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“Inesistenza” delle delibere assembleari?

di - 19 Ottobre 2009
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3. E’ indubbio che la logica statica posta alla base della nullità societaria sia stata la causa della “creazione” della categoria della inesistenza. Come è stato più volte sottolineato l’invalidità societaria è un’invalidità che non muove dall’atto in quanto tale, ma ha ad oggetto il procedimento attraverso il quale l’atto si forma.
Perché una delibera sia valida, non basta che vi sia un atto strutturalmente corrispondente alle norme, ma occorre che venga rispettato il procedimento di formazione dell’atto medesimo. E così: che i soci siano regolarmente convocati, che vi sia un’adunanza secondo quanto previsto dalla norma, che la delibera sia adottata con una maggioranza prevista dalla legge o dallo statuto, alla formazione della quale abbiano concorso persone legittimate al voto, che le operazioni assembleari siano verbalizzate. Ieri la disciplina era lacunosa in più parti, figlia del suo tempo. Oggi l’assenza o il vizio di una di queste tappe della sequenza procedimentale può, invece, determinare di per sé la nullità dell’atto, l’annullabilità del medesimo, ovvero l’irrilevanza del fatto secondo una valutazione espressa dall’ordinamento giuridico. La fattispecie, cioè l’atto-delibera, presuppone che tutte le fasi che precedono la delibera medesima siano accadute secondo quanto previsto dalla legge.
È vero che la fattispecie, e, dunque, la validità – invalidità, si risolve esclusivamente nella valutazione dell’atto, ma è altrettanto vero che l’atto, pur esistente, possa essere invalido perché non corrispondente alle varie fasi procedimentali che la legge valuta indispensabili.
Il diritto societario si svolge in una logica dinamica, non già in una logica statica; dire che l’atto è invalido, cioè che non vale per il diritto, può discendere non dall’atto in quanto tale, ma dall’assunzione del medesimo secondo le regole procedimentali che l’ordinamento impone. Ne discende che, nel mondo societario, l’atto invalido è esistente, ed a riprova di ciò, può essere indicato l’art. 2379 bis, l’art. 2379 ter e l’art. 2377, 3° e 4° comma.
In queste ipotesi, rispettivamente, pur invalido l’atto, questi non è annullabile, ovvero, sia pur nullo, può essere sanato, ovvero, come nell’ipotesi prevista negli artt. 2379 e 2379 ter, può essere fatta valere la nullità entro un certo periodo di tempo. Ne discende che l’atto invalido non è un atto che non vale, ma è un atto che vale, perché a prescindere dall’ipotesi della sanatoria, sono ravvisabili casi nei quali questi può spiegare regolarmente i suoi effetti seppur invalido. E ciò proprio a dimostrazione della logica dinamica nella quale va esaminata la delibera assembleare, nell’esigenza di far prevalere il funzionamento della società rispetto agli interessi dei singoli soci.
4. Il tema che si pone allora è se, attraverso il metodo casistico utilizzato, sia stata eliminata ogni ipotesi di invalidità atipica o se, invece, proprio per il metodo utilizzato (che ha ad oggetto le forme), possa ravvisarsi qualche ipotesi nelle quali riprenda vigore il tema dell’inesistenza.
La verità è che, come già sottolinearono Carnelutti e Ascarelli negli anni ’50, accanto alla normativa giuridica ha rilievo anche la c.d. tipologia sociale: se siano ravvisabili casi nei quali l’atto non può neppure essere considerato nullo pur essendovi, dal punto di vista sociale, una parvenza del medesimo. Si pensi al caso in cui, in mancanza di convocazione di un’assemblea, un gruppo di soggetti non legittimati abbia deliberato in un luogo diverso da quello previsto dalla legge o dallo statuto, in ordine a vicende relative alla società; e abbia assunto una delibera attraverso un verbale redatto alla presenza di un Notaio.
Il caso, all’apparenza assolutamente ipotetico, è invece nelle realtà accaduto, se solo si esamini il fatto deciso dal Tribunale di Milano, Sez. VIII, con la sentenza del 01/04/2008. In questa controversia, il Tribunale di Milano ha affermato che non può qualificarsi come delibera della società un atto qualificato come tale da un soggetto che si è auto attribuito la qualità di socio e si è auto costituito in assemblea all’insaputa degli organi sociali di amministrazione e controllo.
Con la richiamata sentenza, sembra rivivere la categoria dell’inesistenza, che il Tribunale di Milano ha considerato estranea alla categoria di cui all’art. 2377 cod. civ.
5. Il tema dell’inesistenza si pone in termini diversi rispetto al passato. Proprio la c.d. tipologia sociale aveva spinto la giurisprudenza ad elaborare la “categoria” dell’inesistenza, proprio in ragione della logica statica che aveva denotato la norma sulla nullità e della necessità di disciplinare ipotesi “atipiche” e pur rilevanti.
La qualificazione “inesistenza” non deve trarre in inganno: le ipotesi in essa considerate non erano irrilevanti per il diritto, quanto piuttosto ipotesi “atipiche” di invalidità.
La loro disciplina positiva ha solo reso tipiche ipotesi rilevanti, di cui oggi il legislatore disciplina, attraverso precise fattispecie, determinati effetti.
L’argomento che occorre porsi è allora altro: possono rivivere ipotesi “atipiche” di invalidità? Non interessa come le medesime vengano qualificate (invalidità atipiche, inesistenza etc.), quanto piuttosto se è possibile ipotizzare una “tipologia sociale” accanto a quella normativa.

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