside della Facoltà di Giurisprudenza nel triennio 1976-79). Giuliani è stato in contatto con moltissimi studiosi italiani e stranieri ma particolarmente intensi e fruttuosi sono stati i sodalizi intellettuali con alcuni Maestri: Riccardo Orestano, Chaïm Perelman, Michel Villey, e con Nicola Picardi, suo collega per molti anni nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia. Morì a Perugia il 4 ottobre 1997[1].

È stato senza dubbio un destino singolare quello della ricerca di Alessandro Giuliani: in vita, ed ancora dopo tredici anni dalla sua scomparsa, lo studioso era stato, ed è ancora, noto e stimato fra i filosofi del diritto, fra gli storici e fra i processualisti. Le ragioni si comprendono agevolmente: basti pensare che Giuliani aveva dedicato studi importanti alla logica giuridica ed alla teoria dell’argomentazione e che si era inoltre impegnato in ricerche storiche e filosofiche sulla prova, sulla controversia, sulla responsabilità del giudice. Anche i civilisti, i costituzionalisti e, su entrambi questi versanti degli studi giuridici, i comparatisti, erano entrati in contatto con la sua riflessione: si pensi alle sue ricerche sull’importanza della comparazione negli studi giuridici, a quelle sui principi del diritto, sulle sue fonti, sulla legislazione e sull’informazione. Tuttavia, già quando era ancora in vita, ed ancor più oggi, si aveva e si ha la sensazione che il suo pensiero fosse in passato, e resti ancora, poco studiato ed approfondito da tutti, filosofi del diritto e giuristi – con poche eccezioni: forse a causa della complessità di questo pensiero che si sviluppa in molte direzioni però con coerenza, dai primi studi giovanili fino ai lavori della maturità.

Esistono allora buone ragioni per riprendere il filo della riflessione giulianea: a mio modo di vedere essa è non solo assai poco conosciuta ma questa scarsa conoscenza è in contraddizione con la sua straordinaria modernità ed attualità. La concezione del diritto coltivata da Giuliani è preziosa per chi intenda riflettere sulle prospettive della scienza giuridica in un’era che si caratterizza, da un lato, per la crisi della tradizionale dogmatica statualistica e, dall’altro, per la proposta – che proviene soprattutto dai giuristi americani eredi della tradizione del giusrealismo – di archiviare definitivamente questa dogmatica per attingere altrove – dall’economia, dalla sociologia, dall’antropologia, da orientamenti della ricerca letteraria e così via – i criteri per argomentare e definire questioni giuridiche. Giuliani ammette la crisi della dogmatica giuridica, la riconosce, ne traccia una genealogia, tuttavia non sottoscrive il suo atto di morte: l’attività di formazione dei concetti giuridici (seppure connotata da vizi di astrazione e da una ricerca del sistema che ha stornato i giuristi dalla concretezza del fenomeno giuridico, il quale rinvia al nesso fra interessi che competono per vie legali e valori cui essi si ispirano) resta erede di una tradizione decisiva per il giurista, una tradizione di elaborazione di regulae iuris, di principi costitutivi del diritto. Si tratta di una tradizione propriamente giuridica, nel senso che sono stati e sono tuttora i giuristi ad essere impegnati nella sua elaborazione, non gli economisti, i sociologi, gli antropologi, ecc. Gli studi di Giuliani ci ricordano che la scienza giuridica dovrebbe dunque recuperare consapevolezza del proprio ruolo nei processi di formazione dei criteri della valutazione giuridica ed evitare una deriva che la consegna all’influsso determinante di altre scienze.

Per altro verso, la scienza giuridica, per Giuliani, non è scienza di norme. Dico questo non per affermare che il momento normativo scompare dalla prospettiva considerata dal nostro autore; solo, esso non è più centrale ma deve essere considerato insieme ad una pluralità di altri fattori. È invece centrale il riconoscimento della presenza del valore nei processi di valutazione giuridica. Da ciò viene, come si comprenderà, che il giurista deve, per attendere al proprio compito, per elaborare principi e criteri di valutazione giuridica, occuparsi di economia, di sociologia, di antropologia, di filosofia, di religioni, e così via, ma dal suo punto di vista, tenendo conto di essere chiamato, nella società, ad una responsabilità non piccola e specifica, quella di suggerire ai soggetti portatori di interessi, che confliggono per ottenere beni e/o per l’affermazione di valori, soluzioni ragionevoli e compatibili con le strutture normative (nel senso di assiologiche) e discorsive (nel senso propriamente interno della struttura argomentativa dei discorsi giuridici) del diritto in un determinato momento storico. Il compito del giurista è dunque immerso nella storia, è storicamente condizionato ma non è, o non dovrebbe essere al servizio di un solo interesse. Questa imparzialità del giurista può essere forse intesa come principio etico fondamentale della sua attività, principio che rinvia al suo coinvolgimento nella storia e con i valori ma anche ad una tradizione di attività sulla quale Giuliani aveva indagato in profondità e che rende questa prospettiva, a mio giudizio, molto significativa per la riflessione sul diritto oggi.

