Promesse e pericoli del federalismo: il caso dell’Italia

Il federalismo è oggi in espansione e sia come forma di organizzazione statale che come argomento di dibattito. Senza entrare nei problemi definitori[1] prendiamo atto del favore di cui gode e analizziamone vizi e virtù. Per gli scienziati della politica esso promette di assicurare “pace e stabilità” e su ciò fondano il loro sostegno; per gli economisti esso promette di far rivelare le preferenze per i beni pubblici e, soprattutto, di migliorare la cost-efficiency nella loro fornitura e su ciò lo sostengono. Per l’opinione corrente, quella del pubblico in generale, esso rappresenta, (forse confusamente) una forma di difesa dalla globalizzazione. Infatti, più gli stati si integrano economicamente più crescono i timori da parte di gruppi etnici, religiosi, linguistici, nazionali ecc., di “scomparire” in una sorta di omologazione generalizzata. Più cresce questo timore più cresce il desiderio per la devolution del potere decisionale e dunque le richieste di decentramento.
E’ un fatto che, in letteratura, le “promesse” del federalismo siano state molto più celebrate di quanto siano stati colti e descritti i suoi “pericoli”.
In effetti, e grazie all’enfasi sulle potenzialità di aumenti nel benessere sociale, è almeno dagli anni ’80 che il federalismo è visto con indiscusso favore. La saggezza convenzionale del periodo mostrava infatti come esso portasse ad una minore pressione fiscale combinata con beni pubblici migliori e di ciò sembravano convinti non soltanto gli studiosi ma anche istituzioni internazionali, come Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, che ne favorivano l’introduzioni nei paesi in via di sviluppo. Poi vennero le crisi finanziarie degli anni ’90 e riportarono l’attenzione su un pericolo alquanto dimenticato del federalismo e cioè l’indisciplina fiscale dei governi subnazionali. La crisi finanziaria globale esplosa nell’autunno 2008 e il Patto di Crescita e Stabilità Europeo hanno a loro volta, e per motivi diversi, evidenziato l’importanza di tale disciplina. E’ qui che politica ed economia interagiscono nel massimo grado ed è quindi da qui che possono scaturire situazioni davvero pericolose. Se un governo subnazionale politicamente forte, dispone di autonomia di indebitamento ma di limitata autonomia di tassazione, sarà molto difficile stabilire una disciplina finanziaria da parte del governo centrale. Il governo centrale è fiscalmente troppo forte (limitata autonomia fiscale locale) per non intervenire e “salvare” l’ente locale in difficoltà rispetto al proprio indebitamento e, contemporaneamente, politicamente troppo debole per costringere il governo locale ad assumersi le proprie responsabilità. Ma se il governo centrale salva quello locale, il federalismo NON può realizzare le sue promesse perchè esse dipendono proprio dalla condizione di “responsabilità” del governo locale: un’alta probabilità di salvataggio praticamente inibisce il funzionamento virtuoso del federalismo. Mentre la letteratura circa la scelta delle funzioni e delle imposte (taxes) da attribuire ai governi centrali e locali in modo da ottenere miglioramenti nel benessere sociale è ampia e concorde, quella sui modi e metodi per ottenere disciplina fiscale [2] lo è molto di meno. Su questo concentriamo la nostra riflessione articolata nel modo seguente. Dopo aver sinteticamente esposto le promesse e i pericoli del federalismo, dal punto di vista economico e da quello politico, l’attenzione va alle “istituzioni” concrete di un paese per individuare se e quanto sia “vero” il federalismo formalmente attuato. E siccome soltanto un vero federalismo è in grado di mantenere le promesse, non è irrilevante disporre di un indicatore sintetico per tale verifica. La valutazione delle probabilità di salvataggio (bail out) da parte del governo centrale derivante dalle agenzie di rating ci sembra un tale utile e pragmatico modo di giudicare. Ciò ci permette di affrontare anche le questioni del nostro paese in modo meno tradizionale e di evidenziare se, realisticamente, con l’attuale riforma federalista, le promesse abbiano maggiore probabilità di realizzarsi dei pericoli.

