Intervento alla Tavola Rotonda “La questione ambientale”, Università di Roma La Sapienza, 15 gennaio 2010

Intervento alla Tavola Rotonda “La questione ambientale”, Università di Roma La Sapienza, 15 gennaio 2010

Il problema ambientale esiste. La sua gravità è alta. Deriva, segnatamente, dall’attività economica degli umani. L’economia è “colpevole”. Al tempo stesso, nell’economia può rinvenirsi, almeno in parte, la soluzione. L’economia da un alto crea il problema, dall’altro può, deve contribuire a risolverlo.
La questione ambientale è antica. Da sempre l’uomo interviene sulla natura, turba l’ambiente. Per questo il professor Malanima, studioso di storia economica, partirà da lontano. Tratterà del configurarsi del problema ambientale nella storia lunga della società umana. In uno dei suoi piccoli libri – Miasmi ed Umori. Ecologia e condizioni sanitarie in Toscana nel Seicento – Carlo Cipolla, illustre cultore di storia non solo economica, ricorda che il 14 luglio del 1622 il Magistrato di Sanità fiorentino così scriveva al Granduca: “Con l’occasione di haver ahuto notizia il Magistrato nostro che in molti luoghi dello Stato si restavano gli abitatori nelle immondezze a gola come si suol dire, per ovviare a tutti li disordini in tempi così pericolosi, con lettera generale in stampa a tutti li rettori, in dì 4 del passato mese di maggio da noi fu ordinato che per parte nostra fosse comandato che tutte le immondezze et spurcitie fossero fatte portar via fuori delle città, terre et castelli del dominio et che nelle case si stesse con quella maggior pulitezza possibile et che sendovi i pozzi neri ripieni si facciano votare” (p. 21).
Nella storia vi è continuità. Al tempo stesso, dobbiamo registrare una profonda, doppia discontinuità, nell’economia e nell’ambiente. Vi è stata una accelerazione del problema ambientale negli ultimi decenni, nell’ultimo secolo, negli ultimi due secoli. La discontinuità è quantitativa, ma anche qualitativa, ed è connessa con la dimensione economica della società.
Cipolla scriveva della Firenze del ‘600, una Firenze decaduta dai fasti quattrocenteschi. Nondimeno, è la Firenze medievale alla quale distinti storici hanno fatto risalire le origini del capitalismo. Armando Sapori le individuava addirittura nel Medioevo alto, o semialto.
C’era mercato allora, non v’è dubbio. Tuttavia non era, quella, un’economia di mercato capitalistica, quale è, invece, il sistema economico nel quale noi viviamo e che ormai si estende al mondo intero, con l’eccezione di pochissimi paesi. Il sistema economico è oggi globale. Si è affermato, in particolare nella versione della produzione di fabbrica, attraverso la Rivoluzione industriale inglese, avviatasi nello scorcio del diciottesimo secolo.
Una delle domande che occorre porsi attiene al modus operandi, di fondo, di questa economia. Esiste un meccanismo insito, radicato, parte ineliminabile di questo modo di produzione che tende di per sé a esasperare il problema ambientale? La risposta è sì. Il meccanismo va oltre il fatto, importantissimo dal punto di vista strutturale, che da duecento anni in termini relativi si produce meno di agricoltura e più di industria – specialmente inquinante – e si produce soprattutto di servizi, in particolare nelle economie più avanzate. In realtà, il tasso di crescita della produzione industriale, pur essendo da decenni inferiore a quello del terziario, è tuttavia ben maggiore di zero: il mondo continua a produrre un ammontare crescente di beni industriali.
Al di là degli incivili che gettano i sacchetti per la strada, il modo di produrre, ciò che si produce, ciò che si consuma configurano esiziali minacce per l’ambiente.
