Riflessioni sul rapporto tra etica ed economia

ApertaContrada è onorata di ospitare un contributo del Presidente Carlo Azeglio Ciampi e di inaugurare così il secondo anno della sua attività.
L’intervento del Presidente è stato presentato al Convegno “
Un ponte fra banca e industria: per uscire dalla crisi e ridisegnare un nuovo modello di sviluppo” promosso dalla fondazione Italcementi a Bergamo il 12 dicembre 2009.

 

Cari amici,
il modo inusuale di essere con voi a conclusione di un convegno importante – importante per i temi affrontati e per l’alto profilo dei relatori – testimonia del mio desiderio di non mancare a questo appuntamento. Aspirazione da conciliare, però, con la prudenza imposta dagli “acciacchi” dell’anagrafe, che mi sconsiglia di sottopormi a “trasferte” a largo raggio. Sono perciò molto grato all’ingegner Pesenti di aver voluto accompagnare l’invito con la proposta di una partecipazione a distanza. Nonostante la distanza, con mente e cuore sono con Voi.
Le turbolenze finanziarie del passato biennio, la crisi economica che ne è seguita hanno fatto letteralmente esplodere la letteratura su cause e responsabilità: tra analisi, commenti, diagnosi e terapie ce n’è da riempire intere biblioteche!
Se volessimo esaminare anche solo la pubblicistica economica con il metodo dell’analisi lessicale delle frequenze, sono certo che in cima alla scala, o nelle primissime posizioni, troveremmo il termine etica, come sostantivo o in funzione di aggettivo.
Siffatta proclamata, invocata rilevanza della dimensione etica della finanza, e vorrei aggiungere dell’economia tutta, si confronta con una realtà che negli ultimi lustri, soprattutto, si fonda su comportamenti, su scelte che trascurano, quando non la ignorano del tutto, tale dimensione.
L’avere esercitato a lungo funzioni di responsabilità nel governo dell’economia mi ha “costretto” a misurarmi pressoché quotidianamente su “doveri e conseguenze dell’ ”agire”.
Più o meno consapevolmente, è da questo rovello che scaturì la scelta del tema da trattare nella prima delle Lezioni Paolo Baffi di moneta e finanza: l’iniziativa che la Banca d’Italia progettò per onorare la memoria del Governatore all’indomani della sua scomparsa.
Scegliemmo di affidare ad Amartya Sen, economista e filosofo, il compito di inaugurare la serie, nell’aprile del 1991, con una lezione su Denaro e Valore: etica ed economia della finanza. Le Lezioni successive, sempre incentrate su moneta e finanza, ebbero tutte un taglio strettamente analitico, con ampio ricorso alla formalizzazione matematica. La prima, volutamente diversa, tracciava il perimetro ideale entro il quale si collocava quell’iniziativa.
La trattazione, filologicamente rigorosa, di Sen prende le mosse dalle analisi classiche in tema di etica ed economia della finanza, dal IV secolo a.C fino ad Adam Smith, vale a dire fino alla nascita della scienza economica moderna. Un lungo viaggio attraverso il pensiero filosofico, teologico, giuridico; lungo quanto il rapporto dell’uomo col denaro e il suo uso: “da millenni (infatti) l’attività finanziaria è materia di prescrizioni etiche, vagliate e dibattute”.
Nihil sub sole novi, allora. E non può che essere così, se “nell’attività finanziaria e nella pratica degli affari alcuni atti possono essere esclusi perché inammissibili, benché potenzialmente idonei a promuovere il raggiungimento dei fini”.
Questo è, precisamente, lo snodo: l’intreccio di problemi etici che tocca il mondo della finanza “ruota intorno agli obblighi degli operatori finanziari, siano essi dirigenti d’ azienda  o altre figure di amministratori di istituzioni finanziarie e di imprese”.
La finanza prosegue Sen “svolge un ruolo importante per la prosperità e il benessere delle nazioni… Il ruolo creativo della finanza è stato una leva potente anche per la cultura e per la scienza. Storicamente, non solo la rivoluzione industriale, ma anche il Rinascimento sarebbero stati forse impossibili senza la mano soccorrevole della finanza:…Come è possibile allora che una attività tanto utile sia stata giudicata così dubbia sotto il profilo etico?”.
Sulla soglia di  questo interrogativo , dove  ciascuno può azzardare la propria risposta, interrompiamo l’ascesa verso le vette cui ci guiderebbe la dotta dissertazione di Sen, per restare al campo base, dove ci muoviamo con maggiore familiarità. E’ un terreno che ci è noto; è quello dove negli ultimi vent’anni  abbiamo assistito al progressivo dilatarsi della dimensione della finanza globale, fino a essere del tutto svincolata dalle esigenze dell’economia reale. Con un ribaltamento di paradigma, la finanza da ancilla è divenuta domina.
E’ l’esito di quella “finanziarizzazione dell’economia” alla quale Guido Carli oltre vent’anni fa guardava con preoccupazione crescente, con  “il timore che all’arricchimento illusorio non corrisponda la formazione di capitale produttivo”. Lo stesso Carli che di fronte all’avanzata irresistibile, tra il plauso generale, dell’innovazione finanziaria, dopo aver ammesso di essere “sospettoso dei mutamenti che lì per lì suscitano entusiasmo” aggiunge “mi chiedo se tutti i cambiamenti in atto e in prospettiva nel sistema della finanza internazionale abbiano condotto e condurranno ad una allocazione di risorse reali all’interno di singoli paesi e fra paesi atta ad eccitare il più intenso sviluppo produttivo”.
Oggi la comunità internazionale – autorità di governo, istituzioni finanziarie, centri di ricerca e opinionisti influenti, dispensatori di “verità”, – riflette sulle conseguenze dell’aver  troppo a lungo  incoraggiato, tollerato, non sufficientemente contrastato, che in nome di una malintesa concezione del mercato fossero sacrificate le ragioni prioritarie, fondanti, del risparmio e dell’investimento, della produzione e del consumo.