Promesse e pericoli (economici e politici).
Economici. Gli studiosi di economia del settore pubblico si sono a lungo dedicati ad affrontare il tema se sia migliore una organizzazione statale decentrata o non invece una centralizzata pervenendo alla conclusione generale che non esiste un livello “ottimo” di decentramento ma dipende dalle condizioni socio-economiche dei singoli paesi. Se non è possibile individuare un livello di decentramento ottimo valido per tutti gli stati, è invece possibile fare due affermazioni di validità generale. La prima, che per aversi miglioramenti di benessere, delle funzioni dello stato, idealmente distinte in allocativa, stabilizzatrice, distributiva, soltanto la prima possa essere decentrata; la seconda che, in un mondo con beni pubblici locali, siano essi quelli che possono essere spazialmente identificati e che corrispondono alla dimensione geografica dell’ente locale o altri, una situazione Pareto efficiente è raggiunta se i beneficiari del servizio coincidono con coloro che lo finanziano. L’efficienza allocativa è dunque la grande promessa (virtù) del federalismo mentre la non equità distributiva[3] il grande pericolo (vizio), sebbene non l’unico, perchè esso comporta necessariamente, una più ampia amministrazione-burocrazia, un maggior numero di commissioni/comitati necessari a coordinare i vari livelli di governo, una maggiore regolamentazione, qualche duplicazione di funzioni, e simili. Tutto ciò porta, ragionevolmente, a maggiori spese pubbliche, non escluse quelle elettorali.

Politici. Dai sistemi decentrati ci si aspetta maggiore “peace and stability” proprio perchè i cittadini sentono che i loro interessi sono meglio soddisfatti se le decisioni spettano a loro diretti rappresentanti politici ai quali possono ritirare il supporto in caso di non ottemperanza (voto). A tale virtù si affianca il pericolo che i beni pubblici “nazionali” vengano sacrificati, cosa che può avvenire per due vie. Non solo i governi locali vedono e perseguono il soddisfacimento dei beni pubblici locali e dunque sottovalutano quelli nazionali, ma possono anche usare la loro rilevanza politica per ottenere trattamenti di favore dal governo centrale. Più la giurisdizione locale è importante politicamente (più voti) più sarà capace di scaricare parte del finanziamento dei beni locali della sua giurisdizione sul resto del paese. Dato infatti che insieme alla responsabilizzazione dei governi locali può derivare un forte potere politico dei governi locali questi, quanto più saranno forti, tanto più perseguiranno il loro obiettivi locali ai danni dei beni pubblici nazionali . In questi casi il federalismo, piuttosto che soddisfare le sue promesse, porta a concretizzare i pericoli per evitare i quali il meccanismo di funzionamento dei partiti politici risulta determinante. Per analizzare tale meccanismo si può seguire Rodden[4] che in maniera approfondita e convincente analizza la storia di molti paesi da questo punto di vista e giunge alla conclusione secondo la quale “partiti politici nazionali, verticalmente integrati, possono creare i necessari legami tra i politici centrali e locali ovvero creare esternalità elettorali dalle quali scaturisce l’interesse al perseguimento dei beni pubblici nazionali, centrali, anche da parte del politico locale”[5]. Il messaggio è perciò chiaro; ciò che conta sono le istituzioni in pratica, i meccanismi attraverso i quali operano piuttosto che le questioni consuete legate alla contrapposizione tra stati centralizzati vs decentralizzati o vincolo di bilancio stringente vs vincolo di bilancio debole, perché sono queste che possono portare alla cooperazione tra i diversi livelli di governo. In sintesi, mentre le promesse economiche del federalismo poggiano sulla sana concorrenza tra gli enti locali, le promesse politiche poggiano sulla cooperazione tra governi. E per quanto si sappia che la migliore soluzione è quella cooperativa essa non è affatto automatica ma richiede specifici meccanismi per la sua attuazione, per esempio quelli richiamati relativi alla organizzazione dei partiti politici.

L’impegno al NON salvataggio (no bail out) e la sua misura.
Per combinare una sana concorrenza tra gli enti locali foriera di efficienza allocativa con la cooperazione politica tra i livelli di governo per evitare che i beni pubblici nazionali siano sottoprodotti, occorre che le istituzioni siano ben disegnate. Un modo per procedere è quello di verificare come hanno funzionato in pratica le istituzioni dei paesi e, nello specifico, come si è manifestato l’impegno da parte del governo centrale a non intervenire in aiuto dei governi locali in difficoltà nell’onorare il loro debito. Concentrarsi sulle condizioni di no bail out non significa solo affrontare il tema della disciplina fiscale ma piuttosto quello del “funzionamento” del federalismo nel suo complesso. Nonostante infatti con il decentramento si dovrebbe avere totale responsabilizzazione dei politici/amministratori locali, è evidente che se si ritiene possibile il soccorso dal governo centrale in caso di necessità (per esempio per un inaspettato shock economico), si sarà inclini a spendere di più per gratificare i propri cittadini (votanti). Allo stesso tempo i potenziali creditori saranno maggiormente disposti a fare prestiti e a praticare un interesse più basso ai governi locali di uno stato il cui centro interviene in caso di necessità. Le aspettative sul bail out sono perciò al cuore della questione; il loro formarsi dipende da molti elementi tra i quali la tipologia delle istituzioni è senz’altro importante sebbene ancora di più lo sia la storia passata dei momenti di crisi; in ogni caso la molteplicità delle variabili che, con pesi diversi, portano al formarsi delle aspettative, possono riassumersi nella probabilità di aversi o non aversi salvataggio. E’ facile dunque immaginare l’instaurarsi di un giuoco tra il governo locale e quello centrale rispetto al bail out. Il governo centrale può essere di due tipi: di tipo “risoluto” ovvero non interverrà in favore del governo subnazionale in difficoltà oppure “non risoluto” e cioè finirà per intervenire[6]. In questo giuoco i governanti, sia centrali che locali, valutano le loro decisioni in termini di risultati elettorali [7]. Il governo centrale conosce se è di un tipo o dell’altro mentre quello locale non lo sa; tra le variabili che influiscono sull’aspettativa che il governo locale si forma circa il salvataggio o meno dal centro, vi è la risposta immediata del centro che sebbene possa poi essere cambiata (e spesso lo sarà), rappresenta un primo segnale sul “tipo” di governo che ha di fronte e al quale può aggiustarsi (giuoco dinamico). Nell’ipotesi di un prolungato shock economico, e dunque di una situazione di crisi per il governo locale, esso ha due alternative: o aggiustarsi immediatamente, e con ciò andare incontro al risentimento del proprio elettorato oppure aspettare per il “possibile” salvataggio da parte del centro.

