Il ruolo della giurisprudenza nei sistemi costituzionali multilivello

Ringrazio dell’invito e del tema che mi è stato affidato, che sento particolarmente perché, forse con il tempo, si inizia a riflettere sul proprio ruolo professionale: scegliere quindi un tema come “il ruolo della giurisprudenza negli ordinamenti costituzionali multilivello” nell’ambito di un corso che guarda alle forme di evoluzione degli ordinamenti giuridici è in realtà un regalo fatto a chi viene invitato. È un’occasione rara di poter riflettere su quello che continuamente si va facendo, talvolta in termini non coscienti.
Parlare di questo tema significa parlare di una serie di “coppie oppositive” che, però, si possono in qualche modo drammatizzare o sciogliere.
La prima coppia oppositiva che viene in giuoco è quella antichissima di lex e jus.
Parlare del ruolo della giurisprudenza come formante dell’ordinamento (adesso si usa spesso questa parola: “formante” e non “fonte” dell’ordinamento) significa assegnare alla giurisprudenza un ruolo creativo e costitutivo che, nell’ambito della concezione classica del costituzionalismo, è stato sempre piuttosto in ombra: per Montesquieu il Giudice è “bouche de la loi“, è bocca della legge, un potere neutro; egli è chiamato ad applicare una lex posita da un altro potere. Quindi, la giurisprudenza è relegata, in questa visione, ad un ruolo effettuale: ciò che conta – il nucleo duro della sovranità – è costituito dalla lex, che si accompagna alla primazia del Parlamento, al ruolo del sovrano, al sorgere della Costituzione da un potere monarchico, che nella storia del costituzionalismo moderno va dall’alto verso il basso.
Però, nello stesso tempo qualsiasi operatore del diritto (non solo il Giudice, ma anche l’avvocato o il professore universitario) avverte che l’esperienza giuridica non si può ridurre alla lex.
Questo, per la verità, lo avvertivano anche gli antichi: se vogliamo, la tragedia dell’Antigone di Sofocle è costruita proprio sull’opposizione di lex e jus, e il dramma attuale del rapporto tra politica e giustizia – se vogliamo leggerlo al di fuori della contingenza – è uno degli epifenomeni di questa tensione nel rapporto tra i due termini.
In una delle sue ultime raccolte di scritti Zagrebelsky torna sul tema di Antigone e, per la verità, ci è tornato anche Carbone, nella sua relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario, dicendo che – con Ascarelli – “ad Antigone dobbiamo preferire Porzia”. Ad Antigone dobbiamo preferire i sofismi che Porzia pone in essere nell’interpretazione della legge.
Nella tragedia di Antigone, in realtà – per tornare al punto originario del dissidio tra lex e jus – è facile, nota sempre Zagrebelsky, stare dalla parte di Antigone.
Tuttavia, a veder bene, non è così giusto o scontato, poiché Antigone rappresenta gli antichi mores della città, quindi un insieme di regole non scritte, di abitudini, di istituzioni (le istituzioni sono fatte di abitudini). Antigone rappresenta il lato vecchio della polis, rappresenta cioè quelle regole che trovano fondazione direttamente nel nomos divino. Creonte, invece, con la durezza, la spietatezza, il rigore della legge, è comunque colui che ha innovato, in qualche modo: egli cioè ha posto la volontà umana in una posizione di conflitto consapevole con lo jus. Accade quindi che la giurisprudenza, quando si muove sul versante dello jus, possa avere una funzione conservatrice; e che la legge, invece, svolga una funzione di innovazione.
A questa dialettica noi affidiamo spesso inconsapevolmente questi ruoli.
Sicuramente la ragione moderna ha visto in questi termini la vicenda di sviluppo del potere pubblico: per “ragione moderna” intendo la ragione che sviluppa la storia del costituzionalismo a partire dalle rivoluzioni borghesi, dal ’600 inglese fino alla rivoluzione americana e poi a quella francese.
Nella ragione moderna conta l’autonomia del soggetto individuale e collettivo, e il suo sapersi dare un destino da sé, al di fuori da ogni riferimento ad un’autorità trascendente: quindi la ragione moderna è fondata sulla scelta di Creonte, piuttosto che su quella di Antigone.
Eppure, nella tragedia è chiaro che Sofocle simpatizza con Antigone (tanto che la intitola così) ed anche il coro ne difende le ragioni. Ne deriva che nel momento in cui si laicizza o si secolarizza il potere, qualche cosa nelle comunità richiama sempre l’uomo ad un fondo più oscuro del nostro vivere comune, un fondo che potremmo definire sacrale.
Quindi, il rapporto fra lex e jus è anche il rapporto fra queste due dimensioni della vita: una che muove da un atto di volontà, un’altra che muove dai recessi più nascosti della vita dell’uomo.
Certo, se si drammatizza questo scontro non se ne esce, e si inizia a far avvitare la ragione in una serie di aporie difficilmente risolubili.
D’altra parte, pur ammettendo la durezza della lex, la sua arbitrarietà, il suo essere ricondotta al mero potere, il suo far violenza agli uomini (soprattutto quando è atto di uno solo), non si può neanche – come nota Zagrebelsky – cadere nell’opposta tentazione di fare dello jus una sorta di àncora di salvezza: perché ci sono stati momenti della storia in cui si è fatto appello ai mores, alla libertà, alla creatività dell’interprete e, a ben vedere, questi momenti della storia sono stati anche momenti oscurissimi.
Ad esempio, la scuola del diritto libero in Germania fiorisce con il nazismo e Carl Schmitt certamente ha un’anima oscura (che non è, come è stato detto, un dettaglio “nazi” di un pensiero sfolgorante, è parte della sua ambiguità e contraddittorietà: egli va preso in toto per quello che è). È un uomo che, mentre leggeva la Costituzione di Weimar, ne ricavava tutti i parametri per l’emersione del potere di uno solo. E Zagrebelsky ricorda che dopo l’uccisione di Röhm (il capo delle SA, il corpo paramilitare che circondava Hitler nei giorni della sua “resistibile” – dice Brecht – ascesa) – un atto terribile ordinato da Hitler e l’inizio della sua presa di potere – Carl Schmitt scrisse una difesa pubblica del Führer, e la scrisse in nome dello jus, cioè della possibilità di vedere incarnato al di fuori della norma scritta, in un atto, in un gesto di un uomo potente e capace di mettersi in sintonia con la coscienza del popolo (con il Volksgeist), questo elemento legittimante.
