“Inesistenza” delle delibere assembleari?

1. L’indagine è rivolta alla c.d. “categoria dell’inesistenza” alla luce della riforma del diritto societario, che ha perseguito, tra i suoi obiettivi, quello di “escludere” ipotesi di invalidità atipiche (così la Relazione di accompagnamento al decreto legge n. 6/2003 par. 5).
In un’esigenza di classificazione, che necessariamente determina un’arbitraria generalizzazione, la categoria dell’inesistenza, almeno in materia societaria, è stata sempre vista come uno scostamento della realtà dal modello legale, che risulta così significativo da impedire di ricondurre l’atto alla categoria della deliberazione assembleare.
Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. n. 7093/2006 e Cass. n. 16390/2007), ove la deliberazione assembleare si sia realizzata con modalità non semplicemente difformi da quelle previste dalla legge e dallo statuto, ma tali da far sì che la carenza di elementi o fasi essenziali non permetta di scorgere i lineamenti tipici dei quali una deliberazione dovrebbe essere connotata, allora quest’ultima sarebbe addirittura inesistente.
Storicamente, le ipotesi di inesistenza possono essere individuate nei casi di omessa convocazione di tutti o alcuni dei soci (da ultimo, Cass. n. 9364/2003), di mancata partecipazione dei soci (Cass. n. 835/1995), di svolgimento dell’assemblea in luogo diverso da quello indicato nella convocazione (Cass. n. 403/1993), di deliberazione adottata da una maggioranza diversa da quella prevista dalla legge e dallo statuto (Cass. n. 233/1967), di mancata verbalizzazione delle operazioni assembleari (Cass. n. 901/1990).
Coerentemente con la premessa enunciata, le ipotesi dianzi segnalate hanno ad oggetto la carenza di elementi richiesti dalla legge, di elementi dell’atto ovvero di fasi essenziali prodromiche all’assunzione del medesimo.
Sempre coerentemente, la logica adottata ha avuto ad oggetto ipotesi nelle quali si è inteso individuare un tertium genus di invalidità accanto a quelle descritte dal codice, della nullità e dell’annullabilità.
La logica richiamata è, dunque, una logica a tre valori, dove, accanto al vero e al falso, rileva il probabile. Una logica che non muove appunto dalla verità e falsità, ma dall’analisi probabilistica di un accadimento. Accanto alla nullità ed all’annullabilità, potrebbe verificarsi un’ipotesi di inesistenza, ove un atto esista nella sua materialità, ma si discosti dal modello legale in maniera assai significativa.
2. La riforma del diritto societario è una riforma di principio, che ha l’obiettivo di rendere tipiche le ipotesi sinora ricondotte alla c.d. categoria dell’inesistenza.
Come precisa la Relazione al decreto legge n. 6/2003, la Riforma ha inteso, da un lato, affermare il principio della tassatività delle ipotesi di invalidità, dall’altro lato, prevedere una riserva legale che impedisca al privato, e conseguentemente al Giudice, di elaborare ulteriori ipotesi di invalidità atipiche.
In realtà, a ben vedere, la Riforma ha sì previsto una riserva di legge, la quale, tuttavia, non ha ad oggetto le cause di invalidità, quanto piuttosto le forme, attraverso l’individuazione delle conseguenze riconducibili alla difformità del fatto, o della pluralità dei fatti, rispetto alla fattispecie.
In questa prospettiva devono essere lette le ipotesi previste nei nn. 1, 2 e 3 del quinto comma dell’art. 2377 cod. civ., nella funzione di tramutare casi, sino ad allora considerati dalla giurisprudenza quali ipotesi di inesistenza, a situazioni tipiche di difformità del fatto rispetto alla fattispecie, sanzionate con l’annullabilità delle medesime.
Nella stessa prospettiva deve essere letto il terzo comma dell’art. 2379 cod. civ. in tema di nullità delle deliberazioni ove alcune ipotesi vengono qualificate come casi di annullabilità ovvero di nullità.
Il sistema delineato ha, dunque, la finalità di rendere “tipici” tutti quei casi sinora dalla giurisprudenza qualificati come “inesistenza dell’atto”; l’operazione condotta non è così consistita nella negazione del problema, quanto piuttosto nell’offrire una risposta positiva a quelle ipotesi “atipiche” che avevano costretto la giurisprudenza ad elaborare la categoria dell’inesistenza.
In questa prospettiva è certamente un falso tema quello, più volte sollecitato, di ravvisare un contrasto tra l’opera della giurisprudenza e l’intervento del legislatore: la finalità non è stata “l’eliminazione” della categoria, quanto la conversione della “atipicità”; non più la negazione del fatto, ma la sussunzione dello stesso in una precisa norma.