Perciò anche se il first best sarebbe il salvataggio immediato, conviene al governo locale aspettare per un ritardato salvataggio piuttosto che aggiustarsi alla crisi, se ritiene che il centro intervenga. Nel caso il centro non intervenga e il governo subnazionale debba comunque aggiustarsi allo shock, sarebbe meglio lo facesse subito perchè un aggiustamento immediato è meno costoso di quello ritardato (il peggiore risultato è, in tutti i casi, il default). E’ pertanto cruciale sapere il “tipo” di governo centrale che si trova di fronte: risoluto o non risoluto. In un mondo di perfetta informazione se il governo locale crede che il centro sia risoluto, e cioè non procederà al salvataggio in nessuno stadio (p=1), allora sceglierà l’aggiustamento immediato in quanto meno costoso di uno ritardato. Nel caso creda che il governo centrale sia non risoluto (p=0), non si aggiusterà allo shock ma aspetterà il salvataggio il quale avverrà subito in quanto meno costoso di uno ritardato. Dunque, in un mondo con perfetta informazione, il risultato sarà aggiustamento immediato, se il centro è di tipo risoluto (p=1) oppure salvataggio immediato se di tipo non risoluto (p=0). Ovviamente la realtà è molto più complicata e, soprattutto, l’informazione è imperfetta ma è chiaro che per valori iniziali di p piuttosto alti avremo aggiustamento immediato perchè l’ente locale non può assumersi un alto rischio di non avere salvataggio ritardato mentre, con un iniziale basso valore di p, non si avrà aggiustamento immediato. Perciò c’è da aspettarsi che in circostanze standard (ovvero per valori di p diversi da 1 e da 0) il risultato sia o un immediato salvataggio o un aggiustamento ritardato. Questa conclusione è molto importante per noi in quanto vorremmo proporla come proxy per misurare quanto sia “vero” il federalismo formale (o vero decentramento o vera sovranità divisa). Se p è molto vicino a zero, il decentramento non è “vero” mentre se p è molto vicino all’unità siamo in presenza di un vero decentramento. Ciò che serve è dunque identificare le variabili che, nella realtà dei singoli paesi, portano a valori specifici di p perchè da ciò conosceremo quanto è “vero” il decentramento; nel caso sia vero possiamo aspettarci benefici (promesse mantenute) mentre se non lo fosse dovremmo aspettarci la concretizzazione dei pericoli. Tra le numerose variabili una importante, decisiva, è quella conosciuta come il rapporto di dipendenza ovvero la quota dei trasferimenti del governo centrale sul totale delle entrate dei governi locali. Più alta questa quota minore è la responsabilizzazione degli amministratori locali che saranno indotti a maggiori spese (moral hazard) come ben affermato nella letteratura, ma anche maggiore sarà la probabilità di salvataggio (p prossimo a zero). Ciò significa che in uno stato politicamente decentrato ma con limitato decentramento fiscale, “l’impegno” del governo centrale al non intervento (anche se dichiarato) non è “credibile” e questo a sua volta significa che il legame tra il rapporto di dipendenza e il valore che assume p è molto stretto. Ed infatti ciò è quello che fanno le agenzie di rating che, per il bene o per il male[8], “valutano” la probabilità di default dei governi locali sulla base della probabilità di intervento del centro. Utilizzando questo criterio e applicandolo alla storia di importanti stati federali, Rodden giunge alla conclusioni che, nella realtà, il numero degli stati veramente federali (o decentrati o a sovranità divisa ecc.) è molto limitato: come dire che i celebrati meriti del federalismo restano quasi sempre sulla carta, salvo sporadici casi.

