La competizione fa bene alle università

Relazione al seminario di Trento, 20 gennaio 2010

Sommario: 1. Due metodi per le riforme. – 2. Concorrenza (molto) imperfetta e race to the bottom. – 3. Per un’equa competizione tra le università. – 4. Il disegno di legge: A) i progressi. – 5. B) Questioni di metodo. – 6. C) Questioni di merito.

1. Due metodi per le riforme
La circostanza che, a distanza di pochi mesi dal convegno romano dedicato alle questioni della concorrenza e del merito nelle università italiane, seguito da un piccolo libro ([1]), alcune di quelle questioni siano nuovamente al centro della discussione tra giuristi non indica, di per sé, condivisione dell’angolo visuale – ossia i nessi tra concorrenza e merito, considerati come valori ordinali – che in quel libro è stato suggerito per riguardare la trasformazione in atto nel sistema universitario italiano. Non vi sono d’ostacolo soltanto le preoccupazioni di quanti si oppongono all’abolizione del valore legale extrascolastico del titolo (per il rischio che le università percepite, per dir così, come loci minoris resistentiae soccombano) e all’attribuzione in base al merito d’una più consistente quota delle risorse finanziarie disponibili (se si premiano gli atenei che eccellono, vi è il rischio che sia pregiudicata la provvista indispensabile per fare ricerca altrove?).
Un ulteriore, rilevante, ostacolo è il persistere d’una divisione quanto al metodo delle riforme. Esiste nelle costruzioni dei giuristi, non meno che in quelle degli studiosi di altre scienze sociali, un diffuso convincimento: che la legittimità e l’adeguatezza delle riforme non possano prescindere dal fare riferimento a un assetto ottimale, a cui l’intero “sistema” deve tendere. Di qui l’enfasi posta, non solo dagli uffici del Ministero dell’università, ma anche da quanti prestano la propria opera nei vari atenei, oltre che sulle regole volte a contemperare l’autonomia delle università con gli interessi della collettività nazionale, sui piani e sui controlli in funzione di osservanza di quei piani. È un metodo che – absit iniuria verbis – può dirsi di tipo “costruttivista”.
Ben diverso è il metodo, che finora ha riscosso meno adesioni ([2]), che può dirsi “evoluzionista”, nel senso che muove dall’idea che non solo esistano, come è agevole constatare, diversi modi di concepire le università (teaching universities, research universities), ma che le differenze riguardanti i criteri e le modalità di selezione si mantengono perché, prima o poi, sono in grado di far prevalere sugli altri il “gruppo” di studiosi in cui si sviluppano. Conseguentemente, l’enfasi viene posta sull’autonomia di ciascuna università; sulle differenze insite nel concetto stesso di autonomia; sulla necessità che ciascun ateneo debba contare sulle forze di cui dispone al proprio interno, sulla propensione dei propri studiosi a ricercare; sull’abilità dei propri docenti; sulla capacità dei propri managers di rinvenire le combinazioni che innalzano la produttività, limitano i costi.

2. Concorrenza (molto) imperfetta e race to the bottom
Questa breve indicazione di due metodi che – fini di chiarezza – sono stati distinti più di quanto possa risultare dalle opinioni che vengono sostenute in ordine a questo o a quel problema consente d’impostare nel modo più corretto le questioni concernenti la competizione tra le università. Per quanti, con varietà di spunti, ispirino la propria azione al metodo “evoluzionista”, la competizione costituisce il presupposto, non sufficiente, ma certamente necessario, dell’efficienza allocativa (delle risorse finanziarie provenienti dai contribuenti) e operativa; è un potente fattore di dinamismo sociale. I sostenitori dell’altro metodo – invece – sovente associano all’idea di concorrenza un indirizzo di laissez-faire, di deregulation, di dismissione degli obblighi che la Costituzione addossa ai poteri pubblici quanto alla promozione della cultura e della scienza e alla effettiva tutela degli studenti capaci e meritevoli, ma privi di mezzi.
In realtà, la concorrenza per accaparrarsi i migliori docenti e studenti è in atto da tempo, nei paesi anglosassoni, e in Asia. È favorita dall’intensificarsi della produzione di rankings delle research universities, in cui vi sono pochi atenei europei e ancor meno ve ne sono di italiani, oltre tutto assai distanti dai migliori. D’altronde, anche se considerate come teaching universities, le università italiane non soltanto perdono gli studenti in grado – per censo, cultura, relazioni sociali – di recarsi altrove per conseguire i titoli di studio più richiesti, ma non attraggono studenti dall’estero, nemmeno da Paesi di cultura affine o geograficamente vicini. La concorrenza, va aggiunto, è favorita nell’Europa unita dal mutuo riconoscimento dei titoli di studio (Corte di Giustizia, causa C-153/02 [2003]), che ripristina la situazione vigente prima della svolta in senso statalista nell’800. Vi è, tuttavia, il rischio d’una race to the bottom, come accade se – per esempio – ci si iscrive a una facoltà spagnola o romena soltanto per evitare i test di accesso all’università o l’esame di Stato, l’unico requisito stabilito dall’articolo 33 della Costituzione.
Detto ciò, bisogna pur dire – però – che una race to the bottom è già in atto in Italia. Vi influiscono, in particolare, la circostanza che la concorrenza tra le migliori “scuole” scientifiche sia ostacolata da meccanismi concorsuali opachi e da finanziamenti a pioggia, con conseguente declino delle poche research universities; il valore legale extra-scolastico attribuito da amministrazioni e organizzazioni professionali ai titoli di studio, che consente ai loci minoris resistentiae di sfruttare lucrose rendite di posizione; il proliferare di università telematiche e l’incremento delle sedi universitarie, al di fuori di rigorosi standard minimi. Insomma, la competizione è già in atto, comporta una dequotazione complessiva verso l’esterno, induce una race to the bottom all’interno, nuoce alla mobilità territoriale e sociale.