E quindi il fatto, la forza che sta dietro ad ogni ordinamento costituzionale – che qui si aggancia allo jus: non alla lex dunque, bensì al suo lato retrostante – è la forza che direttamente determina le scaturigini della regola. Vi è, dunque, un aspetto infernale sia nella lex che nello jus, e ciò non deve meravigliarci perché – per stare sempre ad un’altra coppia oppositiva – questa vicenda del ruolo della giurisprudenza nell’ordinamento è intrecciata profondamente con la vicenda della natura del potere.
E la natura del potere è demoniaca; anche solo in parte, come ricorda Gerhard Ritter, che pure scrisse durante il nazismo e che teorizzò le due grandi direttrici – altra coppia oppositiva – le quali si contendono il campo della politica occidentale e che non sono indifferenti per l’operare del Giudice. Secondo Ritter, la politica moderna, una volta sganciatasi dal riferimento alla divinità, è dotata di una duplice natura: una natura machiavellica ed una natura erasmiana.
Nella natura machiavellica, il potere giustifica se stesso innanzitutto con riferimento alla sua efficienza. Ciò che conta, quindi, è una condotta capace di conquistare il potere e poi di mantenerlo: la politica è lotta. E Carl Schmitt – uno dei grandi autori del pensiero della crisi, non solo autore di pensieri critici sulla modernità, ma anche teorico fra i più consapevoli del nazismo – ha pensato in termini fortemente machiavellici la vicenda del potere. Il potere è insomma irredimibile, è lotta fra amico e nemico. In questa chiave, bisogna vedere qual è il ruolo del Giudice, un untorello che opera in un luogo – soprattutto se deve dettar regole al potere – assai ostico, assai difficile. Ciò vale soprattutto per i giudici costituzionali, perché questi temi sono di rilevanza costituzionale. Le vicende amministrative sono più facilmente gestibili, riguardando questioni più specifiche o comunque di dimensione inferiore alle vicende di risalto costituzionale.
L’altra faccia del potere, per Ritter, è la faccia erasmiana. Egli analizza Thomas More, l’Utopia, e pensa che ad un certo punto gli uomini abbiano bisogno di sperare; che questa speranza sia sorta non a caso in un’isola (ricompare la distinzione anche in questo contrasto Machiavelli vs. Erasmo, la differenza cioè fra terra e mare: Terra e Mare è infatti un altro scritto di Carl Schmitt). More scrive probabilmente idealizzando alcune caratteristiche della Costituzione britannica, soprattutto lo splendido isolazionismo, la volontà di avere un atteggiamento pacifico in politica estera: da qui il rifiuto della concezione della politica come basata sulla lotta tra amico e nemico e come intervallo fra una guerra e l’altra. More, come Hobbes, aveva terrore delle guerre che si accompagnarono al consolidamento dello Stato e delle monarchie, delle guerre di religione. L’esito del pensiero di Thomas More, come quello di Erasmo, è per Ritter comunque ironico, perché alla fine questa politica così angelicata, così candida, è da lui collocata in un’isola, che è un nessun luogo. Egli sembra in qualche modo fare i conti con la difficoltà di conciliare queste due anime, queste due facce della coppia oppositiva: le quali, peraltro, non si presentano necessariamente associate alla lex o allo jus, ma sono sempre ad essi commiste, perché anche l’esercizio della giurisprudenza, come del potere, è in parte demoniaco, ha una componente demoniaca.
Mi piace pensare che un’altra coppia oppositiva emerga dal pensiero della crisi, dall’analisi dei due pensatori tedeschi – Kelsen e Schmitt – che più hanno riflettuto sulla crisi dello Stato agli inizi del ’900.
Una visione del pensiero giuridico “alla Kelsen” è tutta depurata dal riferimento ad elementi di carattere sociale e culturale, è vista cioè in una logica quasi matematizzante: l’ordinamento è ridotto ad una catena di comandi, e prevale un’accentuazione forte del ruolo della lex. La Costituzione è norma fondamentale (Grundnorm), e non ci si interroga su cosa c’è prima. L’ordinamento è una catena di comandi, e il ruolo del Giudice è quello di concretizzazione del comando. La sentenza è un atto in cui la norma s’incontra con un caso concreto, e l’opera del Giudice non è creativa, bensì di mera sussunzione di una fattispecie concreta in una fattispecie astratta.

All’opposto, Schmitt – più consapevole della lezione di Machiavelli – ci dice che il diritto è qualcosa di terrificante e che esso coincide con la logica della decisione. Anzi, quasi rifiuta il nostro agire così blando per principi (i principi costituzionali – dice Zagrebelsky – non sono l’ossatura di una possibile mediazione tra questi due aspetti orfici del potere). Nella visione di Schmitt, il linguaggio per principi (linguaggio, cioè, che non definisce) è semplicemente la dilazione della decisione: ciò che conta è la decisione. Ogni indagine sul linguaggio, perciò, è in realtà una perdita di tempo, ed il momento della decisione coincide con la fissazione dell’ordine. Nel pensiero della destra politica, ideologica, c’è l’idea che in fondo ci sia un caos originario al quale si deve porre ordine in qualsiasi modo e c’è forse una riflessione sulla natura umana profondamente pessimistica, eppure realistica.
Forse, la radice del pensiero di sinistra (se ancora queste categorie hanno un senso) ha invece un’idea erasmiana della natura umana, alla Thomas More: più ottimistica, però irenica, tanto poi da cozzare con la realtà.
