Il ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici

1. Dalla legge delega 6 marzo 2009, n.15 al decreto legislativo di attuazione. – 2. L’interesse protetto dal ricorso per l’efficienza dell’amministrazione e la disciplina della legittimazione attiva. – 3. L’interesse a ricorrere. – 4. La legittimazione passiva. – 5.  I tratti di specialità del procedimento. Conclusioni.

1. Alla scadenza del termine fissato per l’esercizio della delega conferita dall’art. 4, lett. l) della l. 6 marzo 2009, n. 15, è stato emanato il decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198 che reca la disciplina del ricorso per l’efficienza dell’amministrazione e dei concessionari di servizi pubblici[1].
Nel disegno complessivo della legge delega, l’azione rappresenta il tassello di chiusura “del sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti dell’amministrazione pubbliche” finalizzato ad “assicurare elevati standard qualitativi ed economici dell’intero procedimento di produzione del servizio reso al’utenza tramite la valorizzazione del risultato reso dalle singole strutture”.
L’idea di fondo è cioè che l’attività amministrativa possa essere concepita, nel suo complesso, come una attività di erogazione di prestazioni,[2] sottoposta a criteri oggettivi di valutazione secondo indici di produttività e standard di qualità. In questa ottica, è sembrato altresì opportuno al legislatore introdurre un apposito “mezzo di tutela giurisdizionale degli interessati nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari di pubblici servizi che si discostano dagli standard qualitativi ed economici fissati o che violano le norme preposte al loro operato”.
Secondo le indicazioni della delega, i singoli interessati, nonché le associazioni ed i comitati a tutela degli interessi dei propri associati, sono legittimati ad agire in giudizio contro le amministrazioni ed i concessionari di servizi pubblici che non abbiano rispettato i canoni qualitativi e quantitativi loro imposti. Il giudice, investito di una giurisdizione esclusiva e di merito, ha il potere di adottare tutte le misure idonee a porre rimedio alla violazione degli standard fissati e degli obblighi contenuti nella carte dei servizi, nonché all’omesso esercizio dei poteri di vigilanza, di controllo o sanzionatori, anche tramite la nomina di un commissario ad acta.
Lo scopo, che il legislatore della delega ha di mira,  è dunque quello di apprestare una tutela giurisdizionale in forma specifica agli interessi dei cittadini –utenti. La tutela è somministrata dal giudice amministrativo, il quale – nell’ambito di una giurisdizione che è esclusiva e di merito – può disporre le misure più idonee a garantire un risultato di  efficienza nella produzione delle prestazioni pubbliche[3].
In estrema sintesi, sono questi i tratti essenziali del procedimento, subito battezzato azione collettiva correttiva del malfunzionamento dell’amministrazione[4] o class action amministrativa, con termine probabilmente improprio, ma che sottolinea in modo significativo la originalità dell’istituto.
Il rimedio è difatti senz’altro nuovo, nel quadro tradizionale del processo amministrativo, come giurisdizione di legittimità[5]. Ma nuova è anche l’idea di ricondurre al diritto e all’esercizio della giurisdizione gli episodi di disfunzione amministrativa[6], tendenzialmente confinati al livello del fatto e sottoposti a controlli di tipo repressivo-punitivo del giudice contabile e del giudice penale.
Al tempo stesso, l’azione per l’efficienza dell’amministrazione, specie per come in concreto disciplinata dal decreto di attuazione, presenta non pochi profili di ambiguità.
I criteri direttivi dettati dalla legge delega, ma anche il titolo del decreto di attuazione[7] e la finalità assegnata all’azione, di “ripristinare il corretto svolgimento della funzione e la corretta erogazione di un servizio[8], lasciano pensare che il bene oggetto di tutela coincida con l’efficienza dell’amministrazione, intesa come bene collettivo o come interesse ultraindividuale.
La disciplina processuale, sotto più aspetti riduttiva rispetto a quel che avevano fatto presagire le stesse indicazioni della delega, disegna un tipo di ricorso rivolto, piuttosto, alla tutela di diritti individuali omogenei, alla erogazione di prestazioni pubbliche secondo standard di qualità predefiniti. La dimensione collettiva del fenomeno è costituita esclusivamente dalla circostanza che i diritti individuali alle prestazioni pubbliche si ritrovano – con identico contenuto – in capo ad una pluralità di soggetti.
Il secondo aspetto non risolto è quello relativo ai poteri del giudice. Per l’art. 4, lett. l) della legge delega la giurisdizione è esclusiva e di merito. All’esito del giudizio, il giudice individua le misure idonee a porre rimedio alle violazioni, alle omissioni o ai mancati adempimenti ed ordina alle amministrazioni ed ai concessionari di porle in essere, disponendo la nomina di un commissario, nei casi di perdurante inadempimento.