Il caso italiano e la legge 42/2009.
Siamo abituati a sentire ripetere nel nostro paese gli astratti pregi che avrebbe il federalismo e come una trasformazione in senso federalista, dotata di non provate virtù, avrebbe la capacità di ottenere una molteplicità di obiettivi[9]. Inutile aggiungere che occorre analizzare le istituzioni e il loro funzionamento per potersi ragionevolmente aspettare specifici risultati. Innanzitutto verifichiamo se e quanto le condizioni economiche necessarie al funzionamento di uno stato decentrato siano presenti nel nostro paese. Le principali riguardano: 1. il dinamismo del sistema economico; 2. i differenziali territoriali e di ricchezza regionali; 3. la diffusione della corruzione; 4. l’esistenza o meno dell’obiettivo di fornire a tutti i cittadini uno standard uniforme di servizi.

1.  L’idea di fondo è che il federalismo, riproducendo le condizioni concorrenziali nel mercato per la fornitura dei servizi pubblici locali finanziati con le imposte, porti all’efficienza allocativa. Il decentramento è certamente da preferire se la concorrenza tra i clubs, i comuni e le regioni soddisfa meglio le preferenze dei cittadini e aumenta l’efficienza tramite la riduzione dei costi unitari dei servizi. Spesso però la concorrenza tra le giurisdizioni non si rivolge ai servizi ma diventa un’indesiderabile spinta alla riduzione delle proprie imposte[10]. Il problema dell’assegnazione delle imposte ai vari livelli di governo non è irrilevante rispetto ai risultati; la letteratura ha raggiunto sulla questione ben note conclusioni, come le imposte patrimoniali ai governi locali in quanto basate sul principio del beneficio. La ragione principale a favore del federalismo è che esso raggiungerebbe l’efficienza allocativa quando le condizioni economiche fossero vicine a quelle assunte nel modello di Tibout (56). In un’economia molto dinamica e flessibile, i cittadini si muoverebbero da una giurisdizione all’altra in cerca della combinazione, per loro ottima, tra servizi forniti e imposte prelevate (modello noto anche come “voto con i piedi”). Più l’economia è dinamica e più è sana e salutare la concorrenza tra le giurisdizioni. In nessun paese ovviamente queste ipotesi si sono mai realizzate pienamente ma nel nostro paese esse sono state, ed ancora lo sono, completamente assenti ; nessuno può negare che lo scenario italiano nemmeno si avvicini a quello supposto per il buon funzionamento del federalismo e basta pensare al mercato delle abitazioni e del lavoro per rendersi conto di quanto affermato.

2.  Pur accettando l’ipotesi di lavoro che il federalismo aumenti l’efficienza, certi vantaggi del centralismo non dovrebbero essere del tutto dimenticati soprattutto in un paese come il nostro nel quale le dimensioni territoriali e di ricchezza, sono così diverse. Ciò che non dovrebbe essere dimenticato sono le economie di scala e gli effetti di traboccamento (spillover) perchè solo quando si sia davanti a beni pubblici locali senza effetti di traboccamento il federalismo porta l’efficienza (l’economie di scala sarebbero più che compensate dai benefici del decentramento se appunto si trattasse di beni pubblici locali senza spillover). E’ il caso di sottolineare come pochi siano i beni pubblici veramente locali? Ma supponiamo anche che ne siano stati individuati un certo numero, per poter ottenere l’efficienza tramite la concorrenza tra giurisdizioni nella fornitura di tali servizi, le giurisdizioni dovrebbero essere simili in termini di forza economica e grado di sviluppo. Si sa quanto diverse siano le nostre giurisdizioni locali in termini territoriali, tasso di crescita e ricchezza economica, tanto da doversi riconoscere un dualismo persistente e non limitato agli aspetti di ricchezza economica. Altrettante disparità si rilevano nei confronti dell’istruzione, dei trasporti, della giurisdizione civile, dell’economia sommersa tanto per citarne alcuni importanti. Nel Sud del paese la frequenza alla scuola dell’obbligo non è rispettata e, non sorprendentemente, i risultati degli studenti delle scuole superiori sono più modesti di quelli del Centro-Nord (peraltro non lusinghieri). Il sistema del trasporto pubblico locale ugualmente mostra molte diversità sebbene il settore sia interessato, dal 1997, da una riforma nazionale. Secondo questa riforma, ispirata alla filosofia della privatizzazione/liberalizzazione, per esempio, la scelta dell’impresa cui affidare la fornitura del servizio dovrebbe avvenire preferibilmente attraverso aste competitive (concorrenza per il mercato); ma è un fatto che nel Nord ciò sia avvenuto nel 58,7% dei casi, nel Centro nel 66,6% e nel Mezzogiorno soltanto nell’11,1% dei casi. Analogamente mentre i ricavi per occupato sono intorno agli 83000 Euro nel centro-nord, nel Mezzogiorno sono solo di 37500[11]. E tanto per spaziare in campi alquanto diversi si può prendere atto di come la durata media dei procedimenti civili sia molto più alta nel Sud che nel Centro-Nord e come anche il numero dei procedimenti iniziati sia maggiore al Sud che nel resto del paese e come lo “stock” dei procedimenti pendenti sia molto più grande al Sud, sia esso dovuto a deficit di strutture che a più bassa produttività[12]. Infine, il fenomeno dell’economia sommersa non solo è più esteso al Sud che nelle altre aree del paese ma è anche qualitativamente diverso[13].