Nello stesso periodo di tempo in cui Kelsen e Schmitt costruivano queste loro potenti visioni del fenomeno giuridico, una terza via veniva elaborata da un pensatore eterodosso, un “filosofo della domenica” (come amava definirsi): Alexandre Kojève. Un esule russo che ad un certo punto, come tutti gli esuli russi, quale ad esempio Nabokov, finisce a Parigi – non certo all’angolo della strada … – a tenere un corso di filosofia alla Sorbona sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel: un corso al quale partecipano tutti i più grandi intellettuali francesi del ’900, i più autorevoli esponenti del pensiero continentale, filosofi, sociologi.
Kojève è anche l’autore di due libri fondamentali per il giurista.
Uno, non tradotto in italiano, è La notion d’authorité: un’indagine sul concetto di autorità, di cui lui elabora molte nozioni, la principale delle quali è l’autorità del Giudice (c’è anche quella del padre, del capofamiglia, dell’amministrazione, etc. …).
Un secondo testo è Linee di fenomenologia del diritto: un lavoro di stampo hegeliano in cui Kojève cerca di superare, come Hegel, le contraddizioni del presente: superare cioè quelle coppie oppositive che concettualmente si presentano ogni volta che leggiamo il fenomeno giuridico e quindi il ruolo della giurisprudenza con tutte le ambivalenze e le ambiguità che questo comporta.
Cosa sostiene Kojève? Che non si può dare fenomeno giuridico senza pensare al terzo. Il diritto, quindi, coincide con lo sguardo del terzo. Ora, che il diritto abbia a che fare con lo sguardo è cosa certa, perché la giustizia è bendata o, quanto meno, così è rappresentata: su questo per la verità non sono d’accordo, credo che il Giudice moderno debba avere lo sguardo ben fisso sulla realtà e che il problema per immunizzare la giurisprudenza da questi lati demoniaci e da queste ambiguità – sia della lex che dello jus – sia il ponte con la cultura, la sua terzietà ed il radicamento costituzionale.
La necessità del radicamento costituzionale sembra una cosa scontata, ma quando ho iniziato la vita professionale l’orizzonte concettuale era profondamente diverso da quello attuale. Negli anni ’70 c’era sicuramente uno Stato robusto in Europa, c’era un benessere materiale solido, c’era l’orgoglio dell’attuazione delle Costituzioni di seconda generazione ed un nesso che sembrava indissolubile tra Costituzione e Stato. Quindi il ruolo del Giudice, come quel terzo che assicura la possibilità stessa del diritto, era saldamente ancorato a questa realtà: esiste un Giudice, pertiene allo Stato, non è il Giudice arbitrale dell’ordinamento romano, non è un Giudice professionale come si pensava potesse essere nell’Europa dell’evo medio, ma è un Giudice burocrate, “sta” nello Stato. Egli per un pezzo è burocrate, per un pezzo è professionista. Il suo ruolo nello jus è guardare le vicende conflittuali dall’esterno e applicare una regola. La Costituzione era vista come l’extrema ratio, un fattore di moderata evoluzione dell’ordinamento, però sempre statuale, solo e soltanto dell’ordinamento statuale. Si poteva parlare di Costituzione tradita o programmatica, ma nessuno metteva in dubbio che fosse nell’ambito dell’ordinamento statuale che essa dovesse avere la sua attuazione e che l’opera del Giudice fosse profondamente legata a questo ordinamento statuale.
Se guardiamo invece a quello che è avvenuto ultimamente, vediamo che il quadro è profondamente mutato, perché il rapporto fra Stato, Costituzione, Giudice non è più lo stesso.
Nella relazione introduttiva per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, singolarmente il Primo Presidente della Corte di Cassazione – pur funzionario in uno Stato nazionale – con molta lucidità ha sottolineato due cose importantissime, che sono collegate a quel fenomeno che si chiama “globalizzazione” e che si traduce in una riduzione delle distanze, dovuta essenzialmente alla trasformazione industriale del mondo ed al suo passaggio ad una economia della conoscenza.

In quest’ambito, in cui sono messi in crisi i confini nazionali (è possibile per noi chattare con amici che stanno dall’altra parte del mondo, o usare Skype), la pretesa disciplinatrice e ordinatrice che lo Stato ha esercitato sulle nostre vite è messa in discussione.
È esplosa, invece, una cultura dei diritti, e questi diritti sono vissuti come una sommatoria di posizioni giuridiche che si possono ricavare dalle varie Costituzioni nazionali, singolarmente prese, in forza anche del Trattato europeo (ma non solo), in una singolare sinergia dovuta all’emergere della nozione di “patrimonio costituzionale europeo, comune”. Quasi che le Costituzioni si fossero disancorate dai territori e, librandosi in uno spazio per ora indefinito, si offrissero ai giuristi come materiali di riflessione per l’edificazione di una grammatica giuridica di cui i giudici nazionali sono i meri terminali in una rete di connessioni che ricorda quella fra i terminali dei computer della rete globale – internet – che domina l’economia o la scienza.
Questo significa che il potere giudiziario, o meglio l’ordine giudiziario, si struttura assai rapidamente e meglio degli altri poteri sovrani (per la verità l’amministrazione segue da vicino, non è molto fuori fase rispetto a questa redistribuzione del paradigma: certo è meglio della legislazione): il potere giudiziario si de-struttura, si de-territorializza, si sgancia dallo Stato, dal territorio e si struttura come potere reticolare.
Qualcuno potrebbe pensare che si stia esagerando: che ne è allora del saldo ancoraggio del giuspositivismo? Non si deve rinunziare al giuspositivismo, ma bisogna scavare dall’interno questa nozione per vedere che cosa ne resta; e ne resta qualcosa di molto diverso da ciò a cui eravamo abituati. Per dare un’idea di questo fenomeno, basterebbe citare l’art. 117 Cost. e, ancora prima, gli articoli che aprono il Titolo V, con il riferimento ai limiti che derivano alla potestà legislativa delle Regioni dai trattati internazionali e dall’esistenza stessa della Comunità europea.