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Invero, la crisi profonda cui assistiamo, non solo della dogmatica giuridica ma, più ampiamente, delle fondamenta di civiltà dell’ordine giuridico e politico, non deriva forse da un’ancor più radicale crisi etica, dalla incapacità di trovare, nelle radici della nostra formazione di giuristi, ma anche più ampiamente di cittadini, il senso non ipocritamente esibito di una ragione fondante dello stare insieme come società, di una identità civica che dovrebbe rinviare a molteplici calibrature di ruoli sociali e professionali, di mestieri e di qualità convergenti verso interessi comuni, pur nella differenziazione e persino nella contrapposizione di interessi individuali e collettivi? In altre parole, come possono essere affrontate le sfide delle società pluraliste se tali società non mostrano una disponibilità a ragionare sui fondamenti etici delle proprie articolazioni soggettive; se, in altre parole, i cittadini – ciascuno per la propria parte, con riferimento alla propria attività e quindi alla propria responsabilità – non si rendono disponibili a riflettere sul proprio ruolo nella comunità civica? In questo ordine di idee, non si tratta di respingere un approccio critico alla riflessione giuridica, poiché il discorso critico può essere prezioso per valutare a fondo una questione; ma il discorso critico, da solo, non è sufficiente, almeno dal punto di vista del giurista. È necessario che ciascuno cerchi dentro di sé una disponibilità al contatto con una verità che, prima di esser detta, dovrebbe secondo me essere cercata da ognuno nella propria interiorità. Non si tratta, beninteso, di suggerire un’intonazione intimista di questa ricerca: un maestro del pensiero critico come Michel Foucault, negli ultimi anni della sua vita, aveva dedicato grandi energie alla riflessione sulla parresίa, scrivendo pagine significative sull’esigenza di dire la propria, relativa, verità, squisitamente umana ma non per questo meno vera. In effetti, è esigenza primaria di ogni comunità civica quella di coltivare la memoria di sé, l’interesse per il proprio passato, l’attitudine al ricordo collettivo, alla reminiscence[2]. Si badi: questo rinvio alla memoria, al ricordo collettivo, non è indice di preferenza per una visione statica dell’ordine giuridico della comunità civica, per un irrigidimento dei rapporti sociali e dei criteri interpretativi cui si ispirano le valutazioni giuridiche. Coltivare la memoria di sé, per una comunità civica, dovrebbe significare, al contrario, avere presente il nesso dinamico – dominato cioè dal cambiamento, dal movimento, dalla trasformazione – che connette situazioni contingenti e storicamente determinate; nesso che, così operando, permette l’elaborazione di valori di convivenza, di principi costitutivi di diritto, di itinerari argomentativi adatti ad affrontare controversie nelle società pluraliste.

Questo ordine di idee, secondo me, sollecita un’apertura della riflessione del giurista, e del costituzionalista in particolare: assistiamo, oggi, in effetti, da un lato alla moltiplicazione dei piani che, intersecandosi, danno vita al discorso costituzionale – nel senso che il diritto costituzionale statuale non esaurisce tale discorso ma lo compone insieme ad apporti che provengono da aree regionali più vaste (in Europa, soprattutto, gli sviluppi del diritto costituzionale europeo) e dal mondo intero – dall’altro, ad una rinnovata e più marcata attenzione per il diritto giurisprudenziale, specie in materia di tutela dei diritti fondamentali. Questa attenzione non dovrebbe ridursi ad elaborazione di una dogmatica giurisprudenziale, diretta alla sistematizzazione delle massime ed alla «accurata ricostruzione della motivazione della sentenza»[3]. Si tratta invece di valorizzare il pluralismo degli apporti giurisprudenziali, specie in un’epoca in cui essi provengono da ordinamenti diversi, con dotazioni peculiari di linguaggio, di metodo, di analisi dei casi, in sintesi di cultura giuridica. Si tratta, ancora, di non ignorare il fondamento assiologico delle decisioni dei giudici e di indagare il rapporto fra valori ed argomenti nei ragionamenti delle corti.