Per il legislatore delegato la giurisdizione attribuita al giudice amministrativo è, viceversa, esclusiva, ma non di merito. Il giudice, se accerta la violazione “ordina alla pubblica amministrazione o al concessionario di porvi rimedio”, lasciando intatta la discrezionalità dell’amministrazione e la autonomia del concessionario circa la individuazione delle misure più idonee. L’esercizio di poteri sostitutivi e di merito resta confinato alla fase dell’ottemperanza, ora esecuzione, ma questa non rappresenta certo una peculiarità del rimedio.
In buona sostanza, l’istituto, delineato dalla legge delega, assume quasi i connotati di una azione popolare per l’efficienza nella erogazione delle prestazioni pubbliche, azione affidata all’iniziativa delle associazioni esponenziali degli interessi dei consumatori e del cittadino-utente, legittimato ad agire nella sua veste di appartenente alla collettività.
Il modello, cui il legislatore delegato ha dato vita, è notevolmente diverso.
La giustificazione della scelta risiede probabilmente nel pericolo di un uso distorto ed eccessivo dell’istituto[9]. Il prezzo è quello di una scarsa efficacia pratica.

2. E’ opportuno, a questo punto, fermare l’attenzione sui punti più significativi della disciplina introdotta dal decreto di attuazione, che avvalorano il giudizio ora espresso.
Il primo comma dell’art. 1 attribuisce il potere di agire in giudizio “ai titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori”. Aggiunge il quarto comma che il ricorso può essere proposto anche da associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati, appartenenti alla stessa pluralità di utenti e consumatori (e dunque titolari di una pluralità di interessi rilevanti ed omogenei)[10].
Il riferimento alla necessaria titolarità di interessi rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, insieme alla mancata espressa menzione delle associazioni degli utenti e dei consumatori di cui all’art. 137 del codice del consumo tra i soggetti legittimati, suscita il dubbio se il potere di assumere l’iniziativa processuale spetti anche alle associazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale.
La risposta negativa mi sembra preferibile per varie ragioni.
L’espressione pluralità di interessi omogenei, impiegata dall’art. 1 ha un preciso significato tecnico. Essa sottintende la distinzione tra tutela collettiva, intesa come riferita ad un bene di natura superindividuale e dunque non suscettibile di appropriazione e godimento esclusivi da parte dei singoli (es. ambiente, nelle sue varie accezioni) e come riferita ad una pluralità di interessi individuali, che rinvengono la loro dimensione collettiva nella circostanza di ritrovarsi con identico contenuto in capo a più soggetti[11].
L’impiego da parte del legislatore di una precisa locuzione tecnica (pluralità di interessi omogenei)   lascia intendere che la situazione, contemplata e tutelata dall’art.1, è esclusivamente la seconda: quella cioè della pluralità di diritti individuali dello stesso contenuto, lesi da un’unica condotta o anche da più condotte contestuali o parallele.
Coerente con questa scelta di fondo, in ordine al bene tutelato, è quella di attribuire la legittimazione a proporre l’azione al singolo danneggiato[12], e anche a comitati ed associazioni, che agiscono per la tutela di una pluralità di interessi rilevanti ed omogenei, in virtù di uno specifico rapporto di mandato o di rappresentanza.
L’omessa menzione delle associazioni rappresentative a livello nazionale tra i soggetti legittimati risponde ad una ragione chiara. Le associazioni sono formazioni sociali che svolgono la loro attività per la tutela di un interesse collettivo, del quale si assumono rappresentative. Manca la pluralità di interessi omogenei. Manca anche lo specifico rapporto di mandato o di rappresentanza[13], rispetto ai titolari della pluralità di interessi omogenei.
Che l’uso dell’espressione “interessi rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori” non sia casuale, ma sottintenda invece una scelta precisa, in ordine ai soggetti legittimati, risulta anche dal raffronto con l’analoga modifica che il legislatore, sempre nel 2009[14], ha introdotto al testo dell’art. 140 bis del codice di consumo, non ancora entrato in vigore nella precedente versione[15].
Nella precedente versione, la legittimazione a proporre l’azione collettiva risarcitoria era riconosciuta alle sole associazioni dei consumatori e degli utenti, inserite nell’apposito elenco di cui all’art. 137 del codice cons.[16], e ai comitati e alle associazioni “adeguatamente rappresentativi degli interessi fatti valere”, secondo il giudizio espresso dal giudice della singola controversia, nella fase preliminare della verifica dell’ammissibilità del ricorso.
Il legislatore del 2009 ha ritoccato la norma. Non vi è alcun riferimento alle associazioni di cui all’art. 137, né alla verifica preliminare del requisito della rappresentatività per le associazioni non ricomprese nell’elenco allegato alla legge. La legittimazione a proporre l’azione collettiva risarcitoria è attribuita a ciascun componente la classe dei diritti individuali omogenei, alle associazioni e ai comitati, cui questi abbia dato mandato.