La nostra Costituzione, che conteneva la grande intuizione dell’apertura internazionalistica, si è cioè adattata immediatamente alle caratteristiche dell’ordinamento globale. Il Giudice non può non tenerne conto, perché vede dichiarata nell’art. 117, comma 1, una struttura del sistema delle fonti completamente diversa da quella a cui era abituato, e che opera con strumenti non omogenei, con logiche differenti: ad esempio, sappiamo che una norma interna incompatibile con la Costituzione è annullata dalla Corte costituzionale, una norma interna incompatibile col Trattato CE può essere disapplicata dal Giudice nazionale, una norma interna contrastante con la CEDU è denunciata alla Corte costituzionale usando la CEDU come parametro interposto del giudizio di costituzionalità. Tre regimi differenti, quindi, per uno stesso problema: il contrasto della norma interna con quella di grado superiore o paragonabile alla Grundnorm kelseniana (ma anche a una Grundnorm di un ordinamento giuridico globale, se mai l’avremo).
Non a caso Kelsen si è interessato molto al diritto internazionale: oltre ad aver lavorato per l’edificazione delle Corti costituzionali, ha attivamente teorizzato l’ordinamento internazionale in cui abbiamo vissuto e che oggi è drammaticamente in crisi a causa di una crisi finanziaria che si trascina da anni.
L’apertura internazionalistica, quindi, consente di intravedere già nella trama delle regole costituzionali che il sistema delle fonti è diventato qualcosa di estremamente complesso e che il Giudice “si muove” tra le fonti. E lo fa con una libertà che, però, non va confusa con l’arbitrio: la cassetta degli attrezzi, lo strumentario giuridico è sempre il medesimo, che deriva dalle impostazioni giuspositivistiche. Per interpretare una norma, per la risoluzione dei conflitti e delle antinomie, si usano sempre gli stessi criteri. Ma quello che accade è che gli ordinamenti sono in una posizione di relazione e di integrazione reciproca, e che i linguaggi iniziano a comunicare da un livello ad un altro dell’esperienza giuridica.
E anche le corti iniziano a chiedersi se dalle esperienze giuridiche degli altri Paesi non si possa trarre qualche insegnamento diretto. Ad esempio, una legge che era in discussione negli USA durante la presidenza di Bush aveva lo scopo di vietare alla Corte suprema l’utilizzo di precedenti stranieri, perché in una vicenda la Corte (seppur con la dissenting opinion di un Giudice) aveva citato un caso dello Zimbabwe per dubitare della legittimità dell’esecuzione di una pena di morte a distanza di lungo tempo dai fatti, ritenendo ciò un trattamento inusuale e degradante. Questa citazione – per giunta tratta dalla giurisprudenza dello Zimbabwe nell’ambito della Corte degli Stati Uniti (che pensano evidentemente a se stessi come esercitanti ruolo egemonico a livello mondiale) – aveva fatto storcere il naso ai puristi come pure ai sostenitori della pena di morte.
Quella legge non è passata, però la vicenda è sintomatica della possibilità di far circolare modelli giuridici fra le corti in modo inaspettato.

A questa circolazione noi in Europa siamo in realtà abituati, perché – pur avendo linguaggi differenti che ostacolano la formazione di un’opinione pubblica unitaria – abbiamo però creato istituzioni nelle quali circolano i modelli giuridici. Si tratta di istituzioni prevalentemente giudiziarie, perché il processo costituente europeo ha camminato molto sulle gambe dei giudici: la CGCE, e la Corte di Strasburgo per quanto riguarda la CEDU, sono luoghi in cui si confrontano modelli per esperienze giuridiche differenti, cercando di elaborare una grammatica comune.
Ma anche i giudici costituzionali nazionali possono guardare alle esperienze giuridiche degli altri (si noti: torna il tema dello sguardo), perché guardare l’esperienza giuridica di un altro popolo significa capire meglio se stessi: non bisogna farlo né con uno spirito esterofilo, né con un atteggiamento troppo scettico. Bisogna avere un sano dubbio, cioè mettere le nostre soluzioni alla prova: fare il test.
La Corte costituzionale lo ha fatto, con la sentenza n. 303 del 2003, proprio sul Titolo V: quando si è trattato di ricostruire lo sbilenco sistema che il legislatore costituzionale ci aveva consegnato e di farlo sull’asse più coerente verso un federalismo possibile, la Corte ha dovuto esaminare sistemi generali più maturi del nostro (quello tedesco, quello americano), ricavando da quelle esperienze giuridiche una costante, una sorta di invariante: un momento decisorio di ultima istanza che è affidato a livello nazionale per i problemi che non possono essere risolti a livello locale (per il principio di sussidiarietà ascendente). E questo la Corte ha fatto citando in una sentenza esperienze straniere.
Talvolta fatico a far accettare da qualche Presidente citazioni in lingue che non siano l’italiano: si discute anche se sia ammesso il latino! Da un Presidente che intenda applicare rigidamente i canoni posti dal c.p.c. il latino è meramente tollerato. Le lingue straniere non lo sono, e questo nell’epoca della globalizzazione! Oggi, però, è abbastanza comune trovare nelle sentenze della Corte di Cassazione o del Consiglio di Stato consapevoli ribellioni a questo “nazionalismo del linguaggio”.
Il tema del ruolo della giurisprudenza – sono approdato al nucleo forse più difficile del mio dire – coincide col tema del linguaggio. Più ci penso, più mi convinco che l’esperienza giuridica è essenzialmente un’esperienza linguistica. E non è un caso che una persona ossessionata dal linguaggio come Walter Benjamin si sia molto interessata all’esperienza giuridica, però poi guardando – evidentemente di fronte al nazismo incombente – alla capacità del linguaggio di fare argine alla violenza con un pessimismo tale da risolversi nell’identificazione del diritto con la violenza. Il suo saggio sulla violenza e sul diritto è su una linea che potremmo definire non dissimile da quella schmittiana: però in chiave critica, mentre Schmitt è in chiave apologetica.
