Contraddittorio e partecipazione nel procedimento amministrativo

1. Italia, nel 1961. Nel 1961, l’Enciclopedia del Diritto pubblicava la voce “Contraddittoriodiritto am­ministrativo[1] di Feliciano Benvenuti. Il tema del contraddittorio vi era trattato solo sotto il profilo del processo amministrativo, sia di fronte al Consiglio di Stato, sia di fronte alle Giunte provinciali amministrative. I Tribunali amministrativi regionali ancora non esiste­vano; sarebbero apparsi sulla scena dieci anni dopo, una volta dichiarate costituzional­mente illegittime le GPA, per difetto di indipendenza del giudice. Non una riga, non una pa­rola era dedicata al contraddittorio nel procedimento amministrativo. Si può capire: era allora in pieno vigore il t.u. sugli impiegati civili dello Stato 3 gennaio 1957, n. 3, il quale poneva il segreto d’ufficio tra i primi doveri del pubblico dipendente.

2. USA, tra il 1880 circa ed il 1948. Nel 1948, negli Stati Uniti d’America si era conclusa una vicenda per noi assai sin­golare. Negli anni ’70 del XIX secolo il regime ideale della separazione dei poteri, che ispi­rava la costituzione americana, era entrato in crisi a causa del progresso tecnologico. Le macchine a vapore erano state impiegate per far girare le ruote di un veicolo – ovvero, per trasformare in treno carri e carrozze a cavalli. Si erano costruite strade ferrate al servizio dei treni. I tempi del trasporto si erano ridotti probabilmente del 70, dell’80%: erano stati soprattutto resi quasi insensibili alle condizioni meteorologiche. In breve, chi poteva uti­lizzare il treno per i propri trasporti veniva a godere di un vantaggio concorrenziale enorme sui suoi competitori (come si direbbe con il linguaggio di oggi). Di qui la spinta all’abuso, nella forma semplicissima dell’acquisto di tutto lo spazio su un treno, al solo fine di lasciare a terra le merci dei concorrenti; di qui le cause, lunghe come tutte le cause in tutto il mondo, che spesso giungevano a termine quando il produttore delle merci lasciate a terra era fallito. E di qui la necessità di un intervento radicale, che costringesse tutti a lasciar usare il nuovo mezzo di trasporto a chiunque ne avesse bisogno ed a parità di condizioni.
In breve, data la struttura federale degli USA (che lasciava agli stati tutte le questioni che non riguardassero l’Unione in quanto tale), solo problemi di commercio tra gli stati potevano diventare un problema federale. Sotto questo profilo il trasporto ferroviario era un tema tipicamente non solo statale, ma interstatale, e quindi federale; questo indusse il governo a costituire un tipo di soggetto giuridico totalmente nuovo, diverso da sé, con il compito di disciplinare l’uso della ferrovia per il traffico commerciale tra stati, ga­rantire il rispetto delle regole da esso stesso dettate, e reprimere le infrazioni. Nel 1887 nacque così la Interstate Trade Commission. Essa aprì la via alle decine di “commissioni”, “agenzie”, “au­torità amministrative indipendenti” che disegnarono un tipo di assetto, ancora attuale, del “pub­blico” negli Stati Uniti ed in realtà nel mondo.
Questa soluzione aveva tre significati. Il primo è che si era concepito e creato un orga­nismo potenzialmente efficientissimo – quale poi si è rivelato.
Il secondo è che questa efficienza aveva un costo istituzionale molto alto. Un organismo non rappresentativo legiferava; provvedeva poi all’applicazione delle proprie leggi; irro­gava le sanzioni. Faceva dunque il legislatore senza essere stato eletto; gestiva le proprie regole, contro ogni principio; si faceva giustizia da solo, senza essere giudice.
Il terzo significato discende da una lettura della vicenda in un’ottica europea. Si può ben dire infatti che si era così introdotta una pubblica amministrazione nel senso europeo del termine. Il Rechtsstaat, per cui il diritto in tutte le sue forme derivava dallo Stato, rina­sceva dalle sue ceneri. Gli Stati Uniti erano nati rifiutando in radice questo modello. Con “We, the People of the United States of America …” si apre il preambolo alla costituzione americana.
Gli attacchi al neo-istituito modello di amministrazione furono durissimi. Più volte la Corte suprema lo dichiarò incostituzionale. Solo dopo molti sforzi (e dopo la sostituzione di molti suoi giudici deceduti con altri, più aperti), ne superò il vaglio, grazie ad una solu­zione geniale. Essa fu quella di garantire anche nelle procedure di fronte alla nuova agen­zia il right to be heard, il diritto ad essere sentiti, il contraddittorio, inviolabile garanzia co­stituzionale imposta per l’esercizio del potere giudiziario.
Non è questa la sede per indugiare in un lungo racconto. Rileva qui che alla ITC segui­rono innumerevoli altre agenzie – da quella per il lavoro alla celeberrima SEC, dalla Ten­nessee Valley Authority alla NASA, per ricordarne alcune soltanto –, tutte accompagnate dallo stesso tipo di polemica: pericolosa, inaccettabile confusione di ruoli.
E soprattutto rileva qui che la polemica si chiuse nel 1948 in un modo per noi inimma­ginabile. Il Governo americano e l’Associazione degli avvocati americani (American Bar As­sociation) stipularono una sorta di transazione: gli avvocati accettavano l’esistenza del modello organizzativo “agenzia” alla condizione che i loro procedimenti fossero sempre assistiti dalla garanzia del contraddittorio[2].