Così, le varie situazioni sono state ricondotte talvolta alla categoria della nullità, talaltra a quella dell’annullamento, talaltra ancora sottolineando l’irrilevanza di una potenziale difformità del fatto dallo schema legale.
L’operazione legislativa ha avuto, dunque, l’obiettivo di ricondurre la materia ad una logica a due valori.
3. E’ indubbio che la logica statica posta alla base della nullità societaria sia stata la causa della “creazione” della categoria della inesistenza. Come è stato più volte sottolineato l’invalidità societaria è un’invalidità che non muove dall’atto in quanto tale, ma ha ad oggetto il procedimento attraverso il quale l’atto si forma.
Perché una delibera sia valida, non basta che vi sia un atto strutturalmente corrispondente alle norme, ma occorre che venga rispettato il procedimento di formazione dell’atto medesimo. E così: che i soci siano regolarmente convocati, che vi sia un’adunanza secondo quanto previsto dalla norma, che la delibera sia adottata con una maggioranza prevista dalla legge o dallo statuto, alla formazione della quale abbiano concorso persone legittimate al voto, che le operazioni assembleari siano verbalizzate. Ieri la disciplina era lacunosa in più parti, figlia del suo tempo. Oggi l’assenza o il vizio di una di queste tappe della sequenza procedimentale può, invece, determinare di per sé la nullità dell’atto, l’annullabilità del medesimo, ovvero l’irrilevanza del fatto secondo una valutazione espressa dall’ordinamento giuridico. La fattispecie, cioè l’atto-delibera, presuppone che tutte le fasi che precedono la delibera medesima siano accadute secondo quanto previsto dalla legge.
È vero che la fattispecie, e, dunque, la validità – invalidità, si risolve esclusivamente nella valutazione dell’atto, ma è altrettanto vero che l’atto, pur esistente, possa essere invalido perché non corrispondente alle varie fasi procedimentali che la legge valuta indispensabili.
Il diritto societario si svolge in una logica dinamica, non già in una logica statica; dire che l’atto è invalido, cioè che non vale per il diritto, può discendere non dall’atto in quanto tale, ma dall’assunzione del medesimo secondo le regole procedimentali che l’ordinamento impone. Ne discende che, nel mondo societario, l’atto invalido è esistente, ed a riprova di ciò, può essere indicato l’art. 2379 bis, l’art. 2379 ter e l’art. 2377, 3° e 4° comma.
In queste ipotesi, rispettivamente, pur invalido l’atto, questi non è annullabile, ovvero, sia pur nullo, può essere sanato, ovvero, come nell’ipotesi prevista negli artt. 2379 e 2379 ter, può essere fatta valere la nullità entro un certo periodo di tempo. Ne discende che l’atto invalido non è un atto che non vale, ma è un atto che vale, perché a prescindere dall’ipotesi della sanatoria, sono ravvisabili casi nei quali questi può spiegare regolarmente i suoi effetti seppur invalido. E ciò proprio a dimostrazione della logica dinamica nella quale va esaminata la delibera assembleare, nell’esigenza di far prevalere il funzionamento della società rispetto agli interessi dei singoli soci.
4. Il tema che si pone allora è se, attraverso il metodo casistico utilizzato, sia stata eliminata ogni ipotesi di invalidità atipica o se, invece, proprio per il metodo utilizzato (che ha ad oggetto le forme), possa ravvisarsi qualche ipotesi nelle quali riprenda vigore il tema dell’inesistenza.
La verità è che, come già sottolinearono Carnelutti e Ascarelli negli anni ’50, accanto alla normativa giuridica ha rilievo anche la c.d. tipologia sociale: se siano ravvisabili casi nei quali l’atto non può neppure essere considerato nullo pur essendovi, dal punto di vista sociale, una parvenza del medesimo. Si pensi al caso in cui, in mancanza di convocazione di un’assemblea, un gruppo di soggetti non legittimati abbia deliberato in un luogo diverso da quello previsto dalla legge o dallo statuto, in ordine a vicende relative alla società; e abbia assunto una delibera attraverso un verbale redatto alla presenza di un Notaio.
Il caso, all’apparenza assolutamente ipotetico, è invece nelle realtà accaduto, se solo si esamini il fatto deciso dal Tribunale di Milano, Sez. VIII, con la sentenza del 01/04/2008. In questa controversia, il Tribunale di Milano ha affermato che non può qualificarsi come delibera della società un atto qualificato come tale da un soggetto che si è auto attribuito la qualità di socio e si è auto costituito in assemblea all’insaputa degli organi sociali di amministrazione e controllo.