     

       

         

          3.  Il federalismo è più esposto ai rischi di corruzione secondo quanto argomentato da Proud’home e da Tanzi nel 1995[14]. Da allora la questione è stata analizzata dal punto di vista teorico e applicato e sebbene non possa dirsi che ci sia un risultato univoco, a noi sembra convincente e in qualche modo verificata empiricamente in Italia. Come dice Tanzi, le istituzioni locali sono meno sviluppate di quelle nazionali (centrali) e di conseguenza le capacità dei dipendenti di controllare e combattere gli abusi sono minori delle analoghe dei dipendenti centrali[15]. Tanzi menziona vari fattori che possono essere considerati responsabili di ciò e tra questi ce n’è uno che è particolarmente adatto a spiegare la situazione del nostro paese. Quando le persone possono scegliere se lavorare per il governo centrale o per quello locale, preferiscono il primo perchè sia le prospettive di carriera che il salario sono migliori. Per questo i soggetti più qualificati ed esperti si trovano nel governo centrale e per questo esso è meglio equipaggiato per contrastare gli abusi. Sia questa la ragione principale o no, è un fatto che in Italia il governo centrale è dovuto intervenire e assumersi la gestione, almeno temporaneamente, di servizi pubblici locali in diverse regioni (soprattutto nel Sud). Un esempio, noto anche internazionalmente e che, per quanto temporaneo, è in essere da più di 10 anni, è rappresentato dal servizio di raccolta dei rifiuti urbani a Napoli; ma vi sono altri casi meno noti, sebbene non meno gravi, di intervento centrale per destituire sindaci e sciogliere consigli comunali per legami con il crimine organizzato[16]. Analogamente se si guardano gli abusi di ufficio (di autorità) accertati, se ne trovano 159 nel 2005 e 169 nel 2006 in Sicilia e, negli stessi anni e rispettivamente, 134 e 124 in Calabria, 131 e 101 in Campania ed altri a seguire, con numeri minori, in Puglia, Lazio, Lombardia . E la stessa graduatoria tra le regioni citate si osserva con riferimento al numero degli arresti operati[17]. Infine, anche Transparency International trova segni di maggiore corruzione a livello locale se non altro perchè trova una significativa correlazione negativa tra l’Indice di Percezione della Corruzione (CPI) e alcuni indicatori economici tra i quali il PIL. Più basso il PIL, il suo tasso di crescita e gli investimenti stranieri, più alto il CPI.

          4.  In ultimo, alle citate condizioni non favorevoli al federalismo se ne deve aggiungere un’altra, del tutto diversa, rappresentata dall’obiettivo, a nostro avviso assolutamente condivisibile anzi auspicabile, peraltro contenuto nella Carta Costituzionale, di fornire a tutti i cittadini i servizi fondamentali e di fornirli in un livello adeguato. Maggiori le disparità economiche tra gli enti, maggiori dovranno essere i trasferimenti dal centro per soddisfare l’obiettivo, indebolendo con ciò ulteriormente le possibilità di funzionamento virtuoso del federalismo.

          Si può pertanto concludere che le condizioni “economiche” non consentono di aspettarsi miglioramenti di benessere dal federalismo[18],o per usare il nostro linguaggio, il federalismo non ha la possibilità di mantenere le promesse semplicemente perchè non può farne. Possiamo allora chiederci se le promesse politiche del federalismo possano essere mantenute o se invece il nostro non sia un altro caso di richiesta di federalismo derivante dalle regioni più ricche per il loro vantaggio. Sebbene quest’ultima circostanza sia evidente, proponiamo di prescinderne e di considerare che un certo decentramento/federalismo è previsto dalla Costituzione e che perciò una riforma federalista sia necessaria e addirittura in ritardo. Come dire, data la necessità di decentramento, vediamo se la tipologia concreta delineata porti o meno benefici e quali. Per poter procedere a questa valutazione, occorre analizzare le istituzioni attraverso le quali prenderebbe forma il decentramento e dedurre se esse possano o meno migliorare, in questo caso, garantire maggiore “pace e stabilità” quali promesse politiche del federalismo.