3. Lo stato dell’arte. Dunque: negli Stati Uniti d’America nel 1948 la garanzia incondizionata di contrad­dittorio nei rapporti con tutte le autorità amministrative dotate di forti poteri chiudeva una polemica di quasi ottant’anni sul loro stesso diritto di esistere.
In Italia nel 1961 di contraddittorio nel procedimento amministrativo non si parlava.  Non esisteva come figura generale, come modello generale di azione. Era previsto solo per i procedimenti disciplinari del pubblico impiego dal t.u. del 1953; già prima la giurisprudenza ne aveva affermato la necessità per alcune ipotesi particolari di provvedimenti sanzionatori che andavano ad incidere in rapporti nei quali era rilevante il profilo contrattuale (revoca delle concessioni, accompagnate da una convenzione per il loro esercizio ad es.).

4. Il Rechtsstaat ed i suoi figli. La legge abrogatrice del contenzioso amministrativo. Il problema sta naturalmente nelle origini: noi siamo figli del Rechtsstaat, versione “n”, tra le tante che se ne sono viste in Europa (chi ne dubitasse rilegga lo Statuto alber­tino![3]). Aver concesso ai cittadini nel 1865[4] di tutelare i loro diritti di fronte ad un giudice anche nei confronti delle amministrazioni pubbliche era stato il massimo che si potesse pensare e fare allora; e venne fatto con mille cautele, anzitutto ponendo al giudice il divieto di incidere in termini reali nell’azione amministrativa, vale a dire di annullare, modificare o revocare gli atti amministrativi di cui si denunciava la lesività.
Nella legge abrogatrice del contenzioso amministrativo c’era stata in verità un’apertura di grande ri­lievo: l’art. 3 disponeva che gli affari non devolvibili all’autorità giudiziaria ordinaria “saranno attribuiti alle au­torità amministrative, le quali, ammesse le deduzioni e le osservazioni in iscritto delle parti interessate”, provvederanno con decreti motivati. Contro tali decreti era ammesso il ricorso gerarchico.
Sembra fuor di dubbio che questa legge avesse introdotto il contraddittorio nel proce­dimento amministrativo. Per quanto se ne sa, sembra altrettanto certo che il nuovo istituto abbia avuto scarso seguito. In dottrina lo si ricorda appena. La prova che non venne mai considerato e vissuto come vero, efficace rimedio sta nel fatto che nel 1877 si concluse un lungo percorso volto a determinare i limiti della giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, attribuendo alla Cassazione di Roma la funzione di “giudice dei conflitti”: pare evidente che se l’art. 3 avesse funzionato il problema di avere un giudice non si sa­rebbe posto. È altrettanto un dato di fatto che dal 1890 in poi la scena del contenzioso con la pubblica amministrazione venne dominata da un nuovo giudice, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Non vi fu dunque un’evoluzione dell’art. 3 verso un regime procedimentale generale, volto a prevenire e possibilmente comporre i contrasti tra cittadini ed amministrazione attraverso il loro dialogo. L’evoluzione riguardò l’art. 4, culminata nel 1890 con l’istituzione di un nuovo giudice, chiamato a decidere i contrasti tra cittadini ed amministrazione con l’esercizio di poteri cassatori, e solo cassatori: il Consiglio di Stato poteva sì annullare i provvedimenti dell’amministrazione, ma solo annullarli, rimettendo ad essa l’affare, per l’ulteriore corso. Non è un caso che spesso lo si sia chiamato “il giudice dell’amministrazione”.

