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Il ruolo della giurisprudenza nei sistemi costituzionali multilivello

di - 10 Marzo 2010
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Insieme, nelle sue due forze che si propongono per uno scontro immane, l’Occidente vive un momento che vede consumarsi la vicenda dell’una e dell’altra. La politica ha un problema in più rispetto alla tecnica, però, che è il problema della sua inadeguatezza spaziale, poiché essa è ancora richiusa nei confini nazionali. Quindi, l’idea di sovranità è oggi superata solo dai tentativi modesti dell’emersione di luoghi di concertazione o coordinamento fra le sovranità nazionali (i famosi G2, G7, G8, G20 che modulano continuamente le loro decisioni). I Ministri si vedono sempre, non si sa mai bene perché, ma ciò è importante perché danno un messaggio rassicurante: “non ci faremo più la guerra”.
Tuttavia, non basta questo messaggio per governare una società complessa, ma occorre passare ad una pars costruens. Non basta, cioè, che si siano globalizzate le forze giuridiche degli Stati, che circolino le esperienze giuridiche e le esperienze delle Corti costituzionali e che si cerchi un patrimonio costituzionale comune: anche perché esso, al di fuori dei paesi occidentali, non c’è.
Drammaticamente, c’è una divaricazione delle esperienze giuridiche con il mondo islamico o con il mondo in gran parte sconosciuto dell’Asia e delle sue Costituzioni, le quali hanno in Giappone una certa origine, in Cina un’altra. Sono culture profondissime con le quali occorrerebbe iniziare a confrontarsi, per non scontrarsi.
È quindi chiaramente necessario che la politica trovi il luogo di governo del mondo globalizzato in un ambito che non è, oggi, ancora visibile. Questo è quello che abbiamo davanti. Nello stesso tempo, però, sta accadendo che alcuni pezzi del mondo istituzionale riescono a stabilire delle connessioni interessanti che fanno intravedere – per così dire – un possibile ordine giuridico futuro diverso.
Cassese ha però parlato, a questo proposito, di Tribunali di Babele, intendendo dire che si è creata una situazione molto simile a quella dei grandi tribunali del medioevo: una valutazione interessante. Nel medioevo il diritto era sganciato dal territorio, ogni persona si portava dietro il suo status, i tribunali decidevano secondo il diritto personale o singolare e spesso c’era un problema di conflitti fra giudicati.
Ora il problema del conflitto fra i giudicati esiste come esisteva nel medioevo, perché esistono tante Corti, ognuna delle quali sviluppa il proprio discorso giuridico, ognuna della quali è accessibile al cittadino inserito negli organi del costituzionalismo multilivello e, alla fine, ancora non si è stabilito qual è la Corte che prevale. Tendenzialmente un ordine, una gerarchia c’è: probabilmente la Corte prevalente è la Corte di Strasburgo, perché Strasburgo – il Giudice della CEDU – è la Corte delle Corti, anche se non coincidono gli ambiti soggettivi, in forza di un autolimite che gli Stati si sono posti nelle Comunità europee, per lo meno nell’ambito regionale dell’Europa, perché gli organi comunitari hanno deciso che devono rispettare la normativa della CEDU negli atti loro propri e, quindi, hanno ammesso con ciò la necessità di rispettare i diritti fondamentali, che non sono solo quelli del trattato di Nizza oggi codificati nel trattato di Lisbona, ma sono proprio precetti che hanno immediata efficacia. E questa efficacia è stata poi riconosciuta dalla Corte di Cassazione nelle sentenze sull’occupazione acquisitiva (sentt. nn. 348 e 349 del 2007).
Dunque, abbiamo una situazione nella quale tendono, nella babelicità dei loro ruoli, a strutturarsi ruoli gerarchici: la Corte di Strasburgo difende i diritti fondamentali e quindi è al vertice del sistema; la CGCE si ritaglia il ruolo di Giudice del mercato e dei diritti sociali in futuro; i giudici nazionali sono i terminali di questo sistema.
I giudici nazionali, a livello costituzionale, hanno un compito importante, quello di reagire facendo presente che esistono anche delle peculiarità delle tradizioni costituzionali nazionali: in tal modo rinascono, o riprendono attualità, tutte le questioni relative ai controlimiti.
Tale teoria ha preso vigore perché, ad un certo punto, in questo costituirsi a rete delle grandi Corti, ci si è chiesti se sia davvero possibile che noi dobbiamo rinunziare al ruolo dello Stato ed alle nostre identità.
Invero, ci sono differenze tra noi e gli altri, e quando queste differenze sono evidenti, noi possiamo farle valere con qualche successo forse invocando la teoria dei controlimiti: si pensi alla vicenda del crocifisso, in cui è chiaramente emerso che la cristianità è una delle matrici delle idee d’Europa, ma non è certo stata vissuta allo stesso modo in tutta Europa. C’è stata la riforma c’è stata la controriforma, ci sono state chiese luterane, calviniste e la chiesa cattolica, ed ognuna permea di sé la vita di una comunità e determina diverse sensibilità rispetto al fenomeno religioso.
Così, se ragionassimo in termini di valori, in una società multiculturale pluralistica anche l’esasperazione della secolarizzazione non ci porterebbe molto lontano: se volessimo scegliere la via francese, per esempio, e ammettessimo che la laicità ha da essere intesa come principio supremo dell’ordinamento assolutamente non ponderabile con altre esigenze (quelle attinenti alla dimensione pubblica delle diverse fedi), noi dovremmo desertificare la sfera pubblica da ogni simbolo religioso. E siamo proprio sicuri che questa desertificazione della sfera pubblica da ogni simbolo religioso ci porterebbe ad una miglior coesistenza delle fedi? Se è quello l’obiettivo, forse la via più fruttuosa è quella che accetta le diversità e la manifestazione di queste diversità fino a quando non diventi prevaricante rispetto alle altre (infatti il problema è l’ostentazione del simbolo, il luogo ed il contesto in cui esso va esibito e così via).

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