L’evoluzione della formulazione dell’art. 140 bis costituisce una ulteriore conferma della conclusione già raggiunta. L’omessa espressa menzione delle associazioni rappresentative tra i soggetti legittimati è intenzionale. La legittimazione delle associazioni rappresentative a proporre l’azione collettiva per l’efficienza dell’amministrazione, non espressamente prevista, deve essere esclusa.
Il dubbio è semmai se, così facendo, il legislatore delegato non abbia tradito le indicazioni della legge delega ed in particolare del criterio enunciato al numero 1) della lett. l), per il quale la proposizione dell’azione deve essere consentita “anche alle associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati” (senza alcun riferimento alla necessaria rappresentanza di una pluralità di interessi omogenei).
Si potrebbe poi obiettare che la limitazione del ruolo delle associazioni, imposta dalla disciplina della legittimazione, è apparente e può essere facilmente aggirata.
E’ infatti sufficiente che anche un solo soggetto, titolare di un diritto individuale omogeneo, conferisca il mandato alla associazione perché questa possa assumere l’iniziativa processuale.
Tuttavia, in questo caso, l’associazione agirà nella veste di rappresentante processuale. Se non può escludersi che le misure, adottate dall’amministrazione per porre rimedio alla violazione, abbiano di fatto una portata generale e possano giovare all’intera categoria degli amministrati o degli utenti di servizi pubblici, il giudicato spiegherà i suoi effetti solo nei confronti del soggetto in nome e per conto del quale l’associazione ha agito. La conseguenza è rilevante perché assegna all’azione per l’efficienza dell’amministrazione un impatto pratico ed una forza persuasiva notevolmente diversi, e senz’altro minori.
Vi è poi da valutare il profilo del coordinamento, o del difetto di coordinamento con l’art. 140, co. 1, del codice del consumo. Ai sensi della norma citata, la legittimazione a proporre l’azione inibitoria per la tutela degli interessi collettivi degli utenti e dei consumatori spetta alle associazioni rappresentative a livello nazionale ed incluse nell’elenco di cui all’art. 137 dello stesso codice del consumo, non ai singoli né ai comitati.
Il raccordo tra le due distinte discipline diventa dunque difficile. Sarebbe invece opportuno perché l’art. 140 e il d.l. 198/2009 e le tutele rispettivamente apprestate, non si cumulano[17], ma si incastrano tra di loro, come in una sorta di puzzle.
In buona sostanza, la tutela, che per il disposto delle due norme è devoluta al giudice ordinario ed al giudice amministrativo, nei due diversi ambiti di competenza, è omogenea, quanto al contenuto.
In entrambi i casi si sostanzia in ordini di fare o di non fare, impartiti per far cessare comportamenti lesivi degli interessi di consumatori ed utenti, in quanto non conformi agli standard fissati ed agli obblighi e della carta dei servizi, o per eliminarne o correggerne gli effetti dannosi.
Variano i destinatari. Nelle ipotesi di giurisdizione amministrativa, espressamente fatta salva nella materia dei servizi pubblici dal comma 11 dell’art. 140, gli ordini di fare e di non fare sono rivolti alle amministrazioni pubbliche e ai concessionari privati di servizi pubblici. Il giudice ordinario esercita la sua giurisdizione nei confronti di qualsiasi altro soggetto privato.
Ma la legittimazione a proporre l’inibitoria civile, nei confronti di qualsiasi soggetto privato, spetta dalle associazioni rappresentative di cui all’art. 137 cod. cons. Quella a proporre l’inibitoria amministrativa al singolo, direttamente leso ( purché la disfunzione lamentata riguardi una pluralità di interessati), o al soggetto collettivo, portatore comunque di interessi omogenei e contestualmente lesi, con i diversi effetti che sopra ho evidenziato.
Vi è una disparità nella disciplina della legittimazione al ricorso che dovrebbe essere eliminata perché è difficilmente giustificabile e perché introduce un elemento di incoerenza nel sistema. Incoerenza grave in quanto coinvolge la stessa individuazione dell’interesse tutelato e del modello processuale di tutela.

