Gli incerti confini dell’urbanistica consensuale

Il nuovo Piano Regolatore di Roma approvato nel febbraio scorso [1] mediante ‘accordo di pianificazione’ secondo la disciplina speciale della legge urbanistica regionale del Lazio [2] contiene più di un esempio di ‘urbanistica consensuale’.
Il TAR del Lazio [3] lo ha però già annullato perché era stata omessa una fase dell’iter di approvazione.
Sia il ricorso, accolto limitatamente a questo aspetto, sia altri ricorsi non ancora decisi dal TAR sollevano ulteriori censure che involgono nel merito le scelte del PRG, sicché il risultato di questa prima sentenza, del resto appellata dal Comune, anche indipendentemente dall’esito dell’appello al Consiglio di Stato, coinvolge la nuova Amministrazione capitolina che non soltanto è chiamata a emendarne il vizio procedurale, ma che ha anche il potere (e mostra di volerlo esercitare) per considerare le altre censure sollevate, fino a rivedere il progetto senza rinuncia a quel margine di discrezionalità che le compete, non da ultimo per essere espressione di una maggioranza diversa da quella che aveva approvato il PRG.
Se ne è parlato nella sala della Protomoteca in Campidoglio nel convegno promosso dall’INSTEGI e dall’AGIFOR [4] il 1° aprile 2009, con relazione introduttiva del nuovo assessore all’urbanistica l’avvocato M. Corsini e son state esaminate le varie prospettive di possibile adeguamento alla pronuncia del TAR: dall’ipotesi massimamente riduttiva, limitata alla sola riedizione delle scelte di Piano Regolatore con il mero passaggio in Consiglio che era stato omesso, ad un’integrale nuova progettazione, in buona sostanza svincolata dal precedente annullato.
Il problema procedurale passa così in secondo piano, anche se nasce da quella articolazione dell’azione amministrativa che costituisce speciale particolarità della legge regionale per la Capitale.
La legge laziale prevede che la tradizionale procedura trifasica: dell’adozione comunale, dell’acquisizione partecipativa degli interessi dislocati sul territorio e quindi dell’approvazione regionale, si sviluppi con una pluralità di ulteriori passaggi intermedi segnati dal necessario incontro di assensi e concerti dei vari centri di interesse coinvolti, appunto, sin dalla preparazione del PRG.
Una tale più complessa scansione dell’iter di formazione del Piano Regolatore trovava i suoi antecedenti di contenuto, ma anche di metodo, nella c.d. Variante delle certezze [5], e rispondeva agli orientamenti più recenti in tema di organizzazione amministrativa e di procedimento, modulati sulla formazione di atti di consenso.
Sul piano organizzativo la legge regionale affida al concerto con centri esponenziali di diversi interessi pubblici, a partire dalla stessa Provincia, modalità più aggiornate per acquisire adesione, condivisione e partecipazione alle scelte di piano. Quanto all’aspetto procedimentale una tale acquisizione percorre gli istituti negoziali, in particolare quelli introdotti più di recente nel novero dei mezzi di esercizio dell’azione amministrativa [6].
L’atto terminale di approvazione del nuovo PRG secondo la disciplina speciale per Roma consiste così nella delibera del Consiglio comunale di contestuale ratifica dell’accordo di co-pianificazione stipulato fra il Sindaco e il Presidente della Regione, sentito il Presidente della Provincia e previa ratifica dell’accordo anche da parte della Giunta regionale.
Il vizio censurato dal TAR è consistito nella mancata nuova sottoposizione a deliberazione da parte del Consiglio comunale delle modifiche apportate al progetto di piano, diverse da quelle di mero adeguamento agli strumenti di pianificazione di ambito regionale o statale, perché le modifiche introdotte dalla Conferenza di co-pianificazione rendevano necessaria questa ulteriore fase deliberativa. Il compito della Conferenza di servizi, convocata dal Sindaco, d’intesa con il Presidente della Regione, e costituita da dirigenti delle strutture tecniche competenti del Comune, della Provincia e della Regione, era di convenire lo schema di accordo che recepisse non solo le modifiche necessarie a conformare il piano alle previsioni di pianificazione territoriali e di settore, di ambito regionale o statale (in tal caso non sarebbe stato necessario nuovo passaggio in Consiglio comunale), ma anche di stabilire le modifiche che si erano rese necessarie a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dai privati, il tutto allo scopo di garantire razionalità e omogeneità dell’intera disciplina urbanistica adottata.
La Conferenza è organo tecnico, le modifiche a seguito di osservazioni partecipative richiedono deliberazione dell’organo politico: da qui l’esigenza del nuovo passaggio in Consiglio comunale che il TAR ha ritenuto ineludibile.
Il vizio sanzionato dal TAR del Lazio ha quindi una valenza ben pregnante e mette in gioco non un puro passaggio procedimentale, ma più in generale l’impianto e tutta una logica del PRG nella prospettiva dell’amministrazione consensuale.