Le trasformazioni che provengono dal diritto giurisprudenziale – e dal diritto in generale – devono essere problematizzate, nel senso che il mutamento deve essere studiato per comprendere le linee di tendenza, le aporie come i tratti di coerenza di giurisprudenze che non devono essere prese in considerazione per se sole ma nei rapporti che fra esse intercorrono e che rendono impervie, problematiche, le letture che tentano di interpretarle. I rapporti fra giurisprudenze non si svolgono oggi su binari prefissati ma sono in larga misura aperti al cambiamento, alla dinamica dei rapporti fra culture giuridiche, fra filosofie giudicanti diverse, fra interessi differenziati; è in questo quadro che esse tuttavia cercano anche, dialetticamente, gli itinerari per una stabilizzazione sia dei propri indirizzi che dei rapporti che li vincolano a quelli delle altre corti.

Da questo punto di vista, può essere valorizzato lo studio delle argomentazioni di ciascun giudice, non con l’obiettivo di trarre, da quelle argomentazioni, il sistema di concetti, di dogmi che dovrebbero spiegare ed illustrare la materia, ma con quello di apprezzare, nell’analisi dei casi di giurisprudenza, la dialettica fra tendenze al cambiamento ed alla differenziazione e tendenze alla stabilizzazione di principi giuridici. Si consideri che una linea argomentativa elaborata da un giudice potrà sia avere versioni o applicazioni nell’uso che il medesimo giudice ne farà nel tempo, così da consolidare alcuni aspetti dell’argomentazione e trascurare altri; sia trovare un’utilizzazione da parte di altro giudice, in un ambiente culturale ed istituzionale diverso, con esiti che saranno solo in parte analoghi a quelli maturati dalla giurisdizione che aveva inaugurato il suo uso.

Tutto questo conduce verso una critica del metodo giuridico imperniato su dati normativi e su una dogmatica giuridica orientata ad elevare a sistema i nessi individuati in via teorica fra norme e gruppi di norme e fra concetti e definizioni. Non è che il dato normativo e l’elaborazione dogmatica siano privi di interesse per il giurista: il primo tuttavia perde centralità, anche se ovviamente continua ad essere considerato nei processi di valutazione giuridica. La seconda – l’attività di formazione dei concetti – si fa meno sensibile alle suggestioni della ricostruzione sistematica, ai tentativi di far “quadrare i conti” nel tenere insieme, con impianto coerente, non contraddittorio, le relazioni fra concetti astratti; meno sensibile alle tentazioni di individuare con definizioni precise l’esatta consistenza di istituti e concetti giuridici ed invece più attenta alle particolarità del caso concreto, alle inferenze che se ne possono ricavare, ad un’analisi topica, centrata perciò sui singoli casi giudiziari, fondata su un prudente apprezzamento degli errori in cui può incorrere il processo di valutazione giuridica quando esso si sposta verso la considerazione della concreta configurazione dei fatti, delle circostanze, che diventano elementi complessi che si mescolano (con) e orientano il giudizio in diritto.

Infine, è necessario l’affinamento delle sensibilità orientate alla valutazione degli interessi coinvolti dalle vicende giudiziarie, al quadro assiologico cui tali interessi rinviano, in alcuni casi al páthos con il quale il giudice edifica la propria visione dei diritti fondamentali come valori di civiltà. È l’incrocio fra interessi coinvolti via via nelle concrete controversie e valori che li sostengono o avversano il cuore della valutazione giuridica: il giurista è impegnato nel rendersi sempre più consapevole della presenza della dimensione assiologica nei processi della valutazione giuridica e nel convertire poi questa consapevolezza in un rigoroso atto di responsabilità, quando accoglie un punto di vista rispetto ad una certa vicenda giudiziaria o nei riguardi di un indirizzo di giurisprudenza. Egli dovrà dunque sforzarsi di far corrispondere al rigore del ragionamento giuridico quello dell’assunzione etica, della dichiarata e motivata presa di posizione per una determinata tesi.