3. Per la proponibilità dell’azione è necessario che si sia verificata una lesione, diretta concreta ed attuale di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti, a causa della violazione dei termini ovvero della mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori, non aventi contenuto normativo, e della violazione di standard qualitativi ed economici, stabiliti per i concessionari dei servizi pubblici e per le pubbliche amministrazioni.
La disciplina dell’interesse a ricorrere conferma la conclusione già suggerita dalle disposizioni, in tema di legittimazione: il bene tutelato con il ricorso ex d.lgs. 198/2009 non coincide con l’efficienza dell’amministrazione e dei concessionari dei pubblici servizi, intesa come bene a rilevanza ultraindividuale.

L’azione per l’efficienza dell’amministrazione rappresenta piuttosto una forma di tutela di interessi individuali, i quali rinvengono la loro dimensione collettiva nella circostanza di ritrovarsi con identico contenuto in capo ad una pluralità di soggetti. La tutela può essere esperita allorché gli interessi rilevanti ed omogenei risultano lesi, o meglio non soddisfatti, a causa di una disfunzione imputabile all’amministrazione o a concessionari di servizi pubblici.[18]
In ogni caso, l’evento lesivo deve consistere in una “disfunzione dell’apparato amministrativo non limitata a casi singoli”[19], richiedendo la norma la lesione di una pluralità di interessi isomorfi.
Il requisito della necessaria plurioffensività del comportamento omissivo o inefficiente, rappresenta un ostacolo non lieve per la utilizzazione pratica del rimedio e solleva qualche dubbio di costituzionalità.
Non sono chiare le ragioni per le quali l’azione non possa essere esperita quando il soggetto leso è uno solo. Se il diritto, e la lesione, sono riferibili al singolo, per il vincolo imposto dall’art. 24 Cost., la tutela individuale non dovrebbe essere esclusa, né condizionata alla dimostrazione della valenza ultraindividuale  dell’interesse e della lesione.
Si inserisce poi nella disciplina dell’interesse a ricorrere, la disposizione contenuta nel comma 1 bis, ai sensi del quale “nel giudizio sulla sussistenza della lesione di cui al comma 1 il giudice tiene conto delle risorse strumentali, finanziarie e umane concretamente a disposizione delle parti intimate
La disposizione è senz’altro anomala e giustamente è stata criticata nei primi commenti al testo del decreto[20].
E’ vero che considerazioni di tipo economico non sono in ogni caso estranee alla valutazione del giudice. Così ad esempio, ai sensi dell’art. 2058 c.c., “il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”. E l’art. 2933 attribuisce al giudice il potere di valutare il pregiudizio che all’economia nazionale possa derivare dalla esecuzione forzata di un obbligo di non fare ed il potere di disporre il risarcimento del danno in luogo della distruzione della cosa.
Si tratta tuttavia di un ordine di valutazioni che intervengono in genere nella fase conclusiva del processo e riguardano non già l’esistenza del diritto, ma le modalità, ed anche i limiti, della sua concreta soddisfazione.
Nel caso del comma 1 bis, invece, le valutazioni circa l’eccessiva onerosità o l’impossibilità di adempiere, per l’amministrazione intervengono nella fase introduttiva e condizionano la stessa procedibilità della domanda.
Si è così osservato – e la critica è senz’altro condivisibile – che il comma 1 bis offre all’amministrazione un’arma agevole per paralizzare il ricorso fin dal suo nascere, solo che essa dimostri la limitatezza delle risorse strumentali, finanziarie ed umane (prova che non è difficile fornire)
Il diritto degli amministrati ad ottenere prestazioni conformi agli standard qualitativi e quantitativi predefiniti, enfaticamente proclamato in astratto, rischia di assumere la assai labile consistenza di un diritto finanziariamente condizionato, non solo quanto alla possibilità di essere soddisfatto, ma quanto alla sua stessa esistenza.