2. Gli istituti del nuovo PRG che maggiormente esprimono questa logica e sui quali si concentra buona parte della criticità sollevata con i ricorsi giudiziari tuttora pendenti sono quelli disciplinati agli articoli da 17 a 22 delle Norme Tecniche di Attuazione. Si tratta del Capo 4° con i Criteri e modalità di Perequazione, in particolare enunciati all’art. 17, sviluppati poi nell’art. 18 sugli Ambiti di compensazione. In questo quadro istituzionale l’art. 19 regola le Compensazioni urbanistiche con l’applicazione del principio dell’equivalenza economica, sia per definire il Contributo straordinario di urbanizzazione (art. 20) da un lato e per altro verso gli Incentivi per il rinnovo edilizio (art. 21) per finire con la disciplina della Cessione compensativa (art. 22).
Le tecniche sono quelle già sperimentate in una pluralità di Comuni, e già in più occasioni norme di tal genere son state sottoposte al vaglio della magistratura amministrativa.
Nel corso del dibattito alla Protomoteca si sono confrontate le diverse opzioni interpretative, senza omettere le considerazioni più di fondo, come ad esempio da un lato la sottolineatura degli elementi dello statuto della proprietà fondiaria di derivazione più europea e attenta alle regole del mercato e della concorrenza (E. Picozza), e dall’altro il richiamo ai valori classicamente garantistici dell’inerenza delle vocazioni edificatorie (G. Lavitola).
Sullo sfondo c’è il consenso, e nell’esercizio delle funzioni pubbliche il termine evoca l’istituto della sussidiarietà [7].
Un aspetto tipico della disciplina urbanistica è appunto la pervasività del pianificatore pubblico sulla concreta utilizzazione dei suoli, e nello schema classico del rapporto fra PRG atto amministrativo generale (ad ampia discrezionalità) e disciplina dell’edificabilità del singolo lotto (a contenuto vincolato) una suggestiva sollecitazione a utilizzare tecniche aggiornate è quella di digitalizzare tutte le previsioni di PRG in modo che ogni domanda edilizia possa avere risposta immediata, affidata a mero confronto in tempo reale con la previsione di PRG, traducendosi in tale modalità operativa il principio dell’obbligatorietà del rilascio del titolo, senza spazio a discrezionalità il cui esercizio è tutto concentrato nell’atto di Piano (F. Satta).
Per gli interventi più complessi che, invece, coinvolgono pluralità di destinazioni di Piano, la loro attuazione sperimenta moduli di condivisione e di accordi risalenti all’esperienza quanto mai diffusa delle lottizzazioni convenzionate ove la realizzazione attuativa delle previsioni di carattere generale, nel caso non sia eseguita con intervento pubblico, è previsto possa essere assunta dal privato con l’obbligo di dotare il territorio dei servizi essenziali all’insediamento abitativo e in cambio l’abilitazione a costruire e quindi a vendere l’edificato.
Lo schema negoziale entra così direttamente nella modalità di pianificazione dello sviluppo urbano, proprio in una delle ipotesi di maggiore esercizio del potere di pianificazione pubblica, qual è la disciplina urbanistica.
3. Il consenso quale elemento centrale nell’esercizio delle funzioni pubbliche, come si è visto, induce a parlare, fra l’altro, di urbanistica consensuale, e un aspetto di questa accezione riguarda le modalità di distribuzione dei valori economici dei suoli per effetto dello sviluppo dell’abitato.
Da qui la rinnovata attenzione al tema della perequazione urbanistica.
Quando già la legge urbanistica n. 1150 del 17 agosto 1942 prevedeva fra gli obiettivi della pianificazione urbanistica la perequazione, l’istituto era affidato essenzialmente a due strumenti: l’esproprio disciplinato dall’art. 18 e il comparto edificatorio di cui all’art. 23, per vero in termini assolutamente diversi da come lo si intende oggi, come obiettivo di perequazione, cioè di equa redistribuzione dei costi e dei benefici dello sviluppo urbano secondo metodi e tecniche di regolazione complesse.
Anche allora il problema era quello di contenere gli effetti obbiettivamente sperequativi dello sviluppo urbano e, in genere, del governo del territorio in chiave pubblicistica: la disciplina era impostata su una trama di strumenti di pianificazione degli utilizzi della proprietà fondiaria, essenzialmente per limitarne quegli usi che si rivelassero in contrasto con le previsioni del piano e il rimedio alla sperequazione non andava oltre l’indennizzo di esproprio delle aree investite dalle opere di urbanizzazione o di pubblica utilità. In tale ottica l’indennità di esproprio aveva e conserva una funzione perequativa comunque in una qualche misura ridotta, e le vicende sull’equità dell’indennizzo sono ben note quanto tuttora problematiche.
Il Piano Regolatore, però, oltre alla localizzazione delle opere pubbliche, conforma la proprietà fondiaria con prescrizioni d’autorità che dislocano le facoltà di utilizzo delle aree con indicazioni progettuali dirette a incidere sui valori immobiliari in modo necessariamente sperequante. Si tratta dell’esempio fra i più rilevanti dell’intervento pubblico che induce disuguaglianze, fra chi è avvantaggiato dalle scelte di piano e chi ne risulta penalizzato.
Nel corso del tempo, dal 1942 a oggi, altri rimedi perequativi sono stati, per un verso, l’onerosità della licenza edilizia, poi concessione, ora permesso di costruire, e, per altro verso, la manovra fiscale con l’imposizione sugli incrementi dei valori immobiliari.