Benjamin, quindi, è la vittima che vede esattamente negli stessi termini del suo antagonista il ruolo del diritto nell’epoca dei totalitarismi, la perversione della lex in violenza e ci consegna, tuttavia, una qualche speranza nella possibilità del linguaggio di fare da argine, perché Benjamin scavava nel linguaggio, scavava anche nelle superfici del mondo moderno, andava dentro le mode per scoprire quello che nelle mode c’era di più antico. Pensate agli scritti da lui dedicati alle vetrine delle città moderne, al fatto di passeggiare in queste città dove la moda s’impone perché evoca continuamente citazioni e fenomeni culturali del passato (questa è la grandezza dei creatori della moda che noi ammiriamo).
I giuristi, oggi, fanno un po’ la stessa cosa del flâneur di Walter Benjamin; e lo possono fare perché l’ordinamento, nella sua frammentazione enorme, offre al giurista che non voglia rinunziare minimamente alla cassetta degli attrezzi del giuspositivista la possibilità di passeggiare tra le fonti come il flâneur passeggia tra le vie della città che si modifica in continuazione. Le città si modificano in continuazione, le fonti si modificano in continuazione, gli ordinamenti si aggiungono agli ordinamenti, gli Stati perdono la presa sui territori, il diritto si sgancia dagli Stati e dai territori, i giuristi possono navigare in spazi che non sono consueti.
E in questi spazi dispongono di uno strumento: il linguaggio.
Il linguaggio si concretizza in tre dimensioni nella vita giuridica, fondamentalmente tre: la dimensione dei valori, la dimensione dei principi, la dimensione delle regole.
Per un giurista di diritto positivo tradizionale la cosa più importante è la regola. Ragionare in forma di sentenza è porre in essere un sillogismo. Già Calamandrei aveva parecchi dubbi che fosse così, perché temeva che nella logica motivazionale della sentenza vi fossero elementi di precomprensione, di irrazionalità che scalfivano l’apparente rigore della motivazione sillogistica. Ancora oggi, questo rigore acquieta molti colleghi e non a caso il Primo Presidente della Corte di Cassazione, pur delineando le magnifiche sorti e progressive dello jus globale, ad un certo punto dice, forse spaventato del suo stesso ardire: “dobbiamo preferire Porzia, perché poi ha salvato il suo amante con un sofisma giuridico, ad Antigone, che si è opposta alla lex”; e non ci si può opporre alla lex, tanto meno se si ha un compito nomofilattico …

Oggi, tuttavia, abbiamo un’opportunità, senza in nulla rinunciare allo strumentario giuspositivistico e ai canoni tradizionali dell’interpretazione (criterio cronologico, principio di specialità, catena gerarchica delle fonti dove ancora può valere, principio di competenza, che nell’ordinamento multilivello vale ancor più del precedente): in questo nuovo modo d’intendere l’ordinamento vigono i principi, non più le regole.
Principi e non valori, perché i valori sono pregiuridici e sono il risultato, il bene finale. Sui valori non si discute, ma ci si conta, e i valori vengono vissuti emozionalmente: certe volte non sappiamo neanche perché li accettiamo. Fra l’altro, convivono in noi molteplici valori: libertà ed eguaglianza, sicurezza e garanzie, vogliamo il rigore ma anche la pietas per chi poi incappa nei rigori della legge. Vogliamo tante cose complesse insieme. Prese isolatamente, le enunciazioni, le direttive incentrate sui valori nelle società pluraliste portano al conflitto. I valori possono essere solo sbandierati e nel momento in cui sono sbandierati non servono a risolvere i conflitti.
Contano, invece, i principi, perché essi sono un bene iniziale: non sono solo la democrazia procedurale di Norberto Bobbio. Se si legge l’ultima riflessione di Zagrebelsky (il quale si forma a Torino, come Bobbio), si vede lo sforzo continuo di dare una valenza, una base sostantiva al costituzionalismo moderno: cosa che negli studi di Bobbio talvolta manca, perché per Bobbio la democrazia è una idea procedurale, sulla quale tutti si può essere d’accordo. Lo sforzo è quello di fare un passo in avanti e vedere se noi possiamo costruire – perché ne abbiamo bisogno –un ethos diverso della democrazia costituzionale, che è cosa molto più difficile, per giunta nell’epoca della crisi dello Stato e della globalizzazione.
È una specie di opera da funamboli, lo sforzo del giurista di tenersi in equilibro tra queste forze contrapposte: ma è un’opera comunque possibile, ed il tratto distintivo di una democrazia costituzionale sostantiva Zagrebelsky lo individua proprio nel diritto per principi. Principi plurali sanciti dalle Costituzioni intese come pragmatici compromessi, Costituzioni che non sono più quelle di durata relativa (una volta, all’inizio dell’esperienza rivoluzionaria borghese, le Costituzioni avevano un orizzonte temporale limitato, non duravano più di vent’anni, perché non c’era l’idea che una generazione potesse dire ad un’altra cose che andavano bene per tanto tempo: ecco perchè le Costituzioni si cambiavano come le leggi, e non erano rigide), ma hanno un orizzonte più lungo e sono rigide. La Costituzione deve essere mantenuta, però è aperta. È destinata a durare, viene prodotta nei momenti di collasso dei sistemi, momenti che costano molto alle società e per i quali non siamo disposti a pagare i relativi costi.
La Costituzione, ad ogni modo, garantisce la pace. Il Trattato di stampo costituzionale dell’Europa ha garantito la pace per un lungo periodo e i principi confliggenti che noi troviamo nella Costituzione si pongono come basi, come punti di partenza di un lavoro, non come risultati finali, come valori da affermare: sono – lo ripeto – punti di partenza. E confliggono fra loro, perché noi troviamo nella Costituzione, ad esempio, la libertà di impresa e la tutela dell’ambiente, senza sapere quale delle due possa valere di più.