4. La nozione di pubblica amministrazione in senso soggettivo è – come è noto -nozione a geometria variabile.
Ai fini dell’applicabilità delle disposizioni in tema di ricorso per l’efficienza dell’amministrazione, il legislatore vi ha incluso i privati concessionari di servizi pubblici. Ne restano invece esclusi le autorità amministrative indipendenti, gli organi giurisdizionali, le assemblee legislative e gli altri organi costituzionali, nonché la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
La inclusione dei concessionari di pubblici servizi tra i soggetti di pubblica amministrazione, o meglio la sottoposizione di alcuni aspetti dell’attività dei concessionari di servizi alla disciplina propria delle pubbliche amministrazioni, non costituisce certo una novità. Basti pensare alla disciplina sostanziale e processuale sull’accesso ai documento amministrativi. Per il disposto dell’art. 22, comma 1, lett. e) “per pubblica amministrazione” si intendono “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
Tale accezione estesa di pubblica amministrazione trova la sua giustificazione nel fatto che l’attività di erogazione di servizi pubblici, così come l’attività amministrativa, è rivolta alla collettività ed è destinata a soddisfare i bisogni essenziali di questa. E’ coerente con queste premesse l’idea che anche l’attività di erogazione di servizi pubblici debba svolgersi secondo i canoni costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento.
Cionondimeno l’applicazione dell’azione per l’efficienza ai concessionari privati di servizi pubblici pone alcuni problemi, specie per quanto riguarda i poteri del giudice e la fase dell’esecuzione.