          Se guardiamo alla legge 42/2009 non è facile immaginare come prenderà forma il federalismo dato che essa si presenta piuttosto vaga anche rispetto a molte questioni essenziali. Il fatto che sia vaga potrebbe però essere un vantaggio qualora il legislatore fosse disposto a procedere ad aggiustamenti secondo le indicazioni che emergessero dall’esperienza. Ciononostante si possono sin da ora evidenziare alcuni aspetti poco promettenti, sia dal punto di vista economico che politico. Tra i primi menzioniamo: la scarsa autonomia fiscale, la fiscalità di vantaggio, l’individuazione dei servizi fondamentali generali.

          1.  Un punto decisamente debole e preoccupante riguarda la limitata autonomia fiscale (tributaria) degli enti subnazionali. Come è arcinoto non ci può essere vero decentramento senza autonomia impositiva che sola è in grado di responsabilizzare gli amministratori locali. Accanto a questa debolezza fondamentale preoccupa poi una “peculiarità” introdotta nel sistema di finanziamento e cioè il “collegamento” tra la fonte di finanziamento e la “tipologia” di spesa. A nostra conoscenza, e certamente nei paesi simili al nostro e con i quali si usa confrontarci, questo legame non esiste mentre, ed ovviamente, esiste il legame tra tipologie di finanziamento e livelli di governo. La ratio che ha portato a tale prescrizione è per noi piuttosto oscura mentre ci sembra chiaro che essa complichi la stesura del bilancio da parte degli enti locali, comprometta il principio dell’unità di bilancio e impegni ad individuare, con estremo dettaglio, le tipologie di spesa per poter loro attribuire le tipologie di entrata. Insomma, anche al di là dei dubbi che tale peculiarità solleva (avremo modo di vedere se in pratica avrà una sua funzione, sebbene non riusciamo ad immaginare quale, tale da giustificare le complicazioni introdotte), essa indebolisce ancor più l’autonomia fiscale Nel caso infatti in cui la dinamica della spesa cui è stato attribuito un dato tipo di entrata, divergesse (com’è molto probabile) da quella della fonte di finanziamento, non vi sarebbe altra possibilità che aumentare i trasferimenti (veri o camuffati). E tale meccanismo, come tutti quelli che lasciano prevedere l’ampliarsi dello spazio dei trasferimenti, riducono la credibilità del no bail out (vedi sopra) e se così è il federalismo è sempre più apparente che reale e, come già detto, un federalismo apparente non ha promesse da offrire.

          2.  La legge introduce la fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno perchè il legislatore “sa” che l’economia è dualistica e che il federalismo è un efficace motore di “ampliamento” dei divari. Pur prendendo atto che ciò dovrebbe rappresentare una risposta ad un problema vero e concreto come il divario Nord-Sud, e dubitando che ciò sia ammesso dalla comunità europea (ma questo lo si saprà presto), siamo perplessi sull’efficacia dello strumento. Se infatti l’idea è di attirare investimenti delle imprese nel Mezzogiorno grazie alla carota fiscale, ci domandiamo se e soprattutto quale tipo di imprese risponde a tale carota dal momento che , com’è noto, il Mezzogiorno soffre di carenze strutturali e di una produttività più bassa che nel resto del paese. Forse, come in passato, il tasso di natalità e mortalità delle imprese al Sud sarà elevato e/o numerose saranno le false localizzazioni.

          3.  Infine, veniamo al problema di offrire a tutti i cittadini i servizi fondamentali. Per far ciò occorre definire con chiarezza quali siano tali servizi, cosa si intenda in pratica per  livello adeguato e come si debba calcolare il costo standard . Rispetto a queste tre questioni basilari per il tipo di federalismo non può dirsi molto allo stadio attuale (vaghezza della L.42) e bisogna aspettare la legislazione che verrà nei prossimi due anni.