A carico del costruttore sono stati posti gli oneri di urbanizzazione con soluzioni via via più articolate, che hanno visto il concorso dell’operatore sin dalla stessa progettazione esecutiva delle previsioni di piano; e si è posta l’alternativa fra la monetizzazione dell’apporto alle opere di urbanizzazione e la prestazione reale mediante realizzazione delle opere a scomputo, a compensazione, ecc.
Allorché il vincolo conformativo impresso dalla zonizzazione del territorio comunale secondo l’art. 7 della legge urbanistica incide in modo più penetrante, l’area è di pubblica utilità e si procede all’esproprio; tuttavia non è solo l’indennizzo di esproprio il mezzo che vale a neutralizzare gli effetti della previsione urbanistica per il proprietario; oltre al fatto che l’esproprio coattivo, persino ove l’indennizzo possa arrivare a corrispondere al valore di mercato dell’area, ha comunque un effetto che solo in parte riduce l’incidenza della previsione urbanistica che penalizza il proprietario espropriato e avvantaggia il vicino favorito dalla localizzazione dell’opera di pubblica utilità.
P. Stella Richter, che già nel 1968 ha trattato il tema della perequazione urbanistica nell’accezione con cui oggi è inteso l’istituto [8], muoveva le sue riflessioni a partire dalla considerazione della legge urbanistica del 1942 come legge che si era limitata a utilizzare lo strumento dell’esproprio per perseguire obbiettivi di governo dello sviluppo urbano e poi, più in generale, di governo del territorio, per giungere alla conclusione di una doppia incostituzionalità di quella normativa, per violazione congiunta dei due parametri di legittimità: uguaglianza (art. 3 Cost.) e imparzialità (art. 97 Cost.).
Per superare gli effetti sperequativi della legge urbanistica si era operato con l’indennizzo di esproprio e con la manovra fiscale sugli incrementi dei valori immobiliari, ma già allora l’Autore portava ad esempio prassi amministrative anticipatrici di quello che auspicava dovesse condurre al superamento legislativo dei limiti dell’ordinamento giuridico che denunciava arretrato rispetto allo sviluppo della tecnica urbanistica: e concludeva ammonendo che “sarebbe un grave errore fare ancora una volta nuove leggi senza tener conto dell’esperienza già acquisita” perché, osservava, “in nessun campo come in quello urbanistico si ravvisa forse un così grande distacco degli studi giuridici – ancorati sin’ora ad una normativa completamente superata – dalla realtà sociologica ed economica, dalla prassi amministrativa e dalle conquiste degli studi tecnici”.
Da allora sono passati quarant’anni. L’obiettivo della perequazione urbanistica ha avuto applicazioni non più soltanto pionieristiche. La cultura giuridica ne ha sviluppato i caratteri e i contenuti, di talché le forme più attuali inducono ad applicazioni anche più articolate dei metodi perequativi per un’urbanistica che si è indicata come urbanistica consensuale, fino a considerare possibile e auspicabile:
a) il superamento della zonizzazione rigida dell’art. 7 della legge urbanistica del ’42;
b) un alleggerimento del collegamento fisico che lega la proprietà a ciascun lotto delle aree d’ambito investite da processi di trasformazione territoriale;
c) una scissione dell’edificabilità dal diritto di proprietà di ciascun lotto, così aprendo accesso a meccanismi di mercato per la circolazione negoziata dell’incremento dei valori immobiliari.
Più in dettaglio, in particolare negli studi di P. Urbani e di E. Boscolo [9], il metodo della perequazione urbanistica per come adottato in alcune esperienze di programmazione comunale e in molte leggi regionali risulta connotato da questi caratteri:
a) l’obiettivo della perequazione opera in sede di attuazione delle previsioni di piano e agisce su aree omogenee, che non necessariamente coincidono con gli ambiti sui quali si operava con le vecchie regole del comparto; anche la disciplina del comparto aveva analoghi obiettivi perequativi, ma in mancanza di consenso del proprietario che non si adegui alla previsione pubblica il suolo va espropriato;
b) la novità consiste, invece, nel perseguire comunque una libera negoziazione: si attribuisce a ogni lotto un indice di edificabilità fondiaria parificata per tutte le aree ricomprese nell’ambito di intervento, partendo dall’indice astrattamente riferibile alla zona e decurtandolo di una quota che serve per la realizzazione delle opere pubbliche di urbanizzazione o di interesse sociale; in tal modo l’incidenza degli oneri urbanizzativi è ripartita equamente fra tutti i proprietari di lotti ricompresi nell’area d’ambito, indipendentemente dalla localizzazione fisica dell’opera pubblica;
c) per l’utilizzo in concreto dell’indice di edificabilità si apre una negoziazione che consente di trasferire su altra area libera l’indice fisicamente non utilizzabile sul lotto destinato all’esecuzione dell’opera pubblica;
d) vi sarà un mercato dell’edificabilità, una “borsa” che pone in circuito i valori dell’edificabilità, senza le rigidità degli effetti ablativi propri dell’espropriazione o dell’asservimento.

