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“Testamenti viventi” per banche ……in futura agonia

di - 25 Gennaio 2010
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8. Ai sensi dell’art. 90 T.U. è consentito distinguere due diverse forme: la cessione “parziale” e quella “integrale”.
La prima ipotesi, ha per oggetto la cessione di rami d’azienda, di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco ed infine delle attività separatamente dalle passività e viceversa, in modo da interessare la totalità o una parte di queste ultime. La cessione parziale è sicuramente, delle due, la meno utilizzata nella prassi applicativa e pone problemi essenzialmente riconducibili, da un lato, alla individuazione dell’oggetto del negozio, dall’altro, alla eventuale lesione della par condicio creditorum.
Le operazioni di cessione integrale, invece, sono identificabili qualora oggetto del negozio traslativo siano o le attività e le passività ovvero l’azienda in modo tale da consentire il trapasso del complesso dei beni del soggetto cedente al cessionario.
Al riguardo occorre subito porre in evidenza che la distinzione tra cessione di attività e passività e cessione di azienda, se non appare difficile da cogliere sul piano concettuale (in ragione del fatto che nel primo caso è dato osservare una sostituzione nella titolarità di rapporti giuridici e nel secondo risulta un trasferimento dell’insieme dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa), più ardua si manifesta sotto il profilo della disciplina applicabile e ciò anche in considerazione del sovrapporsi dei diversi piani normativi, al punto tale che nell’opinione di qualche autore le due fattispecie seppure presentano elementi di distinzione sul piano configurativo, probabilmente non lo sono più su quello della loro disciplina.

9. Se si tiene presente sia lo schema organizzativo che il nostro sistema ha predisposto per affrontare le situazioni di crisi, sia le operazioni dirette alla gestione di tali situazioni, ci si avvede che nel nostro sistema l’idea del “living will” è dunque scarsamente praticabile, per una pluralità di ragioni.
Una prima ragione potremmo definirla di natura “psicologica”: confessare la propria insolvenza, soprattutto per l’impresa bancaria, equivale a collocarsi immediatamente fuori dal mercato, poiché significa ammettere la propria incapacità di operare secondo i criteri della sana e prudente gestione del credito e quindi confessare la propria incapacità di gestire il denaro altrui.
Il testamento vivente però, si può ovviamente obiettare, non presuppone la crisi ma la diversa ipotesi della possibilità che un giorno la crisi possa verificarsi.
Ma c’è da chiedersi, sempre seguendo questo immaginario ragionamento, se il fatto stesso di prevedere la possibilità di una crisi non sia già un elemento che, seppur a livello subliminale, non sia comunque in grado di generare incertezza nei terzi depositanti e investitori.
Una seconda ragione è di ordine tecnico: la crisi e l’insolvenza può manifestarsi in modi e forme diverse, e – a seconda dei suoi sintomi – diverse sono le forme e le tecniche di risanamento.
Sicché, non conoscendo i sintomi della patologia, è difficile, in prevenzione, definirne i possibili rimedi.
Rimedi che infatti, di volta in volta, e in conformità alle concrete situazioni, sono posti in essere dai soggetti incaricati di porre in essere tutti gli atti e tutte le attività necessarie o comunque opportune per recuperarne, o quanto meno mitigarne, gli effetti dannosi e spesso devastanti per l’intero sistema creditizio.
Sicché è difficile, per non dire impossibile, prevedere un effetto senza conoscerne la causa concreta.
Un’ultima ragione, riposa in quello che sembrerebbe essere il paradosso di un ossimoro: il testamento dice l’art. 587 c.c. è l’atto con il quale taluno dispone “per il tempo in cui avrà cessato di vivere”, ma secondo le leggi del credito le banche sono (rectius: dovrebbero essere) ………… “immortali” !!!!

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