La specificità italiana nella crisi in atto

Intervento alla Tavola Rotonda dell’Accademia dei Lincei su La crisi: aspetti economici e sociali (10 dicembre 2009)

La crisi dell’economia italiana non si identifica con quella mondiale. Soprattutto, una volta superata la crisi mondiale, non sarà per ciò stesso risolto il problema economico italiano. Questo è ben più grave e ha natura specifica. E’ risalente nel tempo. A differenza di quello mondiale, è reale e non anche finanziario, strutturale più che ciclico. I suoi diversi aspetti vanno affrontati con un impegno che sinora è mancato.

1. – Sulla scorta di preesistenti squilibri – fra cui, il difetto di risparmio negli Stati Uniti, l’eccesso in Cina ed Europa – la contrazione mondiale è stata innescata dalla fragilità della finanza internazionale, è principiata da quella anglosassone. Dalla finanza il cedimento di credito e di fiducia si è esteso alla domanda, al commercio, alla produzione. Per il 2009 il FMI stima ora una regressione del prodotto del globo dell’ordine dell’1% (-12% il volume del commercio), rispetto a un trend di crescita pre-crisi del 4% l’anno. Per il 2010 si prevede una espansione del 3% (+2% il commercio): ancora sotto il trend, ma su un livello che già supererebbe, di 2 punti, quello del 2008. Movendo da un PIL totale (PPP) di 69.000 miliardi di dollari nel 2008, il prodotto potenziale irrimediabilmente dissipato è di oltre 4.000 miliardi (due volte il reddito di un anno dell’Italia). Con qualche rischio di doppio conteggio, si può aggiungere che le perdite della finanza sono – sempre dal FMI – complessivamente stimate in 3.400 miliardi di dollari (2.800 quelle delle sole banche commerciali). Sono cifre cospicue anche se, scalate per il livello del prodotto, inferiori a quelle di cinque contrazioni pur esse globali, reali e finanziarie sperimentate nel passato. Negli anni Trenta e Cinquanta dell’Ottocento e negli anni Venti, Trenta e Quaranta del secolo scorso lo scarto negativo del PIL mondiale dal trend toccò picchi del 10% e oltre. La recessione del 2009 è invece più vicina a quelle connesse con il primo (1974) e secondo (1979) shock petrolifero e con la guerra del Golfo (1990-1991).
Dalla teoria delle fluttuazioni cicliche e delle bolle speculative sappiamo che, in quanto “economia monetaria di produzione” (Keynes), il capitalismo è intrinsecamente, per sua natura, instabile. L’instabilità è sia reale sia finanziaria. Storicamente, crisi reale e crisi finanziaria hanno il più delle volte interagito. Quasi sempre a una crisi reale è seguita una crisi finanziaria. Più di rado è avvenuto il contrario. Nel 1987-2007 le ripetute tensioni valutarie e finanziarie non sono sfociate in una generale recessione. Invece è stato proprio questo il caso della crisi finanziaria che ha dato l’avvio alla caduta della produzione su scala globale nel 2009.
Le crisi finanziarie sono state frequenti (diverse centinaia, nelle singole economie, negli ultimi due secoli). Restano altamente probabili, se non certe (Minsky). Sono nondimeno difficilmente prevedibili nella scintilla e nei tempi d’innesco, come pure nelle sequenze e nelle modalità che in ciascun episodio assumono (Kindleberger). Quando – come spesso accade – le forme della speculazione sono nuove, la crisi non può essere prevenuta soltanto da regole. Le regole sono inevitabilmente basate sulle esperienze precedenti, diverse. La prevenzione non è garantita nemmeno dalla discrezionalità amministrativa dei supervisori. Inoltre, improvvidamente, la discrezionalità delle banche centrali era stata amputata, anche da noi, prima della crisi. Ancora oggi, nonostante i molti dibattiti e il beneficio della retrospettiva, non è evidente quali regole avrebbero sicuramente evitato le tensioni finanziarie del 2008-2009. La discrezionalità tecnica del central banking va riscoperta, giuridicamente ridefinita, politicamente confortata.
La differenza rispetto al passato è che oggi, dopo Keynes, sono note le azioni da compiere per contenere, a valle, le ripercussioni della instabilità per l’economia reale, per il sistema finanziario. La domanda globale va sostenuta con politiche monetarie e fiscali. I Tesori e le banche centrali devono fornire liquidità, garantire o rilevare gli attivi a rischio degli intermediari, canalizzare capitale – al limite pubblico – nelle aree deboli della finanza, cercando di limitare la deresponsabilizzazione che le protezioni provocano negli operatori.
Pur fra incertezze e ritardi – dovuti anche al prevalere del pensiero economico neoclassico, più fiducioso nella efficienza autoreferenziale dei mercati che nella necessità delle politiche economiche – nella crisi attuale tutto ciò è stato fatto dai principali paesi. Segnatamente, è stato fatto dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, con il decisivo concorso della Cina. La crisi sarebbe altrimenti stata ben più profonda. Ma non è risolta. Finché una espansione autoalimentantesi dell’economia mondiale non si sarà avviata – e ciò non può dirsi ancora avvenuto, nonostante la ripresa nel terzo trimestre di quest’anno – i sostegni fiscali e finanziari vanno mantenuti. Nessuna traccia di inflazione è alle viste. Nelle economie avanzate i prezzi al consumo – invariati nel 2009 – sono previsti aumentare solo dell’1% nel 2010. I salari nominali restano calmierati dalla sovrabbondante manodopera asiatica. La quantità di moneta – la M3 che la BCE controlla – è ferma in Europa.
La risposta di politica economica è stata meno tardiva e più massiccia negli Stati Uniti che nell’area dell’euro. Il disavanzo pubblico è aumentato di 7 punti di PIL negli USA, solo di 4 nell’area dell’euro. I tassi d’interesse a breve si sono ridotti prima e di più negli USA che non in Europa. Qui venivano addirittura sfortunatamente innalzati nell’estate del 2008, proprio alla vigilia della implosione della finanza, e poi limati con grande cautela. Ciò contribuisce a spiegare perché la recessione nel 2009 è risultata più acuta in Europa (-4,2%) che negli Stati Uniti (-2,7%), l’epicentro della instabilità finanziaria.