Sul versante dei poteri del giudice, già si è sottolineato come i criteri direttivi della delega siano stati interpretati ed attuati in modo notevolmente restrittivo nel decreto di attuazione. E’ caduto il riferimento all’esercizio di una giurisdizione di merito ed i poteri del giudice sono molto più ridotti rispetto a quel che la lettura dell’art. 4, lett. l) n. 4) aveva lasciato intendere. Secondo il criterio enunciato dalla legge delega, “all’esito del giudizio” il giudice ordina “all’amministrazione o al concessionario di porre in essere le misure idonee a porre rimedio alle violazioni, alle omissioni o ai mancati adempimenti”. L’individuazione delle misure spetta al giudice, senza alcuna limitazione poiché si tratta di giurisdizione di merito. Al giudice sembra debba essere riconosciuto anche il potere di disporre misure strutturali e di incidere sull’organizzazione, ove la disfunzione accertata sia imputabile a ragioni di carattere organizzativo.
Secondo l’art. 4, comma 1, del decreto di attuazione il giudice si limita ad assegnare un termine all’amministrazione o al concessionario del servizio per “porre rimedio” alle violazioni accertate.
La diversa formulazione della norma e la diversa qualificazione del tipo di giurisdizione attribuita al giudice amministrativo[21] sembrano scontare proprio la difficoltà di sottoporre i concessionari privati, che godono di autonomia costituzionalmente protetta, all’esercizio di poteri così penetranti da parte del giudice.
Il problema riemerge nella disposizione del decreto di attuazione dedicata all’ottemperanza che è rivolta esclusivamente alle pubbliche amministrazioni.
Per l’art. 5, “nei casi di perdurante inottemperanza di una pubblica amministrazione si applicano le disposizioni di cui all’art. 27, comma 1, n. 4 del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054”.
L’esercizio dei poteri sostitutivi non è previsto, né è ammissibile, nei confronti dei soggetti di autonomia privata. Con la conseguenza che la mancata esecuzione del’ordine di porre rimedio alle violazioni, ove rivolto nei confronti di un concessionario privato di pubblico servizio, resta sprovvisto di ogni sanzione, salvo il risarcimento del danno.
Anche qui è riscontrabile un difetto di coordinamento con la disciplina dell’inibitoria civile, di cui all’art. 140 cod. cons.
L’art. 140, comma 7, prevede un sistema di astreinte. Per ogni inadempimento rispetto agli ordini contenuti nella sentenza che definisce il giudizio, o per ogni giorno di ritardo, il giudice dispone il pagamento di una somma di denaro, la cui entità è commisurata alla gravità del fatto.
La mancata previsione di un sistema analogo, nell’art. 5, non solo compromette l’effettività delle pronunce rese ex d.lgs. 198/2009 nei confronti dei privati concessionari di pubblici servizi, ma determina una disparità di trattamento tra soggetti privati, che è difficilmente giustificabile.
Il comma 1 ter, dell’art. 1 esclude poi l’esperibilità del ricorso per l’efficienza nei confronti di determinate  amministrazioni pubbliche. In particolare, il rimedio non è proponibile contro la Presidenza del Consiglio e le Autorità amministrative indipendenti. Anche questa norma è stata criticata nei primi commenti alla nuova disciplina[22].
Resta piuttosto oscura la ragione per la quale determinate amministrazioni pubbliche debbano godere di una statuto particolare. Inoltre, almeno per quello che riguarda le autorità amministrative indipendenti, la disposizione sembra porsi in contrasto con i criteri enunciati nella legge delega. Per l’art. 4, lett. l), l’azione può essere esperita nel caso di mancato esercizio di poteri di vigilanza, di controllo e sanzionatori, ovvero rispetto ad attività spesso assegnate ad amministrazioni indipendenti.

5. Il ricorso per l’efficienza dell’amministrazione e dei concessionari di servizi pubblici è disciplinato come rito speciale. E difatti nel codice del processo amministrativo, che sta giungendo all’esame del parlamento, le disposizioni del d.lgs. 198/2009 sono inserite nel Titolo quarto, che contiene la disciplina dei “riti abbreviati, relativi a speciali controversie”.
A ben vedere i tratti di specialità del procedimento si riducono a poche previsioni: la necessità della previa diffida; la scansione di termini brevi per la celebrazione e la conclusione del processo.
Al tempo stesso, la lettura riduttiva rispetto alle indicazioni della delega, che il decreto di attuazione avvalora, smussa notevolmente i profili di specialità dell’azione, per quanto riguarda la disciplina della legittimazione ed i poteri del giudice.
Il dubbio è se, così stando le cose, fosse necessario introdurre un  nuovo rito speciale, con una scelta che contraddice in qualche modo i principi direttivi, pressoché contestualmente fissati dall’art. 44, l.69/2009, nella delega relativa al riassetto del processo amministrativo [23] e se non fosse opportuno un migliore coordinamento tra l’art. 44, della legge 69/2009 e l’art. 4, lett. l) della legge 15.
L’occasione, offerta dal progetto di redigere un codice del processo amministrativo, avrebbe potuto essere utilizzata per introdurre una forma di tutela ordinaria dei diritti del cittadino utente, da esercitarsi tramite un ricorso individuale o un ricorso collettivo. La via avrebbe potuto essere quella estendere l’ambito di applicabilità della neo istituita azione di adempimento[24] alle ipotesi di mancata erogazione di prestazioni pubbliche (diverse dall’emanazione di un provvedimento amministrativo)[25], incanalando i casi in cui ricorrono motivi di urgenza nell’alveo del procedimento cautelare.

Materiale collegato:

Note

1.  Il decreto 20 dicembre 2009, n. 198 risulta ora trasfuso nel disegno di legge recante il riassetto della disciplina del processo amministrativo ed inserito nel Titolo quarto, “Riti abbreviati relativi a speciali controversie”, Capo secondo, agli articoli 130 ss. Tuttavia, poiché il testo del codice non è ancora definitivo, nel corso della presente trattazione si farà riferimento alla numerazione del decreto.