Se prendiamo queste due polarità come valori, non troviamo mediazioni. Se esse sono principi, sappiamo che vanno ponderati ed il luogo della ponderazione è quello giudiziario. Altro che Giudice “bocca della legge”! I principi vanno mediati con un’opera che è creativa. Ed è creativa perché opera sul linguaggio, seppur col rigore di chi fa incontrare il principio con la regola, anche perché le regole continuano ad esistere, ce le hanno regalate nell’’800. Le regole migliori sono state costruite allora.
In questo meccanismo così spaventevole della modernità, allora, il Giudice ha il ruolo di comporre dei principi a mezzo del linguaggio, ed è un ruolo che è continuamente contestato perché è creativo, anche se nessuno lo può dire con franchezza, apertamente. È un ruolo di completamento della decisione politica negli spazi in cui la decisione politica non è riuscita ad arrivare né poteva arrivare. Luhmann diceva che il sistema giudiziario è il sottosistema del sistema politico, affermazione che contiene un nucleo di verità dove ci mostra che il diritto ha questa funzione di integrazione. E chi studia la fenomenologia del diritto si rende conto che non basta più il riferimento alla norma, ma occorre il riferimento alla effettività. Ascarelli ha parlato del diritto vivente e la forma del diritto vivente è entrata nell’armamentario concettuale delle nostre Corti costituzionali per guidarle nella loro opera di decisione.
Ponderare principi significa aprire il mondo giuridico a fenomeni culturali nel senso esattamente pensato da Häberle quando ha parlato della Costituzione come scienza della cultura e dei fenomeni culturali.
Però, anche qui bisogna intendersi: che la Costituzione abbia questo tipo di fondamento non significa, poi, che l’apertura possa essere indeterminata, cioè che si possa fare tutto ciò che si vuole come se ci riferissimo ad una sorta di diritto naturale. Qui torna una nozione che riemerge spesso, perché la modernità, oltre ad avere la caratteristica di essere spaesante (perché vi interviene una modificazione incessante), oltre ad essere entusiasmante (perché tale modificazione incessante porta sempre nuove possibilità per l’uomo), è anche qualche volta orrificante o orripilante, perché è basata sul nulla, perché noi scopriamo che le nostre decisioni, anche quelle politiche, hanno sempre alla base una radice nichilistica, che Irti ha indagato da par suo.

Questa radice nichilistica è combattuta dal neogiusnaturalismo, che non ha certo Ratzinger fra i suoi seguaci, nei cui scritti sul diritto naturale si legge che esso – inteso come produzione culturale, non certo come messaggio divino – è uno strumento spuntato, un’arma spuntata. Con riferimento alla mutabile natura umana e al messaggio divino c’è tutto un filone di pensiero costituzionalistico – si pensi a Böckenförde – che sostiene la paradossalità di un fondamento dei diritti umani che voglia prescindere da un riferimento alla trascendenza. Se le nostre Costituzioni sono rigide, tanto da essere in alcune parti assolutamente immodificabili – non solo la forma repubblicana, ma soprattutto i diritti inviolabili dell’uomo – il fondamento dell’inviolabilità non può risiedere, per la contraddizione che non lo consente, altro che in una dimensione trascendente – cioè non storicamente – posta. E quindi la Costituzione farebbe – per così dire – delle promesse che non può mantenere: in questa chiave concettuale, la Costituzione moderna prometterebbe un’inviolabilità che non può mantenere, perché è essa stessa esposta alle forza umane della storia, e il solo modo per sottrarla è assicurarle un fondamento trascendente.
Ora, a questa dimensione concettuale, a questo tipo di lettura che fa tornare in auge il diritto naturale – lettura che ha delle caratteristiche di profonda serietà, che fanno riflettere sui limiti del nostro costituzionalismo e anche sulla natura sacrale del fondamento pregiuridico del costituzionalismo, che è la stessa natura sacrale dello jus, se vogliamo – si può rispondere con una riflessione che non ci porti fuori dall’orizzonte secolare e laico.
Come? Notando che oltre una certa misura il diritto naturale irrigidisce le posizioni. Un conto è identificare il diritto naturale con una sorta di emozione o di natura emozionale di ciascuno di noi, per cui l’uomo per sua natura reagirebbe alle ingiustizie: ritenere insomma che una sorta di moderno giusnaturalismo sia quello che rifiuta le ingiustizie e quindi si identifica nel Cristo come paradigma dell’uomo che è stato ingiustamente crocifisso e la cui situazione va rifiutata; nel Cristo, cioè, come soggetto nel quale si possono vedere le vicende di ciascuno degli ultimi, a partire dai quali si deve dunque interpretare ogni norma. Altro conto è assumere nell’ambito del diritto naturale un corpus di fedi, di religioni, di credenze. Questo, in una società globale, multiculturale, multireligiosa, ci porterebbe in un vicolo cieco, al conflitto e allo scontro inevitabile dei valori.
Quindi, c’è un riferimento al diritto naturale, ma non a quello cui siamo abituati – quello tradizionale che ha accompagnato la storia del diritto positivo in tutto l’evo medio – ma ad una sorta di canone etico, di esigenza etica che informa di sé tutta l’esperienza giuridica e che potremmo definire come il tentativo di un sano rifiuto dell’ingiustizia legata alla consumazione soprattutto della violenza arbitraria. Su questo, che però è un canone minimale, potremmo anche essere d’accordo come giuristi. Oltre questo limite le questioni diventerebbero più difficili. Cioè, se assumessimo il diritto naturale come corpus di fedi e dovessimo poi applicarlo alle situazioni che la bioetica ci pone innanzi (come l’eutanasia), il dissidio prevarrebbe sulla possibilità di composizione.
Il diritto per principi, quindi, pone innanzi a noi una possibilità di una franca ammissione del ruolo creativo della giurisprudenza: la quale nell’ordinamento giuridico costituzionale multilivello ha un ruolo creativo, e ce l’ha perché opera con fenomeni linguistici, perché il linguaggio non ha nessuna univocità di significati ma ha una pluralità di significati dipendente dai contesti culturali, ed i contesti si presentano oggi interdipendenti in un mondo globalmente aperto.