3. Per un’equa competizione tra le università
Per far sì che la competizione tra le università contribuisca, unitamente ad altre misure, a invertire la pericolosa tendenza al declino sociale, civile ed economico dell’Italia, occorrono varie misure:

a) secondo il principio del merito – l’unico idoneo a valorizzare appieno il principio di eguaglianza, al di là delle condizioni ereditate dalla storia – i finanziamenti pubblici per la ricerca devono essere concentrati. Se sembra eccessivo, per garantire un certo livello di consenso, che solo i migliori talenti, i migliori gruppi di ricerca accedano a quelle risorse, si stabilisca una quota ben più elevata dell’attuale. Se sembrano discutibili i criteri elaborati in prima battuta dal Ministero, si propongano criteri più congrui;

b) quanto all’altra fondamentale funzione delle università, la didattica, la competizione presuppone pari opportunità tra i soggetti, pubblici e privati, impegnati nella dialettica selettiva. Tocca alle regole e agli arbitri chiamati a farle rispettare, di ricercare per quanto si deve, di imporre per quanto si può, la correttezza di quella dialettica. Un presupposto essenziale è l’elaborazione di standard minimi sulle informazioni rilevanti per gli studenti, le famiglie, i finanziatori. Esse vanno rese pubbliche ovunque;

c) in attuazione dell’articolo 34 della Costituzione, i poteri pubblici devono assicurare l’effettività del diritto allo studio, mediante borse di studio e altre forme di finanziamento, ora del tutto insufficienti nell’entità complessiva e nelle modalità di erogazione. Esse possono attivare un processo virtuoso, soprattutto se configurate come vouchers;

d) ai fini che qui interessano, mentre non è indispensabile prendere posizione circa il valore scolastico dei titoli di studio, vanno scoraggiate con decisione, con perseveranza le pratiche che accentuano il valore extra-scolastico (si pensi alle amministrazioni che, in sede di concorso per l’accesso ai pubblici uffici, danno rilievo al voto di laurea o al possesso di un solo tipo di laurea).

Risorse pubbliche per la ricerca, informazione, vouchers per gli studenti, eliminazione delle rendite di posizione: queste sono solo alcune delle misure fondamentali, connesse con la competizione – una fair competition – quale fattore di dinamismo sociale, con la politica istituzionale volta ad affermarla. Esse consentono, peraltro, d’impostare correttamente l’esame del disegno di legge di riforma delle università, soprattutto per la parte volta a migliorare la qualità della loro azione. Permettono, inoltre, d’indicare una diversa via per i concorsi, basata sulla perdita di reputazione per le università che scelgono e promuovono ricercatori e docenti mediocri, che non può essere sviluppata in questa sede.