5. Il procedimento amministrativo e la dottrina. Nessuno discute che in dottrina il procedimento amministrativo sia stato studiato fin dagli anni ’30 del secolo scorso. Il problema è come, sotto quale profilo, venne studiato. E qui bisogna dire apertis verbis che il tema intorno a cui si sviluppò l’indagine fu quello puramente formale, proprio della pandettistica, dei tipi di collegamento che si instauravano tra gli atti da cui scaturiva il quid novi, la volontà finale dell’amministrazione, “il provvedimento”. Nessuna attenzione venne dedicata al problema di come tale volontà finale si formi dal punto di vista sostanziale: su quali prove, su quali accertamenti preliminari, su quali progetti e previsioni di risultato. Tutto ciò era rigorosamente riservato alle amministrazioni ed alla loro organizzazione. L’unico onere che su esse incombeva era quello di rendere conto delle ragioni per cui avevano deciso in un certo modo: secondo il linguaggio corrente, di motivare il provvedimento. Come è ben noto, gli studi volti a cogliere la dinamica intrinseca ad ogni procedere, anche all’interno delle amministrazioni (e non solo dei contratti e delle società, ad es.), sono pochissimi. Il primo è quello di Forti, del 1929[5], che cercò di spezzare la logica pandettistica del collegamento tra atti; l’altro è quello di Sandulli[6], del 1940. A lui si deve la concezione del procedimento come percorso articolato in “fasi”, ciascuna con la sua irrinunciabile specificità, attraverso il quale poteva formarsi la volontà di ogni amministrazione, in funzione di ogni tipo di provvedimento che era chiamata ad adottare. Negli anni successivi si possono trovare solo sporadici accenni di diritto comparato al diritto di accesso ai documenti amministrativi (nei paesi scandinavi, dove venne introdotto) ed al procedimento con la partecipazione degli interessati, come accadeva negli Stati Uniti d’America[7].

6. La legge sul procedimento amministrativo del 1990. Solo all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso venne approvata una legge[8] che dettava “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di accesso ai documenti amministra­tivi”. Senza che alcun dibattito ad ampio spettro la avesse preceduta, il capo III di questa legge introduceva il concetto (ed in realtà il principio) della parte­cipazione al procedimento amministrativo, disponendo che di tutti i procedimenti amministrativi dovesse essere comunicato l’avvio, che sostanzialmente chiunque vi avesse interesse poteva presentare documenti e osservazioni e che il procedimento potesse essere chiuso anziché con provvedimento formale, con un accordo. La legge n. 241/1990 è molto più nota per un altro suo capo, quello dedicato all’accesso: salve alcune eccezioni, fondate su serie ragioni di merito, tutti i documenti dell’amministrazione erano divenuti accessibili a chi avesse un interesse giuridicamente significativo a conoscerli.
La normativa sulla partecipazione non venne accolta dalla dottrina con l’entusiasmo che avrebbe meritato. Da molti venne ritenuta fonte di rallentamento dell’azione amministrativa, anziché strumento per amministrare seguendo un metodo ispirato all’idea della condivisione, e non dell’imposizione autoritaria di una scelta. La legge ebbe però subito un riconoscimento di grande significato da parte della giurisprudenza, da cui sarebbe potuto nascere l’ordo novus dei rapporti tra cittadini ed amministrazione. Si disse immediatamente che i provvedimenti, adottati senza previa comunicazione dell’avvio del procedimento, erano illegittimi per questa sola ragione, e dovevano quindi essere annullati.