Per il costituzionalista in particolare – e per il giurista, in generale – si tratta di storicizzare il processo di valutazione giuridica: l’elaborazione concettuale non è respinta – e come potrebbe? – ma ne è contestato un profilo tutto astratto, irrelato, è contestata la tendenza a concentrare nel sistema tutte le virtualità espansive della dogmatica giuridica[4].

Sono consapevole del fascino ma anche del timore che il pluralismo suscita nel giurista: c’è apertura ad un principio di libertà ma rischio di derive soggettiviste, arbitrarie, intrinsecamente antigiuridiche. Direi, a tal proposito, che la lezione giulianea può essere utilmente rimeditata oggi, nel confronto teorico sui problemi dell’interpretazione: sappiamo che l’estensione del metodo razionalista dalle scienze naturali a quelle sociali è stata in effetti contestata e con essa l’idea che la distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore possa essere mantenuta ferma e che la conoscenza possa essere acquisita oggettivamente, con gli strumenti offerti da una ragione formale, calcolante, predittiva, che non intende tener conto della particolare natura dei “fatti” che le scienze sociali, e segnatamente il diritto, prendono in considerazione. Il punto di vista giulianeo ci dice però qualcosa di più e di diverso: il diritto si occupa di questioni complesse, confuse, per le quali non si dà perfetta corrispondenza fra le parole e le cose: “i termini del diritto hanno una vasta area di significazioni”[5] ed è corrente nel linguaggio giuridico, che è linguaggio ordinario – non linguaggio altamente formalizzato, dominato dall’esigenza della precisione, dell’oggettività – l’uso della metafora[6].

Il campo delle scienze sociali, e dunque anche quello della scienza giuridica, non può essere indagato, secondo Giuliani, con metodi logistici perché ad esso non si adattano logica formale e metodi deduttivi. In questo ordine di idee ad assumere centralità e radicalità è il problema della storicità del diritto: il rapporto fra storia e diritto è fatto oggetto di una problematizzazione che pone al centro il tema dell’uso della storia da parte dei giuristi in relazione alla formazione degli orientamenti metodologici per lo studio del diritto. Mi limiterei qui ad osservare che il problema del nesso fra storia e diritto rinvia ai temi formidabili della sua razionalità ed eticità. L’immersione del diritto nella sua storia lo pone a stretto contatto con la società: il diritto non è sospeso in un mondo di concetti se non per comodità di chi ne parla ma nella concretezza della sua esperienza esso interagisce con interessi, valori, emozioni, dunque anche con la sfera dell’eticità. Di conseguenza, la sua razionalità si adegua, si fa flessibile, si adatta ad un mondo contrassegnato dal pluralismo di interessi e valori. Questa razionalità è consapevole di doversi muovere su terreni nei quali è impossibile giungere a conclusioni certe, definitive: il suo strumento sarà l’argomentazione, non la dimostrazione.

Credo sia necessario insistere sulle caratteristiche della ragione argomentativa di cui si avvale il diritto: essa non si serve, secondo Giuliani, di un principio causale, per il quale certe conclusioni potranno essere tratte da premesse determinate. Da un lato, nel campo dell’azione umana, queste premesse appariranno estremamente complesse, non racchiudibili in semplici proposizioni, profondamente implicate con la storia della società e con i valori in essa presenti, sicché nessuna conclusione potrà essere derivata, come semplice inferenza, da simili premesse; dall’altro, se a conclusioni si dovrà pur giungere, nel mondo del diritto, queste dovranno avvalersi di procedure logiche meno persuase della propria infallibilità, più modeste, appunto, consapevoli dei propri limiti e quindi della possibilità che errori vengano commessi, e della necessità che vengano riparati. Il problema di una logica, sensibile alla storia ed ai valori, si lega strettamente a quello di un’etica che orienti il ragionamento del giurista. Conseguentemente l’argomentazione del giurista si preoccuperà soprattutto di delimitare, in negativo, il campo di rilevanza del proprio discorso onde escludere dalla propria traiettoria ambiti non significativi ovvero carichi di istanze assiologiche non immediatamente spendibili nell’incedere del ragionamento giuridico, specie quando esse concorrono con altre ad integrare il profilo di valore di determinate issues senza tuttavia poter pretendere di esaurirlo: si pensi, ad esempio, alla tesi di chi voglia sostenere che non si potrà mai consentire ad alcuna forma di suicidio assistito, neppure in casi di malattie terminali, perché la vita non appartiene al malato ma a Dio. La tesi, evidentemente, è carica di contenuti religiosi e morali e, se anche potrà essere presa in considerazione nel processo di valutazione giuridica – sia per il fatto stesso che essa è stata espressa sia per il peso che in ipotesi assuma in determinate società e nella loro storia – non potrà mai motivare da sola o in via principale – nell’ambito di un ordine giuridico pluralista – una certa opzione interpretativa senza escludere, inammissibilmente, altre tesi fondate su diverse, confliggenti, alternative assiologiche.