2.  La concezione dell’attività amministrativa come attività industriale rivolta alla produzione di beni e servizi non è riferita esclusivamente all’attività c.d. tecnica dell’amministrazione (istruzione, sanità). Si tratta invece di un modello interpretativo, che è ritenuto applicabile anche all’attività propriamente giuridica: alla giustizia, alla gestione del territorio o alla programmazione edilizia. Da questo approccio metodologico, oramai diffuso nell’esame dei problemi dell’amministrazione pubblica, derivano due conseguenze ben precise: sul versante interno, la possibilità di misurare la qualità e la quantità delle prestazioni secondo criteri di tipo industriale, sul versante esterno, la possibilità di configurare un interesse protetto del cittadino alla erogazione di prestazioni conformi agli standard di quantità e di qualità predefiniti.

3.  Sulla maggiore ampiezza dei poteri attribuiti al giudice dalla lettera l) punto 4) della l. 15/2009, rispetto a quanto è invece previsto dall’art. 140 bis del codice del consumo, richiama l’attenzione il Consiglio di Stato nel parere reso sullo schema del decreto legislativo di attuazione della delega, 9 giugno 2009, n. 1943. .L’osservazione è mio avviso valida e deve essere estesa anche al confronto con l’art. 140, lett. a) e b) del medesimo codice. Gli ordini di fare e di non fare, di cui all’art. 140 cod. cons., hanno comunque ad oggetto misure comportamentali, mentre l’ampia dizione dell’art. 4 e la qualificazione della giurisdizione attribuita al giudice amministrativo come giurisdizione di merito porterebbe a ritenere ammissibile anche l’adozione di misure strutturali.

4.  Questa definizione in F. PATRONI GRIFFI, La responsabilità dell’amministrazione: danno da ritardo e class action, in Federalismi. It, 2/2009.

5.  Nel parere reso dalla Sezione consultiva per gli affari normativi, Ad. 9 giugno 2009, n. 1943, sullo schema del decreto di attuazione dell’art. 4, lett. l), l. 15/2009, il Consiglio di Stato sottolinea come lo stesso principio di buon andamento è stato utilizzato, nell’ottica del sindacato di legittimità, come un corollario del principio di legalità e per rinforzare l’aspetto sostanziale di questo. Il principio del buon andamento è stato così tradotto nell’onere dell’amministrazione di operare il miglior contemperamento tra i vari interessi emersi nel procedimento.. andando ad arricchire il novero delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere..

6.  Per la nozione di disfunzione, cfr. M.S.GIANNINI, spec. Diritto pubblico dell’economia, II ed. Bologna, 1985, 313-316 e nt. 1. Giannini, nel riprendere la nozione elaborata da P. GASPARRI, Corso di diritto amministrativo,III, Le disorganizzazioni e le disfunzioni, critica sia la tendenza ad attribuire rilevanza giuridica alle solo disfunzioni di atti, anormalità ed invalidità, e non alle disfunzioni delle funzioni, sia la tendenza a vedere nelle disfunzioni più fatto che diritto.

7.  Che denomina il rimedio “ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici”.

8.  Cfr. art. 1, d. lgs. 198/2009.

9.  E, a mio avviso, distorto è l’uso che del ricorso ha immediatamente fatto il Codacons.. L’Associazione ha già avviato tre ricorsi, ex d.lgs. 198/2009. Il primo rivolto contro il Ministero della salute, mira a far ottenere agli utenti del servizio sanitario nazionale la restituzione pro quota dei soldi già pagati dal servizio sanitario nazionale per l’acquisto di 24 milioni di dosi di vaccino contro l’influenza A, rimaste inutilizzate, oltre ad un risarcimento simbolico per ogni iscritto. Il secondo, notificato al dipartimento della protezione civile, nonché ai sindaci di alcuni comuni, nei quali è elevato il rischio di dissesti idro-geologici, è rivolto ad ottenere il risarcimento dei cittadini interessati per il percolo al quale sono sottoposti. Con il terzo, notificato al Ministro della pubblica istruzione, è stato chiesto al giudice di impartire ai direttori scolastici l’ordine di rispettare il numero complessivo di 25 alunni, nella composizione delle classi.