Sono evidenti gli effetti sullo statuto della proprietà fondiaria, ma la negoziazione del diritto edificatorio non è impedita dalla sua natura di facoltà di utilizzo del bene immobile senza i caratteri propri di un diritto autonomo, e la questione è se serva una modifica legislativa o sia sufficientemente legittimata l’esperienza amministrativa dei Comuni i cui atti di Piano restano atti amministrativi generali non normativi, oltre alla questione se l’eventuale legge innovativa possa essere legge regionale, di cui v’è già una discreta molteplicità di esempi in vigore, ovvero se la competenza legislativa in materia sia riservata allo Stato.
La giurisprudenza al riguardo è intervenuta su casi che ancora solo marginalmente hanno investito il metodo così delineato e i problemi affrontati sono stati essenzialmente le modalità di realizzazione di urbanizzazioni a scomputo o a compensazione, che perseguono analoghi obbiettivi perequativi, ma con soluzioni più limitate e parziali, nell’alveo pur sempre dell’onerosità del permesso di costruire.
Nell’esperienza propriamente riferibile alla perequazione urbanistica si va molto oltre le pure tecniche di riparto degli oneri di urbanizzazione che ciascun proprietario di lotto edificabile deve concorrere ad assumere a proprio carico, conservando la piena titolarità del lotto che gli appartiene.
Ciò che si persegue con queste più innovative esperienze di perequazione urbanistica è l’obbiettivo di una sostanziale indifferenza rispetto alle possibili destinazioni d’uso della proprietà di ciascun lotto e lo si raggiunge svincolando la facoltà edificatoria dall’appartenenza dell’area: senza esproprio ma soltanto mediante negoziazione dei valori corrispondenti alla facoltà distribuita equamente fra tutti i proprietari che insistono nell’area d’ambito.
M. Pallottino concludeva un suo recente lavoro sulla perequazione urbanistica per come si è venuta delineando nell’attuale esperienza [10], affermando che “il diritto edificativo non corrisponderebbe ad una facoltà inerente al diritto di proprietà, bensì ad un diritto autonomo svincolato dal suolo, ma che per poter essere esercitato sarebbe necessario che si unisca con il diritto di proprietà (o meglio confluisca nella titolarità del soggetto proprietario dell’area edificabile)”.
L’Autore riteneva che ciò non incidesse sui caratteri essenziali dello statuto della proprietà fondiaria, non necessitasse dunque di un’innovazione normativa nella materia dell’ordinamento civile riservata al legislatore statale (art. 117, comma 2 Cost.), affermando quasi per paradosso che “l’edificabilità concreta riconosciuta dal piano, giuridicamente non è un’utilità (addizionale) attribuita al diritto di proprietà, bensì è una limitazione di quel diritto” e ad una tale conclusione giungeva dopo aver notato che “la quantità di edificabilità riconosciuta dal piano ad un’area e la medesima destinazione a inedificabilità si sostanziano, per l’attuale statuto della proprietà fondiaria, in altrettanti limiti della facoltà edificativa del diritto di proprietà”.
La perequazione urbanistica, quindi, intervenendo non su valori aggiuntivi alla proprietà bensì sui suoi limiti, avrebbe tutto lo spazio di intervento senza pregiudizio dei diritti dominicali.