Anche le tecniche dell’interpretazione rivelano questo tasso di creatività e lo ammette lo stesso legislatore perché nell’art. 12 delle preleggi, che canonizza l’illusione di poter metter regole all’attività interpretativa e quindi creativa del Giudice, in realtà ci sono regole straordinarie che permettono la creatività del Giudice.
C’è, per esempio, il metodo del riferimento ai principi generali: al di là delle formule di interpretazione letterale, sistematica, teleologica, riduttiva, estensiva (metodiche tradizionali attinenti al testo), ci sono dei riferimenti alle metodiche interpretative extratestuali come, appunto, il riferimento ai principi generali e ancor più l’analogia.
In un’epoca, tra l’altro, come questa, in cui c’è lo scontro – che Irti vede con lucidità – tra la tecnica e la politica, la politica sta dietro a fatica alla tecnica, e la politica è all’origine del mito moderno dell’autodeterminazione dell’uomo come singolo e come collettività.
Quindi, la vicenda che si è aperta con le rivoluzioni borghesi nel ’700 è fondata sul mito della politica assoluta, oggi in crisi nettissima. Peraltro il decennio appena trascorso è molto istruttivo da questo punto di vista, perché è un decennio nel quale anche la tecnica che si è proposta come funzione trainante della società moderna e globalizzata ha consumato la sua crisi (pensiamo alla crisi finanziaria: è essenzialmente crisi dell’autoregolazione dei mercati, e quindi della tecnica dell’autoregolazione dei mercati, e del mito della regolazione tecnica degli stessi attraverso le Amministrazioni indipendenti): anche la tecnica, cioè, ha esaurito la sua spinta produttiva.

Insieme, nelle sue due forze che si propongono per uno scontro immane, l’Occidente vive un momento che vede consumarsi la vicenda dell’una e dell’altra. La politica ha un problema in più rispetto alla tecnica, però, che è il problema della sua inadeguatezza spaziale, poiché essa è ancora richiusa nei confini nazionali. Quindi, l’idea di sovranità è oggi superata solo dai tentativi modesti dell’emersione di luoghi di concertazione o coordinamento fra le sovranità nazionali (i famosi G2, G7, G8, G20 che modulano continuamente le loro decisioni). I Ministri si vedono sempre, non si sa mai bene perché, ma ciò è importante perché danno un messaggio rassicurante: “non ci faremo più la guerra”.
Tuttavia, non basta questo messaggio per governare una società complessa, ma occorre passare ad una pars costruens. Non basta, cioè, che si siano globalizzate le forze giuridiche degli Stati, che circolino le esperienze giuridiche e le esperienze delle Corti costituzionali e che si cerchi un patrimonio costituzionale comune: anche perché esso, al di fuori dei paesi occidentali, non c’è.
Drammaticamente, c’è una divaricazione delle esperienze giuridiche con il mondo islamico o con il mondo in gran parte sconosciuto dell’Asia e delle sue Costituzioni, le quali hanno in Giappone una certa origine, in Cina un’altra. Sono culture profondissime con le quali occorrerebbe iniziare a confrontarsi, per non scontrarsi.
È quindi chiaramente necessario che la politica trovi il luogo di governo del mondo globalizzato in un ambito che non è, oggi, ancora visibile. Questo è quello che abbiamo davanti. Nello stesso tempo, però, sta accadendo che alcuni pezzi del mondo istituzionale riescono a stabilire delle connessioni interessanti che fanno intravedere – per così dire – un possibile ordine giuridico futuro diverso.
Cassese ha però parlato, a questo proposito, di Tribunali di Babele, intendendo dire che si è creata una situazione molto simile a quella dei grandi tribunali del medioevo: una valutazione interessante. Nel medioevo il diritto era sganciato dal territorio, ogni persona si portava dietro il suo status, i tribunali decidevano secondo il diritto personale o singolare e spesso c’era un problema di conflitti fra giudicati.
Ora il problema del conflitto fra i giudicati esiste come esisteva nel medioevo, perché esistono tante Corti, ognuna delle quali sviluppa il proprio discorso giuridico, ognuna della quali è accessibile al cittadino inserito negli organi del costituzionalismo multilivello e, alla fine, ancora non si è stabilito qual è la Corte che prevale. Tendenzialmente un ordine, una gerarchia c’è: probabilmente la Corte prevalente è la Corte di Strasburgo, perché Strasburgo – il Giudice della CEDU – è la Corte delle Corti, anche se non coincidono gli ambiti soggettivi, in forza di un autolimite che gli Stati si sono posti nelle Comunità europee, per lo meno nell’ambito regionale dell’Europa, perché gli organi comunitari hanno deciso che devono rispettare la normativa della CEDU negli atti loro propri e, quindi, hanno ammesso con ciò la necessità di rispettare i diritti fondamentali, che non sono solo quelli del trattato di Nizza oggi codificati nel trattato di Lisbona, ma sono proprio precetti che hanno immediata efficacia. E questa efficacia è stata poi riconosciuta dalla Corte di Cassazione nelle sentenze sull’occupazione acquisitiva (sentt. nn. 348 e 349 del 2007).
Dunque, abbiamo una situazione nella quale tendono, nella babelicità dei loro ruoli, a strutturarsi ruoli gerarchici: la Corte di Strasburgo difende i diritti fondamentali e quindi è al vertice del sistema; la CGCE si ritaglia il ruolo di Giudice del mercato e dei diritti sociali in futuro; i giudici nazionali sono i terminali di questo sistema.
I giudici nazionali, a livello costituzionale, hanno un compito importante, quello di reagire facendo presente che esistono anche delle peculiarità delle tradizioni costituzionali nazionali: in tal modo rinascono, o riprendono attualità, tutte le questioni relative ai controlimiti.
Tale teoria ha preso vigore perché, ad un certo punto, in questo costituirsi a rete delle grandi Corti, ci si è chiesti se sia davvero possibile che noi dobbiamo rinunziare al ruolo dello Stato ed alle nostre identità.