4. Il disegno di legge: A) i progressi
Sulla base delle considerazioni svolte, si possono valutare le iniziative a rimuovere o quanto meno ad attenuare i problemi riscontrati. Giova dire subito che alcune di esse sembrano idonee a porre rimedio agli scostamenti anche sensibili che l’Italia presenta rispetto alla situazione dei Paesi più avanzati dell’Europa unita (come il Regno Unito e l’Olanda), i quali si configurano come altrettanti punti di debolezza. Altre misure, invece, lasciano invariati quei punti di debolezza.
Nel novero dei progressi, spicca, in modo esemplarmente positivo, il rilievo attribuito al merito (articolo 1), malgrado le critiche pubblicamente esposte dai pochi zeloti di un astratto egualitarismo e le resistenze coltivate da altri, inclusi quanti sostengono la causa del merito finché non tocca il proprio hortus e le gerarchie in esso stabilite dall’età o da altri fattori. Oltre a perseguire una buona causa, il disegno di legge si occupa della mise en oeuvre: fa della premialità il criterio direttivo nell’uso delle risorse e istituisce un fondo per il merito (articolo 5). È da approvare senza esitazioni l’indirizzo che mira ad incentivare l’assiduità dell’impegno dei professori e ricercatori quanto alla loro produzione scientifica. Positivo è anche il giudizio sulle norme volte a introdurre un sistema di accreditamento delle università. Esse anticipano per numerosi aspetti gli orientamenti che in materia vanno definendosi in ambito comunitario, malgrado i modesti esiti della c.d. strategia di Lisbona. Queste misure vanno nella direzione giusta, l’unica che possa porre l’ordinamento italiano, certo non all’avanguardia in Europa, ma almeno non troppo distante dagli ordinamenti che da più tempo e con maggiore consapevolezza mostrano attenzione per i profili di efficienza ed equità.
Una sostanziale equivalenza con le best practices seguite dai Paesi più avanzati si riscontra, inoltre, per quanto riguarda l’introduzione di prove nazionali standard (articolo 4). Esse sono tanto più necessarie in quanto in un numero limitato, ma non irrilevante, di istituzioni scolastiche, soprattutto nel Mezzogiorno, i dati conseguiti dai test effettuati nel quadro del progetto PISA dell’OCSE sono stati viziati da influenze esterne, donde l’esigenza di correzioni statistiche. D’altronde, chiunque abbia un minimo di consapevolezza della varietà di orientamenti seguiti dalle commissioni di laurea in vari atenei italiani sa che anche il voto di laurea è un indicatore largamente imperfetto.

Un giudizio positivo, coerentemente con le valutazioni prima esposte (al § 3), concerne anche gli strumenti volti a promuovere il merito, ossia le “borse” e i “buoni-studio”. I pratici di questi temi sanno che non è facile verificare se le dichiarazioni redatte dagli aspiranti beneficiari siano veritiere. Ma questa non costituisce una buona ragione per non sperimentare, mediante i vouchers, forme di concorrenza tra le università, che inducano quelle dotate di cattivi docenti e peggio amministrate a sforzarsi di allinearsi alle migliori università.
Un discorso a parte va fatto per il reclutamento dei professori e dei ricercatori. Un giudizio complessivo d’adeguatezza va qualificato. Esso riguarda l’impianto della legislazione, ossia il ritorno – tardivo – alle abilitazioni nazionali e il sostegno alla mobilità dei professori e ricercatori. Su singoli aspetti, le valutazioni possono divergere, tanto sotto il profilo della legittimità, quanto sotto il profilo dell’opportunità: ciò vale, segnatamente per l’incongruo rilievo attribuito al caso, che in ordinamenti più propensi ad attribuire il giusto peso al merito viene utilizzato soltanto in situazioni nelle quali si reputa di doverne prescindere (come accade, in certe situazioni, per la concessione della green card negli USA).

5. B) Questioni di metodo
Non solo la prospettiva di pervenire a norme perfette non può non essere venata di ragionato pessimismo, ma l’analisi del disegno di legge dà risultati discordanti rispetto ai progressi appena passati in rassegna.
Prima di darne conto, è bene segnalare, alcune questioni di metodo. Pur se la via maestra per una riforma delle università è quella legislativa, il testo attuale del disegno di legge è contraddistinto da un non commendevole centralismo. Questo difetto emerge, in particolare, nelle decisioni riguardanti l’organizzazione degli atenei, che, se approvate in sede parlamentare, implicherebbero, se non una subalternità delle università, una concezione restrittiva della loro autonomia, che è garantita dalla Costituzione.
Il problema va tenuto distinto da un altro problema, pur connesso e al quale si fa meno sovente riferimento. Il disegno di legge non si limita a prevedere il ricorso alla delega legislativa (articolo 5). Prevede, altresì, una serie di piani e programmi. Per le ragioni anzidette, in via amministrativa fin troppo è stato fatto, poco può farsi ancora, per rendere più funzionali gli strumenti che la nuova cornice legislativa offre. Inoltre, il tempo per adottare i piani e programmi difficilmente sarà breve, donde un inevitabile differimento degli effetti attesi dalla riforma, in contrasto con la sua urgenza.
Infine, la via maestra per assicurare un’equa competizione tra le università quanto all’accesso ai fondi per la ricerca è ostacolata non soltanto dagli interessi in conflitto, ma anche da una non adeguata percezione in sede governativa dell’importanza che l’attività di determinazione dei criteri e delle modalità cui attenersi assume sotto il profilo sociale, prima ancora che giuridico. Se quei criteri attuano indirizzi e intendono produrre conseguenze apprezzabili in sede finanziaria, se quelle modalità di azione servono a dar luogo a una discontinuità rispetto al passato, non possono essere introdotti con un colpo di penna. Devono essere presentati, giustificati, discussi pubblicamente prima di essere applicati.