Con la richiamata sentenza, sembra rivivere la categoria dell’inesistenza, che il Tribunale di Milano ha considerato estranea alla categoria di cui all’art. 2377 cod. civ.
5. Il tema dell’inesistenza si pone in termini diversi rispetto al passato. Proprio la c.d. tipologia sociale aveva spinto la giurisprudenza ad elaborare la “categoria” dell’inesistenza, proprio in ragione della logica statica che aveva denotato la norma sulla nullità e della necessità di disciplinare ipotesi “atipiche” e pur rilevanti.
La qualificazione “inesistenza” non deve trarre in inganno: le ipotesi in essa considerate non erano irrilevanti per il diritto, quanto piuttosto ipotesi “atipiche” di invalidità.
La loro disciplina positiva ha solo reso tipiche ipotesi rilevanti, di cui oggi il legislatore disciplina, attraverso precise fattispecie, determinati effetti.
L’argomento che occorre porsi è allora altro: possono rivivere ipotesi “atipiche” di invalidità? Non interessa come le medesime vengano qualificate (invalidità atipiche, inesistenza etc.), quanto piuttosto se è possibile ipotizzare una “tipologia sociale” accanto a quella normativa.
6. Il caso descritto sembra negare la tipicità del sistema dell’invalidità in favore dell’atipicità dell’invalidità societaria.
È dunque su questo itinerario logico che occorre soffermare l’attenzione.
Per la sentenza richiamata, non è sufficiente, ai fini di considerare invalida una delibera assembleare, la parvenza di quest’ultima, intendendo per essa la formale, apparente provenienza della decisione dalla maggioranza del capitale sociale. Ma è, invece, indispensabile quantomeno una manifestazione di volontà dei soci espressa nella forma del voto, proveniente da una maggioranza anche apparente, alla quale tuttavia abbiano preso parte soci titolari di un diritto di voto.
L’assenza di una manifestazione di volontà di soci titolari di un diritto di voto sarebbe il discrimine attuale tra l’invalidità della delibera e l’inesistenza della medesima.
E’ inutile richiamare le teorie in materia di norma giuridica; basti qui ricordare che il procedimento di qualificazione giuridica di un fatto non dipende dall’efficacia, in quanto prima di essa deve verificarsi un momento intermedio, nel quale il fatto materiale viene sottoposto ad un giudizio di rilevanza, cioè il fatto materiale deve corrispondere al fatto ipotetico descritto dalla norma. La sussunzione del fatto materiale al fatto ipotetico determina la rilevanza di quest’ultimo sul piano giuridico. Il fatto materiale è, dunque, un’entità extragiuridica, che penetra nel sistema giuridico attraverso il criterio della rilevanza.
Nel mondo giuridico, dunque, la fattispecie è la totalità, al di fuori della quale non vi è nulla. Nello schema normativo non vi è spazio per il non essere, ma solo per l’essere e l’essere è la norma nei suoi elementi di fattispecie ed effetto giuridico. Dire che la fattispecie è la totalità significa affermare ciò che il diritto, nel suo essere ideale, valuta indispensabile affinché si producano conseguenze giuridiche; dunque, ciò che esiste nel mondo giuridico.
Affermare, di conseguenza, l’essere della categoria dell’inesistenza significa affermare l’esistenza del non essere, cioè di ciò che non è, cioè affermare la rilevanza del nulla giuridico.
Ma se del nulla non si può predicare nulla dal punto di vista filosofico, altrettanto va affermato dal punto di vista giuridico; l’ordinamento, essendo una creazione dello spirito, prevede soltanto l’essere; ciò che esiste per il diritto e non ciò che per il diritto non esiste.
Qui sta la logica profonda del diritto, che è una logica a due valori.
Il probabile, dal punto di vista giuridico, non può e non deve esistere, perché il diritto non è una scienza empirica. In questa prospettiva, affermare inesistente una delibera assunta da soggetti non legittimati, riunitisi al bar senza convocazione e che abbiano espresso una maggioranza contraria alle previsioni della legge e dello statuto, vuol dire affermare qualcosa che non è diritto; solo un fatto accaduto nella vita reale, ma del tutto irrilevante dal punto di vista giuridico.
Il diritto valuta ciò che è esistente per il diritto stesso, cioè la fattispecie, non già ciò che è inesistente, e cioè ciò che per il diritto non esiste. Se si vuole ravvisare in una maggioranza apparente, alla quale abbia partecipato qualche socio titolare di un diritto di voto, il contenuto minimo del fatto rilevante, si faccia pure; ma si qualifichi nulla per impossibilità dell’oggetto quella vicenda, senza dover, ancora una volta, evocare ipotesi di inesistenza che, giustificate in un recente passato, non trovano più alcuna giustificazione logica nel presente.