Invero, ci sono differenze tra noi e gli altri, e quando queste differenze sono evidenti, noi possiamo farle valere con qualche successo forse invocando la teoria dei controlimiti: si pensi alla vicenda del crocifisso, in cui è chiaramente emerso che la cristianità è una delle matrici delle idee d’Europa, ma non è certo stata vissuta allo stesso modo in tutta Europa. C’è stata la riforma c’è stata la controriforma, ci sono state chiese luterane, calviniste e la chiesa cattolica, ed ognuna permea di sé la vita di una comunità e determina diverse sensibilità rispetto al fenomeno religioso.
Così, se ragionassimo in termini di valori, in una società multiculturale pluralistica anche l’esasperazione della secolarizzazione non ci porterebbe molto lontano: se volessimo scegliere la via francese, per esempio, e ammettessimo che la laicità ha da essere intesa come principio supremo dell’ordinamento assolutamente non ponderabile con altre esigenze (quelle attinenti alla dimensione pubblica delle diverse fedi), noi dovremmo desertificare la sfera pubblica da ogni simbolo religioso. E siamo proprio sicuri che questa desertificazione della sfera pubblica da ogni simbolo religioso ci porterebbe ad una miglior coesistenza delle fedi? Se è quello l’obiettivo, forse la via più fruttuosa è quella che accetta le diversità e la manifestazione di queste diversità fino a quando non diventi prevaricante rispetto alle altre (infatti il problema è l’ostentazione del simbolo, il luogo ed il contesto in cui esso va esibito e così via).

Questi sono temi delicatissimi che ogni Corte costituzionale nazionale può interpretare a suo modo, perché esistono diverse sensibilità nazionali. Quindi, le tradizioni costituzionali nazionali non scompaiono in questa molteplicità dei modelli giuridici, non si chiudono più come in passato in un ordine unitario, non sono forse più possibili esperienze giuridiche chiuse. Con ciò non dobbiamo rinunciare all’idea del sistema: il sistema rimane sempre la base dell’intelaiatura, come il giuspositivismo non va abbandonato come ancoraggio. Ma dobbiamo far qualcosa di più di quel che ha fatto Porzia, più dell’interpretazione letterale, dobbiamo avere il coraggio di aprire la funzione del giurista – e del Giudice in particolare – alla vitalità dei principi costituzionali, che non sono più solo quelli nazionali e che vanno confrontati in tutte le tradizioni giuridiche, in tutti i linguaggi possibili.
E sul piano delle conseguenze politiche di questa situazione babelica, si vede che la politica fatica a trovare il luogo della composizione e reagisce spesso chiudendosi – rischio gravissimo – nella rivendicazione dello stato d’eccezione (torna Schmitt…), nella decisione efficiente sol perché urgente, resa con decreto urgente. Non a caso poi il Custode della Costituzione analizzava la decretazione d’urgenza che era compito del Presidente della Repubblica di Weimar: nelle fasi di crisi è inevitabile che si faccia riferimento a poteri eccezionali.
Una politica che non ha dimensione spaziale adeguata si rifugia, quindi, nella decretazione urgente, perché essa dà ancora un’impressione di avere una presa sulla realtà, ma questa presa sulla realtà è contingente, perché la struttura e la dimensione dei problemi sfuggono a questa sua capacità ordinatrice: continuano a sfuggire perché eccedono i confini dello Stato nazionale con riferimento a molti temi (si pensi ai temi della sicurezza, dell’immigrazione, dell’ambiente), i quali richiedono un’estrema cooperazione tra ordinamenti giuridici diversi. Qui speriamo che – essendovi forme di cooperazione visibili nel mondo delle amministrazioni e nel mondo giudiziario – il dialogo continuo e l’incontro continuo fra i leader del mondo eviti gli arroccamenti e le chiusure che nei momenti di crisi del passato – soprattutto nella crisi del ’29 – hanno avuto esiti nefasti.
Ed è auspicabile che, nel dialogo continuo, ci si ponga il problema della necessità di individuare un percorso, perché senza politica e senza lex il Giudice fallisce il suo compito; il Giudice è solo, e non può farcela neanche nell’ordinamento globale disegnato dal Primo Presidente Carbone: penso che sia necessario porre la regola. Il Giudice non può rifiutare nel frattempo la decisione (questo è un altro dei drammi del ruolo della giurisprudenza in questa fase storica: la politica può differire le scelte quando non riesce a trovare un compromesso, ma il Giudice deve rispondere alla domanda di tutela) e spesso nell’ordinamento sono mantenute indicazioni, direttive e prescrizioni antinomiche, di fronte alle quali il Giudice trova il modo di ponderarle con i principi: egli attiva il circolo ermeneutico. Il Giudice, cioè, parte dal caso concreto, lo paragona al principio, e il principio illumina la regola: qualcosa di molto diverso dalla sussunzione, insomma.
Nel circolo ermeneutico è il caso concreto che fa in qualche modo emergere la razionalità della regola, perché essa si armonizza con il contenuto del principio che stiamo utilizzando al fine di risolvere nel modo più adeguato possibile la controversia. Ciò non basta, perché la capacità ordinatrice del diritto deve essere esercitata nella dimensione sua propria, adeguata al progetto moderno: che deve continuare (magari senza le asprezze della politica assoluta), ma è un progetto di autodeterminazione delle collettività, non di frammentazione pulviscolare degli interessi in un mondo solo caratterizzato dalla presenza dell’amministrazione e della giurisdizione.
Quindi in un mercato che non si autoregoli, ma che venga regolato da una politica capace – non dico di essere uno Stato mondiale (sarebbe una utopia) – ma di trovare almeno le nuove coordinate della spazialità e della normazione adeguate al tempo in cui viviamo, credo che il compito dei Giudici si farà più fisiologico; e molti dei conflitti che noi oggi viviamo – che sono la conseguenza di questa ipocrisia per cui non vogliamo ammettere la creatività del ruolo del Giudice – si andranno stemperando, perché la politica avrà ripreso il ruolo che le è proprio e la giurisdizione non potrà che seguire, essendo un sottosistema del sistema politico.