2. – In questo quadro il caso dell’Italia è assolutamente speciale.
La caduta del PIL italiano nel 2009 è stata drammatica: -5% circa. Fra le principali economie essa è di poco inferiore solo a quella del Giappone e forse della Germania, colpite da un calo pronunciato della domanda estera. Ma è del tutto privo di fondamento far meccanicamente risalire le origini e l’entità della recessione italiana alla crisi della finanza globale.
Il sistema bancario italiano ha incontrato difficoltà, ma non ha attraversato una vera e propria crisi. La tradizione dei controlli della Banca d’Italia, la prudenza degli intermediari, la ristrutturazione recente dell’industria finanziaria, il più basso indebitamento dei privati, la stessa minore vivacità dell’economia hanno concorso al risultato, altamente positivo, di sottrarre – sinora – l’Italia alla instabilità finanziaria internazionale. Da noi, l’attività produttiva era già ristagnante alla fine del 2007 e in caduta dal secondo trimestre del 2008, prima che la finanza mondiale entrasse in fibrillazione nello scorcio del 2008 e prima che l’Europa, al pari degli Stati Uniti, entrasse in recessione nel terzo trimestre di quello stesso anno. Inoltre, la flessione della domanda è prevalentemente e in misura maggiore che in Europa imputabile alla componente interna, piuttosto che alla componente estera.
Riepilogo i dati disponibili su quest’ultimo aspetto. La flessione del PIL reale in Italia nel 2008 (-1%) è interamente dovuta a quella della domanda interna (le importazioni essendo diminuite più delle esportazioni). Nello stesso primo semestre del 2009 il calo del PIL (-6% rispetto al corrispondente semestre del 2008) è per tre quarti imputabile a quello della domanda interna (consumi e soprattutto investimenti) e solo per un quarto a quello della domanda estera netta. Nell’area dell’euro, invece, il PIL era ancora aumentato nel 2008 (+0,7%) e nel primo semestre del 2009 la sua discesa (-4,9%) è ascrivibile per due terzi a quella della domanda interna e per un terzo (più che in Italia) a quella della domanda estera netta. Sempre nel primo semestre del 2009 la diminuzione dei consumi delle famiglie è stata del 2,3% in Italia e dell’1,2% in Europa, quella degli investimenti fissi lordi del 14,2% e dell’11,3%, rispettivamente.
La particolare pesantezza della crisi italiana è riconducibile ad almeno tre fattori. Va ribadito che l’economia era in solitaria recessione già nel 2008. Inoltre, le sue debolezze strutturali la esponevano più di altre al clima depressivo internazionalmente prevalso nel 2009. Infine, la risposta di politica fiscale è stata più prudente che negli Stati Uniti e nella stessa Europa. L’aumento dell’indebitamento netto italiano rispetto al PIL nel 2009 sarà di circa un punto inferiore a quello medio dell’area dell’euro. Esso è inoltre scaturito, non da misure discrezionalmente prese da Governo e Parlamento, ma dall’operare degli stabilizzatori automatici. L’effetto di “moltiplicatore” sulla domanda globale degli stabilizzatori automatici è nettamente inferiore all’unità e a quello della spesa pubblica per investimenti e della detassazione dei redditi più bassi.
Le aspettative censite da “Consensus Forecasts” cifrano la ripresa italiana nel 2010 allo 0,7%: inferiore non solo a quella mondiale, ma anche a quella delle economie più avanzate, compresi diversi paesi europei come Francia, Regno Unito, Germania e l’area dell’euro nel suo complesso (+1,2%). A ritmi siffatti, i livelli di reddito toccati dall’Italia nel 2007 verrebbero raggiunti non prima del 2015: otto anni perduti…
Si sarebbe potuto, si potrebbe, far meglio? Sì, per le ragioni che seguono.