7. Due colpi di freno. Sennonché, come tutti sanno, nei primissimi anni del nuovo millennio, con il d. l.vo n. 15/2005 vi sono state rilevanti battute d’arresto nell’evoluzione della disciplina dei procedimenti amministrativi. È tornato in auge il silenzio, di cui sono state create forme nuove, fino a quella, incredibile, del silenzio che in via ordinaria ha valore di provvedimento espresso. Si è dilatata la dichiarazione di inizio di attività, senza aver il coraggio di sopprimere la necessità di un intervento delle amministrazioni in mille casi minori; ma si è parimenti dilatata la possibilità di “pentimenti” dell’amministrazione, che può revocare o annullare gli effetti di autorizzazione implicita, propri della dichiarazione di inizio di attività e del silenzio – cioè, delle più rilevanti, anche se non pienamente condivisibili, misure acceleratorie introdotte. Soprattutto, per quanto qui rileva, si è introdotta la regola che, se l’amministrazione dimostra in giudizio che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, il provvedimento stesso non può essere annullato per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento (art. 21 octies introdotto nella legge sul procedimento amministrativo, 7 agosto 1990, n. 241).
Quest’ultima norma è molto grave, perché relega il contraddittorio – tipica garanzia ex ante – ad  un ruolo puramente eventuale. Il giudice è stato reso arbitro della necessità del contrad­dittorio ex ante: compete a lui dire ex post se per caso si sarebbe potuto decidere diversamente da quel che aveva fatto l’amministrazione. Ma il contraddittorio è ex ante o non è. Basti pensare al caso, non certo impossibile, dell’esecuzione immediata di un provvedimento non preceduto da comunicazione di avvio del procedimento: si può dunque arrivare al paradosso dell’esecuzione consumata e del provvedimento annullato.  Ogni commento è inutile.
Infine, in una recentissima sentenza delle Sezioni Unite relativa all’irrogazione di una sanzione in materia finanziaria[9] si legge (p. 35 del testo ufficiale) che il principio del contraddittorio “deve pur sempre modellarsi in concreto (enfasi nell’originale), in funzione cioè dello stato in cui si trova la procedura al momento dell’acquisizione delle ulteriori prove, e non implica af­fatto, di per sé, la necessità della relativa assunzione alla costante presenza dell’interessato”. In concreto, dice la Corte, il ricorrente “non pare prospettare alcun reale e pertinente argo­mento idoneo a dimostrare una concreta lesione del diritto di difesa” vista l’ampiezza e la consistenza delle sue difese anche in relazione a certa documentazione “sopravvenuta alla scadenza del termine così come diacronicamente e intempestivamente acquisita dalla Divi­sione …” dell’Autorità di vigilanza. La sentenza prosegue con l’enunciazione del principio che il contraddittorio costituisce diritto inviolabile nel processo – civile, amministrativo, penale, contabile, tributario –, ma non nel procedimento amministrativo.