La negoziazione dei diritti edificativi si basa su tale ricostruzione, che indurrebbe a superare il problema del lotto concretamente e specificamente destinato alla realizzazione dell’opera di pubblica utilità che il proprietario non cederebbe, spogliandosene della titolarità, in quanto il suo diritto edificatorio sarebbe fatto salvo o mediante la sua compravendita ovvero mediante l’assegnazione di altra area edificabile.
Qui, però, la perequazione urbanistica si presenta nella sua problematicità più delicata, tanto è vero che, a parte il valore evocativo della consensualità, oltretutto accompagnata con il concetto di ‘Piano aperto’, con il superamento del Zoning in favore della funzionalizzazione delle direttrici di sviluppo, con il Piano dei servizi dell’esperienza lombarda, ecc., resta pur sempre irrisolta la questione delle tutele, per il caso in cui il consenso non venga raggiunto e il titolare del lotto destinato all’opera pubblica non si adegui alle modalità perequative che lui ritenga per sé non soddisfacenti.
Non mancano nelle proposte di legge presentate al Parlamento rimedi e incentivi volti a superare eventuali remore all’adesione al progetto perequativo: ad esempio, si prevede una durata limitata nel tempo (cinque anni) della previsione edificatoria e dei relativi oneri attribuiti a ciascun proprietario incluso nell’ambito di trasformazione urbana; si prevede tipizzato il contratto di trasferimento di volumetria; si ipotizzano associazioni fra i proprietari dei beni immobili rientranti nell’ambito territoriale di trasformazione, con poteri di decisione riservati alla sola maggioranza del 50,1 per cento del valore catastale degli immobili; si prevedono negoziazioni e trasferimenti in alternativa all’indennizzo monetario dei vincoli di destinazione pubblica impressi anche su terreni non ricompresi nell’area dell’ambito oggetto di attuazione perequativa, ivi compresa la perequazione intercomunale; si prevede il trasferimento facoltativo dei diritti edificatori rinvenienti dal lotto ceduto gratuitamente al Comune per la realizzazione dell’opera di pubblica utilità in alternativa all’indennità di esproprio [11].
E tuttavia questo quadro di misure di contorno della perequazione urbanistica, anche ove adottate, non paiono sufficienti a delineare nella sua completezza questa nuova figura che giunge a scindere il diritto edificatorio dalla proprietà del lotto, ma soprattutto induce mutamenti nella titolarità dei diritti di proprietà fondiaria per i quali non può restare irrisolto il dilemma fra adesione al progetto di perequazione necessariamente spontanea (o indotta e agevolata, ma pur sempre liberamente assunta) e l’intervento autoritativo, per quanto condiviso e basato su un consenso diffuso e, tuttavia, non necessariamente unanimemente accettato. La pianificazione urbanistica, per quanto sia tesa alla condivisione delle scelte, ha pur sempre un carattere e un ineludibile momento di determinazione autoritativa: il collegamento dell’uso del territorio con la proprietà fondiaria individuata sul singolo lotto resta il terreno proprio su cui si misurano gli istituti giuridici e i principi fondanti della convivenza nel momento storicamente determinato.