3. – A differenza di altre, la nostra economia vive due crisi. La regressione di prodotto peggiore della storia d’Italia in tempi di pace – simile a quella dell’anno 1930 (-5%) – si è innestata sull’andamento da anni pesantemente negativo della produttività. Dopo il 1992 il trend della produttività – comunque definita, comunque misurata – è stato deludente. Ha abbattuto il ritmo di sviluppo del prodotto. Ha pregiudicato la competitività delle merci italiane.
La crescita annua della produttività del lavoro già nel 1992-2000 fletteva, nella manifattura, al 2,7% (1,7% nell’intera economia), dal 4% negli anni Ottanta. Nel 2000-2008 essa è risultata addirittura nulla, nella manifattura come nell’intera economia (ciò che raramente avviene). Nello stesso decennio l’incremento del valore aggiunto è sceso sui minimi dal dopoguerra: 0,9% l’anno, rispetto all’1,7% dell’area dell’euro. Data la pur lieve dinamica demografica, il progresso del reddito pro-capite è stato prossimo allo zero. L’Italia è retrocessa nella graduatoria europea.
Il ristagno della produttività ha fatto sì che, nonostante la moderazione salariale, l’industria cumulasse una perdita di competitività di trenta punti in termini di costo del lavoro per unità di prodotto, di quindici punti in termini di prezzi alla produzione. La performance delle esportazioni è stata mediocre, inadeguata a sostenere lo sviluppo dell’economia in condizioni di equilibrio esterno.La crescita annua dei volumi esportati si è ridotta dal 6% del 1982-1995 al 2,5% del 1996-2008. La quota delle esportazioni italiane nel commercio mondiale è precipitata dai picchi del 1995 (4,6%) ai minimi storici del 2008 (3,4% a valori correnti, appena 2,6% a prezzi e cambi costanti). Dal 1997 al 2008 l’apporto medio annuo che le esportazioni al netto delle importazioni hanno recato alla espansione della domanda è stato negativo (-0,3%). Nello stesso periodo il saldo della bilancia dei pagamenti di parte corrente è peggiorato, divenendo dal 2000 tanto negativo da contribuire per 14 punti di PIL al cumularsi della posizione debitoria del Paese verso l’estero.
Le cause? In estrema sintesi, carenze interne al sistema dell’Impresa (nel dinamismo dimensionale, nella qualità delle produzioni, nella accettazione della concorrenza) hanno interagito in un circolo vizioso con carenze nell’operare dello Stato (nel bilancio e nel debito pubblico, nei servizi delle P.A., nelle infrastrutture fisiche e giuridiche per l’economia).
Esaurito lo sforzo per l’adesione all’euro nel 1998, non è stato né compreso né affrontato il “problema di crescita” che sempre più affliggeva l’economia[1]. Dopo il 1992 – l’anno critico per la società, per la moneta, per il sistema economico del Paese – le imprese, dal canto loro, mentre la produzione rallentava, mancavano di ricercare efficienza e progresso tecnico. Si sono ritenute paghe dei profitti assicurati dalla spesa pubblica montante e dalla evasione fiscale, dal cambio sottovalutato e lasco fino al 2002, dalla stasi salariale, dalla concorrenza bassa e decrescente.
La congiunzione di profittabilità elevata e produttività stagnante costituisce la “stranezza” italiana del quindicennio 1993-2007.

4. – Le carenze strutturali, dello Stato e dell’Impresa, vanno attaccate con decisione. È questo altresì il presupposto per sostenere la domanda globale nell’immediato, volgendo in positivo le aspettative e favorendo l’uscita dalla recessione. Occorre che Stato e Impresa agiscano, in modo non solo contestuale ma per quanto possibile sinergico, su almeno quattro fronti:

a) La crescita è stata frenata dalla finanza pubblica. Un’opera pluriennale di riequilibrio del bilancio e di ridimensionamento del debito deve muovere dalla spesa corrente: economie negli acquisti di beni e servizi, riduzione di personale via turnover, taglio dei sussidi alle imprese, estensione dell’età pensionabile, efficienza nella sanità. Oltre che al pareggio dei conti pubblici nel medio periodo, gli interventi devono fondare una prospettiva di alleggerimento e perequazione della pressione fiscale e fare spazio alla spesa pubblica per le infrastrutture (trasporti, comunicazioni, utilities, reti), in particolare nel Mezzogiorno.