La valutazione giuridica presenta dunque il proprio profilo con modestia di accostamento, senza pretesa di essere depositaria di soluzioni definitive o comunque in grado di trovarle immancabilmente, ma nella consapevolezza che solo un approccio cauto, che sappia tener conto di tutti gli interessi in gioco, della difficile calibratura del rapporto fra questi interessi e la dimensione assiologica che caratterizza la loro presenza nella società, potrà essere alla base del proprio metodo. Con questo non voglio dire che il giurista appartenga al mondo degli angeli: in altre parole, la mia ingenuità non giunge al punto di (pretendere di) ignorare il coinvolgimento del giurista nella società che lo esprime. S’intende che egli è, come essere umano, implicato nel mondo e l’interpretazione giuridica muove dalla sua precomprensione. Ma qui compare una dimensione propriamente etica che si candida come componente profonda dell’educazione del giurista, che operi come scienziato o come pratico. È una dimensione intrinseca all’attività del giurista perché orienta l’argomentazione, preclude alcune vie, privilegia il confronto delle posizioni ed il contraddittorio delle parti, si impernia su una struttura controversiale della questione giuridica.

È un’etica per il giurista, diremmo un’etica professionale, che però si confronta quotidianamente con le grandi questioni politiche, economiche, religiose, filosofiche – dunque anche etiche – che provengono dalla società e con i conflitti di interessi che vi sono legati. Non è dunque un’etica debole, inerme, ma è consapevole dei limiti della ragione nel dominio dell’opinione, della necessità di evitare abusi della ragione in ambiti come la politica, la morale, il diritto[7]. Da questo punto di vista, etica e diritto si mescolano nell’esperienza giuridica, nell’attività prudenziale di apprezzamento e valutazione delle questioni: è sottinteso un investimento intellettuale sulla tradizione giuridica che si lega all’approccio topico. Da questo punto di vista mi sembra interessante riprendere la recentissima riflessione di Massimo Luciani[8] che sottolinea, richiamando opportunamente la riflessione vichiana, come «la disposizione legislativa…indirizza il fatto, ma è il fatto che illumina di significato quella disposizione, commisurandolo alla realtà dei rapporti sociali che il diritto aspira a regolare». Luciani dedica alcune riflessioni anche al rapporto fra norma e tempo[9], nella prospettiva suggerita da Richard Hare, che distingue fra elemento frastico ed elemento neustico di enunciati e proposizioni. Sulla distinzione Luciani riflette per sottolineare la differenza – sotto il profilo neustico – fra una proposizione normativa espressa in via generale ed astratta ed una proposizione indicativa, che registra un fatto o una circostanza: per esempio fra le due proposizioni “i genitori devono educare i figli” e “Tizio e Caia, genitori, educano i figli”. Quest’ultima, secondo Luciani, assume pieno significato solo commisurandola all’altra, preesistente proposizione normativa la quale, a sua volta, dovrà essere proiettata nel futuro, raffrontata a concrete situazioni di fatto per poterne cogliere il senso autentico. Credo sia importante questa riflessione su tempo e norme che, come lo stesso Luciani esattamente rileva, contribuisce a chiarire come «la norma regolatrice non può fare a meno delle circostanze empiriche per poter essere conosciuta»[10].