Un sacrificio consumato  sull’altare di una finanza puramente speculativa, priva di qualsiasi ancoraggio “reale”, sospinta, sostenuta, gonfiata dall’insaziabilità di guadagno e dalla cupidigia.
Nel disorientamento seguito alle crisi gravissime di grandi istituzioni finanziarie, – quando tuttavia si riteneva ancora di trovarsi in presenza “solo” di una crisi finanziaria – abbiamo sentito levarsi sempre più insistenti voci a invocare una nuova Bretton Woods; a reclamare regole più severe e controlli più stringenti. Da molti si è sottolineata la improcrastinabile necessità di un’azione di supervisione globale, commisurata a fenomeni finanziari di scala planetaria.
Si è discusso di regole e controlli più penetranti e ad ampio spettro d’azione: dai tagli ai bonus dei Top Managers al contenimento dell’operatività in derivati, dal rafforzamento patrimoniale degli intermediari al ripristino della separazione  tra banche d’affari e banche commerciali.
Nelle sedi preposte a scrivere “nuove regole per la finanza” i lavori proseguono con impegno, nonostante la difficoltà di comporre interessi talora confliggenti. Siamo fiduciosi che i risultati non tarderanno.
Un punto è ormai acquisito: questa crisi è di natura “epocale”. Le risposte devono essere commisurate a tale carattere.
Maggiore severità delle regole, controlli più penetranti, sanzioni più onerose sono innegabilmente indispensabili. Ma se si ammette che quella che ci troviamo a fronteggiare non è una ordinaria, ancorché profonda, fase calante del ciclo, interventi e misure di carattere, nonostante tutto ordinario, sono palliativi che non aggrediscono il “morbo”. Regole severe, supervisione coordinata potranno poco o nulla se non si fa strada e non attecchisce l’idea che è necessario un cambiamento radicale di registro, individuale e collettivo, nel modo di intendere e di “sentire” la finanza e l’economia; soprattutto, se non si rivede la gerarchia di valori dove l’una e l’altra si collocano.
E’, questa, una considerazione che attiene prima di tutto alla nostra responsabilità di membri della collettività, nazionale, europea, mondiale; del nostro appartenere alla famiglia umana.
Dovremmo chiederci in quale società vogliamo vivere e operare; quale mondo pensiamo di lasciare ai nostri nipoti.
Una società si preclude ogni autentico progresso se si fonda sul primato del danaro, del successo personale, dell’ostentazione dei suoi simboli.
Alieni da ogni intento moralistico, non v’è chi non veda l’urgenza di rifondare le basi delle nostre società, ritrovando senso della misura e sobrietà di stili di vita; riscoprendo il valore insostituibile – ai fine dello sviluppo umano – di “beni”, come la cultura, l’ambiente naturale, il patrimonio artistico in tutte le sue declinazioni: in breve di tutto quello che si è soliti chiamare civiltà.
Su un altro versante occorre  riscoprire la fecondità di valori come  il rispetto dell’altro e della sua dignità, la solidarietà, l’altruismo, che non sono virtù per “anime belle”, ma passaggi per accedere a una più compiuta realizzazione della persona.
Infine, occorre trovare forme più adeguate e incisive di partecipazione attiva e disinteressata alla vita pubblica; una partecipazione indispensabile a far vivere le istituzioni, a rigenerarle ove necessario, perché esse possano servire al meglio gli interessi della collettività, il bene comune.
E tanto per restare realisticamente nel presente, è proprio dalle istituzioni che può prendere concretamente avvio quel cammino auspicato verso un ordine diverso della società, dove la sfera economica occupi un posto di rilievo, ma all’interno del complesso quadro delle relazioni sociali di cui la politica fa sintesi.
Per questo è necessario rafforzare le istituzioni e non depotenziarle; valorizzarne le finalità per le quali sono state create e non svuotarle di contenuto, allo scopo di piegarle a interessi particolari, estranei alla loro natura.
Si può obiettare che lo scenario delineato appare lontano dalla realtà presente; scenario che sembra peccare di ingenuità o addirittura di astrattezza se si guarda alla forza e alla pericolosità degli interessi costituiti che si frappongono a una trasformazione secondo le linee ideali tratteggiate. A questa obiezione vorrei replicare – e concludo- con John M. Keynes: “presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”.