b) La crescita è stata frenata dalla inadeguatezza delle infrastrutture, fisiche ma anche giuridiche. Alla manutenzione e al potenziamento delle infrastrutture materiali è essenziale unire la riscrittura del diritto dell’economia e un suo credibile enforcement, non solo nelle circoscrizioni del Meridione. Il diritto amministrativo, ma anche il dirittocommerciale, societario, fallimentare, antitrust e il processo civile vanno ripensati secondo una visione unitaria, che adegui la rule of law alle esigenze del sistema produttivo.

c) La crescita è stata frenata dal perdurante nanismo delle imprese. Poche aziende piccole sono diventate medie, quasi nessuna azienda media è diventata grande. La crescita economica, invece, coincide col dinamismo d’impresa e postula un tessuto armonico e integrato e mobile di aziende piccole, medie, grandi (Baumol). Al favor di fatto e de jure prevalente per la impresa ristagnante nella piccola dimensione, se non nel sommerso e nella inefficienza, occorre sostituire quello per l’impresa media dinamica e imprenditiva. Va riscoperto il ruolo della grande impresa. Questa – chiunque ne sia al controllo – è decisiva nel selezionare, diffondere e applicare le innovazioni più promettenti.

d) La crescita, infine, è stata frenata dallo scemare della concorrenza. La concorrenza deve intensificarsi nel senso, non statico, del sollecitare le imprese a seguire le vie meno scontate all’utile. Pantaleoni e Schumpeter esaltavano la concorrenza come “minaccia” costrittiva foriera di efficienza dinamica. Va assicurato il livellamento tendenziale del saggio di profitto tra settori e aziende, a parità del salario pagato per le stesse mansioni. Ove tale condizione continui a mancare, l’aumento di produzione non scaturirà – nella stessa manifattura – dalla produttività, attraverso R & D, innovazione, progresso tecnico.

Stato – per a) e per b), soprattutto – e Impresa – per c) e per d), soprattutto – sono chiamati a un impegno urgentissimo. Vi è altrimenti anche il rischio di una ricaduta recessiva. Gli incagli e le sofferenze sui prestiti alle imprese, in rapido aumento, possono infliggere serie perdite alle banche, bloccare il credito agli investimenti. La caduta dell’occupazione – effettiva e temuta – può tagliare i consumi. Il debito pubblico si avviterebbe in una spirale viziosa. Al contrario, se adempiuto, quell’impegno dispiegherebbe i suoi frutti sino a risollevare la crescita del reddito potenziale. Il ritorno nel medio periodo su ritmi del 2,5-3% l’anno è ancora alla portata del sistema produttivo italiano.
Questi stessi frutti possono essere anticipati da un cambiamento in meglio delle aspettative. Il concreto avvio degli atti che Stato e Impresa devono compiere per sanare i mali dell’economia accelererebbe la fuoruscita dalla pesantissima contrazione del 2009. Promuoverebbe, nel 2010, una espansione superiore a quella attualmente prevista, insufficiente al recupero dell’occupazione. All’incremento della spesa privata per consumi e per investimenti potrebbe unirsi il temporaneo apporto della domanda pubblica. Un maggior deficit una tantum – imperniato sugli investimenti della P.A., oltre che sui sostegni ai senza lavoro e ai meno abbienti – sarebbe accettato dai mercati finanziari. Non vi sarebbero aggravi del premio al rischio sul debito pubblico, se un ragionevole extra-deficit venisse inscritto in un programma volto a risanare i conti dello Stato e a riformare assetti nevralgici del sistema economico. E’ questo che la finanza mondiale chiede da anni all’Italia.

5. – Della duplice crisi che l’economia italiana vive è mancata, sinora, un’analisi obiettiva, originale, condivisa. Spetterebbe in primo luogo al Governo di proporla al Paese. A fortiori, è stata carente l’azione correttiva. Pure, il legame perverso fra trend e ciclo può essere spezzato, rovesciato, dalle imprese e dalla politica economica.
Sarebbe imperdonabile se Impresa e Stato perseverassero nell’inazione.

Note

1.  Personalmente, l’ho denunciato in modo aperto in La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000), Bollati Boringhieri, Torino, 2000, cap. VIII; l’ho ricondotto a uno schema verificato sul piano empirico, proposto alla Riunione della Società italiana degli economisti dell’ottobre 2003, inThe Italian economy: a problem of growth, Economic Bulletin, Banca d’Italia, novembre 2003, pp.145-158; l’ho inquadrato nel più lungo periodo in Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino, 2007 e in Interpreting the Italian Economy in the Long Run, in “Rivista di storia economica”, 2008, pp. 241-246.