          Gli aspetti politici ugualmente poco promettenti che richiamiamo sono: la non rieleggibilità e il modo di attuare la cooperazione. Per quanto riguarda la “non rieleggibilità” dei governanti locali che si siano mostrati incapaci di perseguire l’efficienza, può dirsi che in prima battuta tale decisione possa apparire positiva o anche rafforzativa del federalismo, ma essa è invece una prova del fatto che il legislatore si aspetta che il federalismo non funzioni. Infatti, quando il federalismo funziona i governanti locali inefficienti non vengono rieletti e/o i cittadini cambiano giurisdizione (il voto con i piedi). Strano sistema il nostro nel quale è il governo centrale (!) a stabilire chi non è stato efficiente e che perciò non possa essere rieletto. Tutto ciò è davvero in aperto contrasto con le virt del federalismo che starebbero proprio nel recupero di efficienza tramite la selezione dei governanti efficienti da parte dei cittadini elettori (votanti). Il secondo aspetto riguarda la scarsissima attenzione che la legge pone nei confronti dei metodi/sistemi di coordinamento tra i diversi livelli di governo. Il coordinamento è necessario alle promesse politiche così come la responsabilità del finanziamento delle spese è necessaria a quelle economiche. Per quanto poco definito (speriamo dunque in miglioramenti sostanziali nei prossimi due anni) che il modo di affrontare la cooperazione tra livelli di governo sia quello dell’istituzione di comitati dove avverrebbero le “negoziazioni” tra centro e governi subnazionali, non apre buone prospettive. Forse non occorre sottolineare come la negoziazione avvantaggi gli enti locali politicamente più forti (ed economicamente più ricchi) mentre il ricorso a regole/formule sulla cui base regolare l’intervento del centro[19] e, più in generale, la disciplina fiscale degli enti locali, sarebbe necessario per le promesse del federalismo. Né ci sembra che l’organizzazione dei partiti politici sia tale da produrre la sperata cooperazione.

          In questo contesto ci sembra molto difficile che scaturisca disciplina fiscale. Perchè ciò si realizzi occorre o vera autonomia fiscale dei governi locali o un governo centrale politicamente forte rispetto a quelli subnazionali. Nel nostro caso nessuna delle due condizioni è soddisfatta. Ad una limitata autonomia fiscale, limitatissima a livello comunale[20], si associa un centro politicamente debole che cerca di soddisfare le richieste di federalismo provenienti dalle regioni più ricche del nord che, senza meraviglia, sono anche politicamente forti. In queste condizioni, il risultato del giuoco tra centro e governi locali è, a nostro parere, e purtroppo, prevedibile ma siamo “curiosi” di vedere quale sarà il giudizio delle agenzie di rating, cioè del mercato. Difficile aspettarsi un “p” prossimo all’unità.

          Conclusione
          Le condizioni economiche e politiche affinché il federalismo possa mantenere le sue “promesse”, in un quadro di istituzioni coerente, sono note; non manca che disporre di un indicatore sintetico per sapere se, nei diversi paesi, prevarranno le promesse o i pericoli, incluso il nostro nell’attuale fase di riforma. Un tale indicatore sintetico può essere la probabilità di salvataggio dei governi locali da parte del centro e il cui valore viene fornito dal mercato tramite le agenzie di rating. Utilizzando questo indicatore, il politologo Rodden ha ripercorso la storia economica di molti paesi formalmente federali ed ha trovato che ben pochi lo sono veramente (in tutto tre). Se ne deduce che la diffusione del federalismo cui assistiamo, probabilmente porterà più pains  than gains. E questo sembra il caso italiano. Le condizioni economiche non sono favorevoli, né lo sono quelle politiche mentre quelle istituzionali (L. 42) sono ancora (fortunatamente?) poco precise/chiare. In sintesi, la riforma federalista è probabilmente necessaria ma dobbiamo sapere che avrà un costo economico al quale ci si augura si accompagni il dividendo politico in termini di “peace and stability”. Ciò che dovremmo evitare è la situazione che Rodden definisce “miscela esplosiva” caratterizzata da un centro fiscalmente forte ma politicamente debole rispetto alle regioni. Segnali che stiamo andando verso questa miscela purtroppo ce ne sono nella L. n. 42, ma molte questioni fondamentali devono ancora essere definite. Nei due anni di attuazione che ci aspettano, potremmo pragmaticamente delineare istituzioni necessarie a consentire la realizzazione delle promesse o, almeno, ad allontanare i rischi di miscele esplosive. Non sappiamo se il mercato valuti molto le doti di pragmatismo degli italiani, ma, arrivati a questo punto, noi ci speriamo.

          Referimenti bibliografici

          Note

          1.  Usiamo come sinonimi, per quanto non lo siano, i seguenti termini: federalismo, decentramento, livelli molteplici di governo, sovranità divisa, governi locali. La nostra analisi è finalizzata a discutere i fondamenti dei benefici sociali che deriverebbero da un’ organizzazione di tipo decentralizzato vs una centralizzata.

          2.  E’ forse il caso di richiamare che la disciplina fiscale (autonomia impositiva e di indebitamento) non coincide con il vincolo di bilancio debole vs vincolo di bilancio forte.