8. Contraddittorio e partecipazione. Nelle pagine che precedono si sono indistintamente utilizzate le parole “contraddittorio” e “partecipazione”. Lo si è fatto seguendo la prassi corrente, che, con riguardo al procedimento amministrativo, attribuisce loro sostanzialmente le stesso significato.
Contraddittorio e partecipazione non sono però la stessa cosa. Il contraddittorio è nato e cresciuto nel processo. Il principio del contraddittorio dice che nessuno può essere soggetto alla decisione di un giudice, se non ha avuto la possibilità di rappresentare i fatti, addurre prove, esprimere la propria opinione, contro dedurre, contrattaccare etc. Esso è dunque una fondamentale espressione del diritto di difesa, divenuto principio generale che presiede allo svolgimento di ogni processo, sancito in Italia dall’art. 24 della Costituzione (“La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”). La sua forza è tale da aver condotto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di un gran numero di norme dei codici di procedura civile e penale e di altre leggi speciali che in qualche modo impedivano o gravemente ostacolavano l’esercizio del diritto di difesa (ad es., per la eccessività brevità dei tempi concessi per la difesa o per l’esistenza di improprie presunzioni di conoscenza di determinati atti del giudizio), fino a giungere alla radicale riforma del processo penale del 1988, trasformato dal nuovo codice da inquisitorio in accusatorio.

La partecipazione al procedimento amministrativo è fenomeno profondamente diverso. Essa non attiene, infatti, al diritto di difendersi contro una pretesa altrui di fronte ad un giudice. Mira, al contrario, a contribuire alla formazione delle decisioni dell’autorità amministrativa affinché meglio si conoscano gli interessi coinvolti e se ne tenga conto. Il punto cruciale per comprendere il significato profondo della partecipazione è che tali interessi non necessariamente si contrappongono all’assetto verso cui si orienta l’amministrazione. Possono benissimo cospirare con esso, e sollecitare una miglior definizione del provvedimento, ad es. inserendolo in un contesto più vasto. Gli interessi in cui l’amministrazione va ad incidere con la propria azione possono insomma presentare una serie di aspetti e di sfaccettature di cui solo i portatori degli interessi stessi sono consapevoli. In termini più tradizionali, si può dire che la partecipazione è il veicolo attraverso il quale gli interessati possono contribuire all’esercizio della discrezionalità da parte della pubblica amministrazione.
Gli elementi di contatto tra contraddittorio e partecipazione sono evidenti. In entrambi i casi viene esercitato il right to be heard, il diritto di essere sentito. Mentre però il contraddittorio si svolge tra posizioni per definizione antagoniste (tra parti: attore e convenuto, pubblico ministero e imputato), di fronte ad un’autorità giudicante chiamata ad accogliere o respingere la domanda, assolvere o condannare, la partecipazione non necessariamente vede parti l’una contro l’altra armate. Il contrasto di interessi può esserci, ma anche non esserci. Ciò cui si mira è conseguire il risultato più equilibrato, complessivamente il migliore.
Merita aggiungere che mentre il contraddittorio segue sempre un modello tipico pur nella varietà delle forme di ciascun processo (notifica dell’atto introduttivo, termini per documenti, controdeduzioni, difese finali: variano i nomi, non la sostanza), la partecipazione al procedimento ha per sua natura una struttura atipica, eccezion fatta ovviamente per la necessità che l’amministrazione renda noto il suo intendimento di adottare un certo provvedimento. È strutturalmente atipica perché per definizione è atipica la configurazione degli interessi di volta in volta in gioco. Il percorso della partecipazione non può che adeguarsi a questa loro configurazione e, quindi, essere più o meno complesso ed articolato in funzione della loro complessità. Tanto per fare un esempio, a volte può essere necessario provare qualche cosa, che in altre circostanze può essere data per scontata; a volte sono necessari studi tecnici, storici, architettonici; a volte può emergere la necessità di procedere ad una pianificazione degli interventi e magari organizzare un vero e proprio sistema di audizioni (come accade per certi provvedimenti regolatori dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni).
In altri termini, la partecipazione al procedimento amministrativo è al tempo stesso principio e metodo per amministrare, né più né meno di quanto lo era, ad es., il segreto di ufficio. È un principio perché società complesse, con un regime di responsabile  democrazia, non saprebbero concepire un modo diverso di procedere per la cura degli interessi comuni. L’amministrazione non è né un nemico, né un sovrano lontano, ma il portatore di funzioni necessarie al buon ordine della vita collettiva. È un metodo, perché quanto più semplice è il gioco degli interessi, tanto più può essere semplificato il percorso delle comunicazioni, delle informazioni e delle formalità. Il grado di complessità indica i modi che si devono seguire di volta in volta. Il potere regolamentare delle amministrazioni esiste anche per questo.