10.  In buona sostanza, legittimati al ricorso sono i singoli e le associazioni o i comitati. Entrambe le categorie di legittimati (gli individui, da un lato, le associazioni o i comitati, dall’altro) agiscono nella veste di portatori di interessi omogenei, comuni ad una pluralità di utenti e consumatori.

11.  La distinzione tra le due diverse situazioni e relativi modelli processuali è ampiamente e chiaramente esposta da R. CAPONI, Azioni collettive: interessi protetti e modelli processuali di tutela, in Riv. Dir. proc., 2008,1205. sul punto anche N. TROCKER, Interessi collettivi e diffusi, in Enc. Giur., vol. XVIII, Roma, 1998.

12.  L’art. 1, comma 3, ammette l’intervento di coloro che versano nella stessa situazione del ricorrente. All’intervento si deve riconoscere carattere adesivo autonomo, in quanto l’interesse di colui che propone l’intervento ad ottenere l’estensione dell’efficacia soggettiva del giudicato favorevole nei suoi confronti non incontra il limite della perentorietà del termine per ricorrere.

13.  Che, è inutile sottolinearlo, è cosa ben diversa dalla rappresentatività.

14.  Cfr. art. 49, comma 1, l. 23 luglio 2009, n. 69.

15.  Di cui all’art. 2, co. 446 della l. 24 dicembre 2007, n.244.

16.  L’attribuzione della legittimazione a proporre l’azione collettiva alle sole associazioni dei consumatori, e non al singolo interessato, aveva costituito una degli aspetti maggiormente discussi della disposizione introdotta dalla finanziaria del 2007. Cfr., in senso critico, R. CAPONI, La class action in materia di tutela el consumatore in Itali, in Foro it., 2008, V, 282. Il modello è giudicato positivamente da C. CONSOLO, in CONSOLO C., BONA M., BUZZELLI P., Obiettivo class action: l’azione collettiva risarcitoria, IPSOA, 2008, 174, il quale esclude che il singolo danneggiato “per la natura stessa delle cose economiche e psicologiche” possa essere “in Italia certo non più che altrove- un appena credibile attore collettivo”.

17.  Questa evenienza, quella cioè che l’azione ex d.lgs. 198/2998 e quella ex art. 140 cod. cons., siano proposte in relazione alla medesima fattispecie è contemplata invece espressamente dall’art. 2, co. 2. Ma non è agevole comprendere come ciò possa avvenire, se si considera che la tutela apprestata dall’art. 140 non è esperibile nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari privati e che, al tempo stesso, si deve senz’altro escludere l’applicabilità del rimedio di cui al d.lgs. 198/2009 nei confronti di un soggetto privato, che non sia concessionario di un pubblico servizio.

18.  La locuzione disfunzione amministrativa è abbastanza ampia da comprendere le varie ipotesi elencate dall’art. 1, ovvero quelle dell’inosservanza dei termini o della mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori, non aventi contenuto normativo, e della violazione di standard qualitativi ed economici, stabiliti per i concessionari dei servizi pubblici e per le pubbliche amministrazioni.

19.  Cfr. Cons. Stato, 9 giugno 2009, cit.

20.  Cfr. A. MONEA, Contro la p.a. inadempiente un ricorso a garanzia degli standard, in Il Sole 24 ORE cit.

21.  Come si è sopra sottolineato, per il decreto di attuazione la giurisdizione è esclusiva, ma non di merito.

22.  Cfr. G. LECCISI, Prime riflessioni sullo schema di decreto legislativo recante “Attuazione dell’art. 4, della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di pubblici servizi”, in www.giustamm.it

23.  La lettera c) del citato art. 44 pone tra i criteri per l’attuazione della delega relativa al riassetto del processo amministrativo“ la revisione e razionalizzazione dei riti speciali, e delle materie cui essi si applicano”.

24.  Cfr. art. 42 dello schema di decreto legislativo recante “l’attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 di delega al governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo”.

25.  L’ottica aziendale, accolta dalla legge 15/2009, porta ad equiparare pienamente l’attività tecnica e quella giuridica dell’amministrazione, entrambe concepite come attività industriali di produzione di beni e servizi. Tale equiparazione ben potrebbe essere estesa al piano della tutela e del processo.