Sommessamente soggiungerei, ancora sulla scorta del pensiero giulianeo, che la riflessione può allargarsi al rapporto fra tempo e diritto, alla temporalità del diritto, specie se si insiste sul rilievo dell’aspetto topico nei processi interpretativi. Il tempo entra come elemento dei processi di valutazione giuridica poiché quando ci si muove, come fa il giurista, sul terreno di nozioni aperte, confuse, è necessario rinunciare alla possibilità di raggiungere un accordo al di fuori della considerazione del momento opportuno, del tempo debito, di καιρός. Le controversie giuridiche ospitano questioni composte di fatti intrisi di una dinamica temporalità che è fatta, a sua volta, di valutazioni confliggenti e di un contesto – il processo – capace di ospitarle, di soppesare passato, presente e futuro con gli strumenti di una razionalità pratica, attenta ai valori e agli argomenti che gli interessi che ne sono portatori saranno capaci di far valere. Interessi, argomenti e valori debbono essere considerati in relazione al loro tempo, alla loro qualificazione temporale: καιρός è determinante non solo per la valutazione dell’azione, del momento opportuno per agire, ma è anche essenziale qualità del giudizio, che dovrà tener conto di operare in un ambiente saturo di elementi circostanziali, a loro volta impregnati di implicazioni normative, assiologiche, che sono dislocati nel tempo e che rendono molto complesso il percorso orientato alla loro ricostruzione.

La sottolineatura del rilievo della topica nella valutazione giuridica rinvia, a sua volta, ad una teoria della definizione dialettica[11], alla possibilità di individuare il campo della patologia dell’argomentazione, della discussione velenosa, eristica, orientando la teoria dell’argomentazione verso una logica permeabile ai valori, non nel senso che essa ne è dominata e assoggettata ma neppure con la pretesa che la prima resti estranea ai secondi. I sillogismi dialettici non originano una conoscenza causale ma solo congetturale, le definizioni dialettiche, analogamente, sono sempre immerse in una dimensione controversiale, nel contraddittorio fra le parti, e si legano strettamente alla elaborazione di una teoria delle fallacie, cioè ad una teoria della confutazione. Si tratta non di offrire criteri per la determinazione del vero ma per la esclusione del falso e dell’irrilevante. Siamo di fronte ad una logica della rilevanza costruita in termini negativi come insieme di regole di esclusione degli errori dell’argomentazione, delle fallacie. Così, se da un lato ci si potrà avvalere, nel costruire l’argomentazione, dei materiali che provengono dalle opinioni comuni, dai τόποι – attingendo, in definitiva, dal serbatoio di senso che proviene dal linguaggio ordinario e dalle sue metafore – sarà tuttavia necessario evitare i rischi del conformismo sottoponendo questi materiali ad un procedimento confutatorio in grado di rivelare «l’ambiguità, l’antinomicità, la complessità di ciò che al senso comune appare chiaro»[12].

La lezione di Alessandro Giuliani apre la riflessione del giurista ad una varietà di influenze che provengono dal panorama assiologico e dalla pluralità degli interessi presenti nella società; ma quest’apertura non ha perso i contatti con la tradizione bimillenaria di elaborazione concettuale dei giuristi e, invece che prestarle formale ossequio, valorizza l’esercizio della memoria, la riflessione sulla dialettica fra tendenze al mutamento e tendenze alla stabilizzazione dei principi del diritto. Il convegno di Perugia del quindici e sedici giugno si è proposto di tornare a meditare su questa lezione di un grande Maestro del diritto, di avviare una ripresa dei temi e delle linee di ricerca del filosofo e giurista leccese, secondo prospettive e sensibilità disciplinari diverse ma orientate da una ricerca spassionata e coraggiosa. Certo, si tratta di una via impervia che viene tracciata in controtendenza rispetto agli orientamenti prevalenti degli studi giuridici e dell’educazione giuridica: come lo stesso Giuliani aveva scritto, riferendosi al confronto fra il sistema continentale delle prove legali e quello anglosassone fondato sulla testimonianza, se il primo “suppone…dei buoni tecnici del diritto…[il secondo] suppone una educazione giuridica filosoficamente orientata ed impegnata, perché l’arte di conoscere attraverso testimonianze è l’arte di conoscere gli uomini”[13].

Note

1.  Per più ampie indicazioni sulla biografia intellettuale di Alessandro Giuliani v. N. PICARDI, Alessandro Giuliani: memoriam. L’uomo, il cittadino, il maestro, in F. TREGGIARI (a cura di) Per Alessandro Giuliani, Perugia, Centro stampa dell’Università, 1999, pp. 115 ss.; A. A. CERVATI, Alessandro Giuliani, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 56, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2001, pp. 716 ss.

2.  Cfr. A. GIULIANI, Droit, mouvement et reminiscence, in Archives de philosophie du droit, tome 29, 1984, pp. 101 ss.

3.  Così A.A. CERVATI, A proposito del diritto costituzionale in una prospettiva storica e comparativa, in ID., Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, Torino, Giappichelli, p. 15.