Il meccanismo – lo chiariranno il prof. Musu e il prof. Vercelli, studiosi della economics ambientale – è legato al fatto che in un’economia di mercato capitalistica il danno ambientale non è considerato dalle imprese fra i loro costi.  Dopo Marshall e Pigou, gli economisti, almeno quelli appartenenti a una determinata famiglia di teorie economiche, parlano di esternalizzazione dei costi. Un produttore di merci desiderate dal mercato usa un fattore di produzione che poi scarica nel fiume. Questo costo sociale non è incluso nel conteggio del saldo tra ricavi e spese, dal quale in un’economia di mercato capitalistica scaturisce il profitto. La conseguenza è che il sistema dei prezzi – il regolatore dell’economia di mercato – non dissuade dal produrre troppo di quel bene, e dal produrlo in modi particolarmente lesivi per gli equilibri ambientali.
Il vulnus all’ambiente, l’inquinamento, è una delle tre “i” che caratterizzano il sistema economico nel quale viviamo. La prima “i” sta per “inquinante”. La seconda sta per “iniquo” (la distribuzione del reddito è molto sperequata, sia all’interno delle singole economie, sia se si confrontano i redditi medi pro capite delle diverse economie tra di loro). La terza indica che il sistema economico odierno è “instabile”. Ne abbiamo avuto conferma nel 2008-2009 vivendo la millesima crisi economico-finanziaria sperimentata da singole economie di mercato capitalistiche negli ultimi due secoli.
Si tratta di tre gravissimi difetti. Nondimeno, tutti continuiamo a volere questo sistema economico: inquinante, iniquo, instabile. Compresi i cinesi, nessuno vi rinuncia. La ragione è che esso si è dimostrato eccezionalmente capace – come diceva Marx – di “sviluppare le forze produttive”.
Nota
Trascrizione dell’intervento del Prof. Pierluigi Ciocca al Master universitario di II livello in Diritto dell’Ambiente dell’Università La Sapienza di Roma in occasione della Tavola rotonda “La questione ambientale”.

Il reddito pro capite degli umani non era variato, se non di poco, sino al 1800. Malthus aveva teorizzato – molto correttamente con riferimento al passato – l’invarianza tendenziale del benessere materiale dell’umanità. Negli ultimi 200 anni il reddito medio dei cittadini del mondo si è invece moltiplicato per dieci, per una popolazione a propria volta moltiplicatasi per sei, da 1 miliardo a più di 6 miliardi di persone. Quindi, la produzione mondiale è aumentata di ben 60 volte. Tanto è stato capace di realizzare il sistema economico nel quale viviamo. In termini di efficienza, produttività, reddito, esistono i mezzi per risolvere il problema del vivere materiale dell’umanità, potenzialità prima assolutamente sconosciute. Ma la crescita pregiudica l’ambiente. È questa la contraddizione che vale approfondire.
Secondo alcuni studiosi, se il problema è la crescita, se l’inquinamento nasce dalla crescita, la soluzione consisterebbe nello smettere di crescere o meglio nel decrescere, “serenamente”.
Io penso che questa non sia la soluzione, e che non sia una soluzione praticabile. Anche assumendo che la fata morgana blocchi, e modifichi, la crescita del Pil e che il problema ambientale non si aggraverà ulteriormente, quest’ultimo è già molto grave, in più zone del mondo. Non bisogna solo smettere di inquinare smettendo di crescere. Si può percorrere a piedi il Gange, o quasi. Bisogna anche disinquinare.
Inoltre, la soluzione non è praticabile.
Un primo motivo è che il capitalismo non può non crescere. Una economia di mercato capitalistica stagnante – chimera che ha affaticato le migliori menti dopo Smith e Ricardo – è un ossimoro, una contraddizione in termini, un non-senso! Essa è per natura, per costruzione, per la sua logica interna una formidabile macchina orientata all’accumulazione del capitale, all’accrescimento della produzione.