          3.  Non consideriamo la funzione stabilizzatrice.

          4.  Rodden J.A., Hamilton’s Paradox. The Promise and Peril of Fiscal Federalism, Cambridge university press, 2006.

          5.  Rodden, p.11. Questo sembra per esempio essere il caso concreto della Germania.

          6.  E’ forse il caso di sottolineare come la posizione dichiarata del governo centrale sia quella di non intervenire, altrimenti non vi sarebbe decentramento formale, ma nonostante ciò, ci si può attendere l’intervento in caso di necessità. Per questo i governi locali ipotizzano se e con quale probabilità il centro interverrà o meno (rispettivamente centro non-risoluto e risoluto).

          7.  In linea con l’impostazione scaturita da Buchanan-Tullock (62).

          8.  Il momento d’oro delle agenzie di rating è al presente già alquanto offuscato perché, come è apparso in vari casi, contribuiscono a creare aspettative a favore o contro specifici tipi di investimento.

          9.  Ovviamente maggiore efficienza nell’offrire i servizi pubblici ma anche maggiore consapevolezza civile, aumento dello sviluppo regionale, maggiore partecipazione democratica, maggiore controllo sugli amministratori, e, per qualcuno, anche riduzione del debito pubblico.

          10.  Il caso della tassazione del capitale in Europa (ma si potrebbe estendere al Mondo) è un esempio molto significativo: gli stati competono nell’attrarre investimenti di capitale straniero tramite la riduzione della tassazione.

          11.  Bentivoglio-Del Colle,

          Occasional Papers

              , B.I., n.20, 2009

              12.  Carmignai-Giacomelli,

          Occasional Papers

              , B.I., n. 40, 2009

              13.  Bovi-Castellucci,

          Cosa sappiamo dell’economia sommersa in Italia al di là dei luoghi comuni? Alcune proposizioni empiricamente fondate

              , in

          Economia Pubblica

              , n.6, 2001.

              14.  Proud’home Remy, The Dangers of Decentralization, World Bank Research Observer, vol.10, n.2, agosto, 95. Tanzi Vito, Fiscal federalism and decentralization: a review of some efficiency and macroeconomic aspects, Annual Conference World Bank, 1995, p. 295-316.

              15.  Tanzi V., Pitfalls on the Road to Fiscal Decentralization, Carnegie Endowement Working Paper, 2001, n.19, p.7

              16.  Di questo tipo di interventi se ne sono avuti 12 in Calabria, 14 in Campania, 15 in Sicilia, 1 nel Lazio, nel periodo 2003-2006. Si veda Alto Commissariato Anticorruzione: www.anticorruzione.it

              17.  Rapporto 2007, Alto Commissariato Anticorruzione

              18.  Il quadro è ancora più complicato di così e basterebbe citare il patto di stabilità interna e il rapporto che lega regioni e governo centrale, non ancora chiaramente definito dopo il mutato Titolo V della Costituzione (2001), per immaginare la portata delle questioni coinvolte. In effetti, ma non entriamo in questa questione, non si tratta di un vero “patto” perchè non c’è negoziazione tra regioni e centro; quest’ultimo impone l’obiettivo di rientro e le regioni si devono adeguare salvo poi non specificare se e il tipo di sanzioni nelle quali incorrerebbero le regioni inadempienti.

              19.  Si veda IMF, Manual on Fiscal Transparency, Washington D.C., 2005

              20.  Senza entrare nel dettaglio vogliamo richiamare due questioni non trascurabili. Precisato che la riforma federale che discutiamo è in realtà una riforma regionale, rispetto all’autonomia fiscale locale essa fa “arretrare” il decentramento di una quindicina di anni grazie all’abolizione dell’ICI sulla prima casa, fondamentale imposta comunale. L’introduzione di questa tassa aveva richiesto un lunghissimo processo perchè si era dovuta superare la ritrosia del contribuente italiano alle imposte sulla proprietà. Al momento della sua abolizione, per una ventata elettorale, stava dando buoni risultati, era stata accettata dal contribuente e aveva finalmente raggiunto una sua efficienza e “personalizzazione”. Con il suo venir meno, ma speriamo in un provvidenziale “ravvedimento”, i Comuni non hanno praticamente entrate autonome rilevanti. Oltre a ciò i Comuni, che a nostro parere dovrebbero giuocare un ruolo ben più importante nel decentramento data la loro rilevanza nella cultura italiana (si veda per esempio Putman), vengono penalizzati anche nel tipo di coordinamento previsto. La riforma li obbliga a contatti diretti con il livello di governo regionale piuttosto che con quello centrale come invece storicamente preferiscono e la cooperazione tra livelli di governo è cruciale per le promesse politiche. Insomma nell’Italia dei molti campanili, effettivamente ancora radicati nella sua tradizione socio-culturale, proprio i Comuni sembra debbano essere messi da parte.