4.  Era, a mio modo di vedere, perfettamente consapevole dell’esigenza di storicizzare i concetti giuridici S.P. PANUNZIO, Introduzione, in ID. (a cura di), I costituzionalisti e l’Europa. Riflessioni sui mutamenti costituzionali nel processo d’integrazione europea, Milano, Giuffrè, 2002, pp. XVI e s., che scriveva: «Viviamo oggi in un’epoca caratterizzata da rapidi e radicali mutamenti sociali che si svolgono sotto i nostri occhi, un’epoca nella quale il moto della storia ed i cambiamenti che ne conseguono investono inevitabilmente anche le basi del diritto costituzionale e della scienza costituzionalistica: concetti chiave come sovranità, costituzione, fonti del diritto, cittadinanza, diritti fondamentali, non ne possono restare immuni. Oggi più che mai i costituzionalisti debbono ripensare la dogmatica giuridica in una prospettiva dinamica e storica, per fare sì che la dogmatica possa servire al suo scopo, che non è quello di costringere la realtà in schemi assoluti, astratti ed immobili, ma è invece quello di offrire ai giuristi le categorie ed i concetti necessari a comprendere e razionalizzare l’esperienza giuridica». Ancora Panunzio insisterà: per i costituzionalisti s’impone «una grande apertura ai processi di cambiamento e ad un loro inquadramento nella storia». V. anche, dello stesso A., I diritti fondamentali e le Corti in Europa, in ID. (a cura di), I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli, Jovene, 2005, pp. 5-104, nonché F. CERRONE e M. VOLPI (a cura di), Sergio Panunzio. Profilo intellettuale di un giurista, Napoli, Jovene, 2007 ed ivi, in particolare, i contributi di Cerrone, Stammati, de Nitto, Ridola, Cervati, Niccolai e Vespaziani.

5.  Così A. GIULIANI, Contributi ad una nuova teoria pura del diritto, Milano, Giuffrè, 1954, p. 95. Per Giuliani “il mondo del diritto è un mondo di simboli in cui le parole non sono in una esatta connessione con le cose e i fatti simbolizzati; anzi i ‘fatti’ della scienza giuridica sono per l’appunto interpretazioni, significati, valori. Finzioni e metafore nel diritto possono darci soltanto connotazioni, non denotazioni”: ibidem.

6.  Sulla riflessione giulianea v. A.A. CERVATI, Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, cit., passim ma spec. pp. 207 ss., dove è rielaborato il saggio Alessandro Giuliani, il linguaggio giuridico, la storia e il diritto costituzionale, già edito con il medesimo titolo in Ritorno al diritto, 7/2008, pp. 110 ss.; A. de NITTO, A margine di una lettera di Giuliani a Capograssi, in Il diritto fra interpretazione e storia. Liber amicorum in onore di Angel Antonio Cervati, II, Roma, Aracne, 2010, pp. 211 ss.; sia consentito poi anche il rinvio a F. CERRONE, Alessandro Giuliani: un’idea di ragione critica, dialettica e controversiale per il diritto, rinvenibile nella sezione Frammenti di un dizionario per il Giurista dell’Archivio di diritto e storia costituzionali – rivista disponibile sul web – nonché su Sociologia, 2/2009, pp. 43 ss., con il titolo Ragione dialettica e retorica nell’opera di Alessandro Giuliani; ID., Alessandro Giuliani: la storicità del diritto fra logica ed etica, in Il diritto fra interpretazione e storia, II, cit., pp. 1 ss.

7.  Vorrei rinviare ancora a F. CERRONE, Ragione dialettica e retorica, cit., pp. 43 ss.

8.  M. LUCIANI, L’interprete della costituzione di fronte al rapporto fatto-valore. Il testo costituzionale nella sua dimensione diacronica, in Dir. soc., 2009, p. 9.

9.  M. LUCIANI, op.cit., pp. 15 ss.

10.  M. LUCIANI, op.cit., p. 17.

11.  Sulle definizioni dialettiche cfr. A. GIULIANI, The Aristotelian Theory of the Dialectical Definition, in Philosophy and Rhetoric, V, 3/1972, pp. 129 ss.

12.  A. GIULIANI, Logica del diritto. b) teoria dell’argomentazione, in Enc. dir., XXV, Milano, Giuffrè, 1975, p. 16.

13.  A. GIULIANI, Testimonianza e documento, in Bollettino Rotary International, Perugia, Benucci, 1973, p. 10.