Note

1.  Il nuovo PRG di Roma è stato approvato con delibera del Consiglio comunale n. 18 del 12 febbraio 2008.

2.  La legge urbanistica regionale del Lazio n. 38 è del 22 dicembre 1999, ma l’art. 70 della legge regionale 26 aprile 2006, n. 4 vi ha aggiunto un articolo 61 bis con disposizioni transitorie per la formazione e approvazione dello strumento urbanistico generale del Comune di Roma che, premesse le ragioni di specialità della disciplina, dispone che la formazione e l’approvazione del nuovo PRG avvenga mediante accordo di pianificazione istruito da una conferenza di co-pianificazione con il compito di convenire sullo schema di accordo per la stipula fra il Sindaco e il Presidente della Regione sentito il Presidente della Provincia. L’accordo sarà poi ratificato sia dalla Giunte regionale che dal Consiglio comunale, organo quest’ultimo che contestualmente approverà definitivamente il piano adottato. E molte delle successive fasi attuative del PRG contengono ipotesi di accordi fra amministrazioni e delle amministrazioni con gli operatori.

3.  Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sez. II, 19 marzo 2009, n. 2860. Per la speciale norma di legge regionale la fase che doveva tornare a investire il Consiglio comunale era stata invece omessa, ritenendosi che le modifiche apportate al progetto già approvato una prima volta in Consiglio fossero irrilevanti a quel riguardo, e che non bastava la ratifica conclusiva dell’accordo di pianificazione assunta contestualmente all’approvazione del PRG.

4.  L’Istituto Nazionale per gli Studi Tecnico Giuridici e l’Associazione Giovanile Forense hanno organizzato il convegno sul “Nuovo Piano Regolatore Generale di Roma”,aperto dall’Assessore capitolino all’urbanistica M. Corsini e concluso da S. Orestano, con relazioni di giuristi, urbanisti architetti, ingegneri, sociologi, operatori dell’Amministrazione e del foro.

5.  La c.d. Variante delle certezze era stata approvata dalla Regione Lazio con la delib. di Giunta n. 856 del 2004.

6.  Per tutti vale la previsione dell’art. 1-bis della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005 che, integrando e modificando la legge fondamentale sul procedimento amministrativo, ha esteso e generalizzato la previsione, altrimenti circoscritta, dell’art. 11 della medesima legge n. 241 sugli accordi procedimentali o sostitutivi di provvedimento, quella dell’art. 14 sulla conferenza di servizi che decide a maggioranza degli orientamenti espressi in conferenza, superando il criterio rigido dell’unanimità, cioè dell’assommarsi degli apporti richiesti a ciascuna delle amministrazioni coinvolte nel procedimento, e più in generale dell’art. 15 sugli accordi fra pubbliche amministrazioni e infine dell’art. 19 di liberalizzazione. Nella sua relazione al convegno dell’INU Lombardia a Milano l’11 maggio 2005 con il titolo “Pianificare per accordi”, in Riv. Giur. Ed. n 4/2005 pp. 177 e ss., P. Urbani non mancava di rimarcare l’ossimoro irrisolto della ricerca di fondare sul consenso e sul libero accordo l’attività di pianificazione che è esercizio del più tipico potere autoritativo.

7.  L’istituto è ora previsto espressamente dall’art. 118, 4° comma della Costituzione come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 di riforma del Titolo V, ma deriva più in generale dall’art. 2 della stessa Carta fondamentale.

8.  P. Stella Richter, Il potere di pianificazione nella legislazione urbanistica, in Riv. Giur. Ed. 1968, 103 ss.

9.  P. Urbani,Urbanistica consensuale, Torino 2000; E. Boscolo, La perequazione urbanistica: un tentativo di superare la intrinseca discriminatorietà della zonizzazione tra applicazioni pratiche ed innovazioni legislative regionali in attesa della riforma urbanistica, in AA.VV. (a cura E. Ferrari), L’uso delle aree urbane e la qualità dell’abitato, Milano, 1999 pp. 193 ss.; E. Boscolo, Una conferma giurisprudenziale (e qualche novità legislativa) in tema di perequazione urbanistica, in Riv. Giur. Ed., 2003.

10.  M. Pallottino, La perequazione urbanistica, profili giuridici, in AA.VV. (cura P.L. Mantini), Sulla legge di principi in materia ‘governo del territorio’, Roma, 2005.

11.  Gli esempi sono tratti dall’art. 21, atto Camera n. 329 (d.d.l. Mariani) XVI legislatura; dall’art. 9, atto Camera n. 438 (d.d.l. Lupi) XVI legislatura); dall’art. 10, atto Camera n.1794 (d.d.l. Mantini) XVI legislatura. I testi sono anche raccolti in apposito dossier del servizio studi della Camera dei Deputati del marzo 2009, accessibile al sito www.parlamento.it