6. C) Questioni di merito
Passando dalle questioni di metodo a quelle di merito, quanto prima osservato in ordine all’affermazione del principio del merito va ora completato. Se si premiano i talenti, le eccellenze, il lavoro di equipe, la distribuzione dei fondi volti a promuovere il merito, deve premiare i dipartimenti, non gli atenei. Di qui la necessità di una distinzione dei fondi aventi una funzione premiale rispetto agli altri.
Occorrono, inoltre, correttivi rispetto alla disattenzione attuale per il ruolo che una corretta, non distorta, informazione può assumere per i vari soggetti interessati a effettuare una scelta consapevole tra le varie università. Proprio perché non fondato sulla pienezza dell’informazione, o almeno su un serio minimo d’informazioni qualificate, il “credito” di cui queste godono ha un valore incerto. Per carenza di informazioni, per incapacità nel valutarle, gli studenti, le famiglie, gli enti privati che potrebbero assumere il ruolo di finanziatori possono scambiare una sede distaccata, con poche facoltà o una soltanto, per un accettabile succedaneo d’una sede universitaria. Anche le critiche che da più parti sono state mosse al ranking redatto nel 2009 dal Ministero, a bene vedere, risentono del fatto che, in presenza di informazioni poco affidabili, il “credito” può rapidamente venire meno per effetto di poche valutazioni negative. È indispensabile, quindi, stabilire standard minimi non soltanto in ordine alla dotazione organica di professori e ricercatori, ma anche per quanto concerne l’attività scientifica e didattica che essi svolgono.
Il discorso riguardante gli standard richiede ulteriori approfondimenti. Una seria valutazione della ricerca non può fondarsi soltanto su parametri di natura quantitativa: svariati articoli pubblicati su una rivista a diffusione locale non possono essere messi sullo stesso piano di un articolo pubblicato su una rivista nazionale o internazionale, che si avvalga della peer-review, con referees di altri atenei, italiani e d’altri Paesi: non basta un’autocertificazione. Al tempo stesso, una seria valutazione della didattica non può fondarsi soltanto sui giudizi degli studenti: disporne è utile, ma annettervi soverchia importanza è sbagliato.

Non ultima per importanza, vi è poi la questione dei fondi. Preclusa dalle ristrettezze del bilancio statale la via di un consistente e continuo incremento dei fondi pubblici; esclusi trasferimenti adeguati da parte delle istituzioni europee o dal settore privato; considerata alquanto astratta l’ipotesi che il sistema universitario italiano raggiunga in tempi brevi un’efficienza pari a quella si riscontra in altri Paesi europei, è da ritenersi alquanto improbabile che le università dispongano di risorse sufficienti per finanziare una riforma ad ampio raggio. Vi è da chiedersi, allora, se alle università che si impegnano nell’esplicare determinati interventi (finanziamenti aggiuntivi per gruppi di ricerca che accedono a fondi privati; differenziazione dei livelli retributivi) la legge possa consentire di esercitare maggiori gradi di autonomia nel determinare gli oneri richiesti agli studenti. È una misura impopolare, ma non incompatibile con la concezione delle università come fornitrici di beni pubblici, in vista del soddisfacimento dell’interesse generale, senza limitare i costi del prodotto a chi ne riceve immediatamente i benefici, ma senza neppure gravare eccessivamente sulla fiscalità generale, ossia sui molti che non ricevono quel beneficio immediato.

Materiale collegato:

Note

1.  Concorrenza e merito nelle università, a cura di G. della Cananea e C. Franchini, Torino, Giappichelli, 2009.

2.  Come in Francia. Ma v. ora Universités: nouvelle donne, a cura di J.P. Pollin, Paris, PUF, 2009.