Inoltre, se la crescita si arrestasse non si risolverebbero, anzi si aggraverebbero, gli altri due problemi, le altre due caratteristiche negative dell’economia di mercato. Il sistema non correggerebbe – addirittura accentuerebbe – la sperequazione distributiva, tra ricchi e poveri, all’interno delle singole economie e soprattutto tra le economie. Oggi c’è, tra la Norvegia, il paese più ricco del mondo, e il Nepal, il più povero, un rapporto di reddito medio pro capite di 70 a 1. Due secoli fa, all’inizio del capitalismo moderno, il rapporto tra il paese più ricco, a quell’epoca l’Olanda o l’Inghilterra, e il più povero, ancora il Nepal, era solo di 4 a 1. Gli statistici dispongono di misure della sperequazione distributiva – come gli indici di Gini e di Theil – le quali dicono che, negli ultimi 200 anni per il mondo nel suo complesso la sperequazione è molto cresciuta, del 30-50 per cento. Robin Hood non può esistere “tra” economie. Immaginare un sistema fiscale che trasferisca le risorse dall’economia norvegese a quella nepalese richiede una fantasia o un ottimismo della volontà davvero straordinari. La correzione delle discrepanze tra paesi può avvenire in un solo modo: con una crescita dei paesi arretrati più rapida di quella dei paesi ricchi.
Se non si può escludere la crescita, non foss’altro perché altrimenti il problema distributivo si acuirebbe, del pari in una economia di mercato capitalistica stagnante si inasprirebbe la instabilità. Un’economia in crescita è più stabile, sia dal punto di vista ciclico, sia da quello della stabilità dei prezzi, sia da quello dei mercati finanziari.
Ciò che è più importante, propendo a credere che solo la crescita può risolvere il problema che la terza “i” evoca. Solo la crescita, infatti, può esprimere le risorse necessarie ad applicare le tecnologie meno nocive per l’ambiente e capaci di riparare i danni ambientali già prodotti.
Esistono queste tecnologie? Sì, queste tecnologie esistono. Se esistono, in termini di “funzione di produzione” il problema è risolvibile. Ma questa è solo una condizione necessaria. Occorrono le risorse. Quante risorse servono per applicare nel mondo le tecnologie “amiche” dell’ambiente? Corrono cifre, da un lato spaventose, dall’altro ridicole. Secondo alcuni studi, un punto percentuale di Pil mondiale all’anno, per 40 anni, basterebbe a introdurre le tecnologie produttive rispettose dell’ambiente. L’un per cento l’anno del Pil mondiale – Pil che è pari a circa 60 mila miliardi di dollari – da un lato è una cifra enorme. D’altra parte, se l’economia mondiale dopo questa recessione ritrovasse un sentiero di crescita normale – 3 per cento l’anno, il tasso sperimentato fino al 2008 – l’un per cento può essere sostenuto, senza regressione nella soddisfazione dei bisogni d’ordine materiale dell’umanità, quale soluzione del problema ambientale.
Decisive diventano allora Politica e Istituzioni. Torniamo là da dove, con il professor Satta, eravamo partiti, al giuridico. Il problema è globale. Va affrontato nei fori nei quali la volontà, la coordinazione, la cooperazione internazionali possono esprimersi al meglio. I fori istituzionali vanno costruiti. Devono essere resi operanti.
È vasta la gamma degli incentivi e delle remore a cui si può far ricorso per cambiare la composizione del prodotto e i modi di produrre nelle direzioni non inquinanti. In più, naturalmente, vi è l’analisi della ricaduta delle misure che all’interno di ogni paese possono essere attuate. Per fare un solo esempio – senza escludere i divieti e le sanzioni, per i quali il diritto rimane lo strumento primario – va coltivata l’idea degli economisti neoclassici di sostituire al “meccanismo” inquinante un diverso meccanismo. Ad esempio, i permessi di inquinare, entro un limite prefissato, pagando un prezzo di mercato, se attecchissero, contribuirebbero a reintrodurre nel conto economico delle imprese le esternalità del danno ambientale.