10. Conclusioni: il d. l.vo n. 15/2005 e la sentenza Cass. 30 settembre 2009, n. 20935. Alla luce delle considerazioni che precedono si può chiarire perché il d. l.vo n.15/2005 e la sent. n. 20935/2009 della Cassazione abbiano indotto un grave arresto nella costruzione di un procedimento amministrativo moderno.
Già si è detto della gravità di una norma che fa dipendere la partecipazione al procedimento dalla valutazione ex post dell’amministrazione e del giudice sull’esito del procedimento e quindi sull’utilità della partecipazione.
Occorre qui ribadire che ruolo fondamentale del procedimento è condurre a decisioni per quanto possibile condivise per la tutela degli interessi comuni. Un assetto equilibrato dei rapporti tra cittadini ed amministrazione vuole che gli interessi comuni siano chiaramente definiti, e che l’intervento dell’amministrazione sia necessario solo in situazioni nelle quali le norme di riferimento non sono sufficienti per disciplinare i comportamenti. Si tratta chiaramente di stabilire questa soglia di sufficienza-non sufficienza materia per materia. Una volta definita, per tutte le attività che si collocano nell’area della sufficienza normativa nessun intervento dell’amministrazione deve essere richiesto. Bastano controlli casuali con finalità di deterrenza contro possibili abusi.
Se questo è vero, il d.vo n. 15/2005, ha assunto un orientamento opposto, e, duole dirlo, antiquato. Di fronte ad un insieme di amministrazioni certamente lente, cariche come sono di pratiche in larga misura inutili, ha introdotto autentici corto-circuiti di un vero procedimento: dichiarazione di inizio attività soggetta a mora deliberandi prima (ciò che equivale a richiesta di autorizzazione accoglibile con silenzio assenso), e poi a revoca in un tempo qualsiasi. Questo significa diffidare dei cittadini perché, pur non essendo necessario un provvedimento, non li si lascia fare – ciò che è un male; ma significa anche coprire questa diffidenza con una sorta di pannicello caldo. Ha poi introdotto il silenzio assenso per molti provvedimenti discrezionali: al quale, per sacrosanta paura di operare in base al nulla, sembra che nessuno faccia ricorso.

Le vie maestre dovevano e dovrebbero oggi essere diverse. Occorre definire le soglie di sufficienza normativa – ovvero quelle in cui non vi è spazio per l’esercizio di discrezionalità da parte dell’amministrazione. Al di sotto di tali soglie non occorrono provvedimenti di alcun genere. Le norme devono essere sufficienti, salvi i controlli casuali sul loro rispetto. Si può aggiungere soltanto che un’accorta gestione digitale delle norme consentirebbe a tutti, cittadini ed amministrazione, di operare in assoluta certezza[10].
Quanto poi alle materie sopra-soglia, che richiedono cioè l’adozione di provvedimenti amministrativi, la soluzione è semplice: alle amministrazioni deve essere affidata la definizione delle modalità da osservare di volta in volta per garantire la partecipazione. Non c’è un unico modo. Vi sono casi in cui la forma rigorosa e paludata è inevitabile; altri in cui questa necessità si attenua. Dipende dalla complessità della materia. L’unica cosa che non si può fare è lasciare all’amministrazione ed al giudice decidere se la partecipazione sarebbe stata utile o inutile. È una questione di civiltà.
In questa cornice si colloca la sentenza delle Sezioni Unite. Il problema è molto delicato e grave. Non vi è dubbio che il diritto di difesa sia un diritto fondamentale nel senso comunemente accettato del termine (“inviolabile” lo definisce la Costituzione). Le Sezioni Unite lo hanno circoscritto al processo di fronte ad un organo giurisdizionale. La storia però insegna che questi confini – giurisdizione e amministrazione, amministrazione e legislazione – sono labili. Quando il Parlamento nomina presidenti ed amministratori di enti certamente amministrativi, o designa gli amministratori di società per azioni completamente controllate dallo Stato, quale funzione svolge? E quando un’autorità amministrativa indipendente accerta illeciti e li sanziona? E quando questo viene fatto direttamente dallo Stato, ad es. in materia di riciclaggio?
Discutere qui di potere legislativo, esecutivo, giudiziario e della definizione dei loro ambiti è forse vano, certo impossibile. Nessuno dirà mai che il Parlamento non può designare i consiglieri di amministrazione della RAI, tanto per fare un concretissimo esempio. La forza delle cose e della storia spezza qualunque schematismo. Altro è ciò che rileva. E qui un ruolo essenziale hanno i diritti fondamentali.
Come la partecipazione è al tempo stesso un principio ed un metodo per amministrare, così il contraddittorio, strumento essenziale per l’esercizio del diritto difesa, partecipa della profonda natura di quest’ultimo. Dovunque un giudizio debba essere espresso, anche se non da parte di organi inquadrati nel sistema della giurisdizione, il principio del contraddittorio deve essere rispettato e fatto rispettare. Non si tratta infatti di valutazioni di opportunità adottate nell’interesse della collettività, ma di veri e propri giudizi pronunciati da un soggetto che ha il potere di farlo nei confronti di altri che hanno il dovere di subirli. Di fronte a questo esercizio del potere l’inviolabile diritto di difesa deve sempre essere garantito.
D’altronde, una domanda. In Italia non c’è il ricorso diretto alla Corte costituzionale per la tutela dei diritti fondamentali, come in Germania. Chi, se non la Cassazione, ha il cruciale compito di garantirli sempre? Difficile pensare che una questione di nomi e di caselle possa esonerarla da questa missione.

Note

1.  Vol. IX, p. 738 s.

2.  Non è un caso che i manuali americani di diritto amministrativo non si occupino di “atti” e “provvedimenti” amministrativi di ogni genere, di “discrezionalità” e “poteri discrezionali” che incidono in “situazioni giuridiche soggettive”, come accade in Italia, ma di administrative proceedings, cioè di diritto processuale applicato al diritto amministrativo.

3.  È quasi difficile credere che siano vere le parole con cui si presentò al mondo lo Statuto albertino: “Considerando noi le larghe e forti istituzioni rappresentative contenute nel presente Statuto Fondamentale come il mezzo più sicuro per raddoppiare i vincoli d’indissolubile affetto che stringono all’itala Nostra Corona un popolo, che tante prove ci ha dato di fede, d’obbedienza e d’amore …
Di Nostra certa scienza, Regia autorità … abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue …”.

4.  È la celeberrima legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, che abrogò i c.d. organi del contenzioso amministrativo.

5.  FORTI, Atto e procedimento amministrativo, ora in Studi di diritto pubblico, 1937, I, 453.

6.  SANDULLI, Il procedimento amministrativo, 1940.

7.  Per una attenta ricostruzione di queste vicende v. GHETTI, Il contraddittorio amministrativo, 1971, p. 110 ss.

8.  È la l. 17 agosto 1990, n. 241.

9.  Cass. 30 settembre 2009, n. 20935.

10.  Cfr. F. SATTA e P.L. CIOCCA, La dematerializzazione dei servizi della P.A. Un’introduzione economica e gli aspetti giuridici del problema, in Diritto Amministrativo, 2008, p. 283 ss.