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Un economista insigne su ricchezza delle nazioni e diritto

di - 21 Settembre 2009
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Diritto della concorrenza. Dall’autore di “Contestable Markets” non ci si poteva attendere una sottolineatura meno marcata del rilievo della concorrenza ai fini del dinamismo di una economia di mercato. Il profitto non dev’essere garantito ex-ante, non dev’essere ‘facile’. “Le istituzioni statali devono garantire che gli imprenditori vincenti e le imprese più grandi e consolidate continuino a essere incentivati a innovare e a crescere, pena la caduta dell’economia nella stagnazione” (p. 9). Il pensiero purtroppo va all’economia italiana, che vive un ventennio di progressivo appannamento della produttività: profitti elevati, ma bassa crescita, sono il segno evidente di uno scemare delle sollecitazioni concorrenziali. L’esperienza dell’Italia – la legislazione italiana a tutela della concorrenza è del 1990 – conferma che l’azione antitrust può rivelarsi inefficace (p. 9). La ragione principale dell’inefficacia si annida proprio nel diritto, negli spazi di “caccia alla rendita” (p. 147) con mezzi legali che le norme sostanziali e i riti processuali non sempre precludono. Le azioni giudiziarie possono essere strumentalmente intentate da imprese che dispongono di abili avvocati più che di buoni prodotti. Possono prestarsi a indebolire, non a preservare, la concorrenza: “Ciò accade quando un’impresa, vedendosi condannata al fallimento dall’inferiorità dei suoi prodotti o dalla sua inefficienza, sposta lo scontro competitivo dal mercato alle aule dei tribunali, lamentando (falsamente o sulla base di prove opinabili) che l’impresa concorrente si comporta in modo predatorio” (p. 147). Anche se alla fine perdente, la lite temeraria consente all’impresa debole nel mercato di guadagnare tempo prezioso. Si citano nel libro i quattro grandi casi di cause giudiziarie anti-monopolio intentate dal Ministero della giustizia americano: contro AT & T, IBM e per due volte contro Microsoft. La transazione conclusiva con AT & T ha richiesto otto anni, l’archiviazione del procedimento contro IBM è giunta dopo tredici anni, la transazione con Microsoft sulla prima lite dopo cinque anni, la condanna di Microsoft nella seconda lite dopo sei anni: “Nel frattempo la tecnologia avanzava, con maggiori probabilità di qualsiasi azione giudiziaria di smantellare i monopoli presi di mira” (p. 154). Al di là degli enormi costi diretti delle liti, “in ciascun caso i dirigenti dell’impresa presa di mira dall’azione antitrust si concentrarono completamente sulla lite e quasi certamente sottrassero molte energie al loro lavoro”. Il giuoco si dimostra a somma negativa. Meglio, suggerisce Baumol, affidare le spinte competitive alla piena apertura del mercato nazionale alle merci e agli investimenti provenienti dall’estero… (pp. 154-157). Su questo punto nevralgico della concorrenza, la valutazione di sintesi è che “sarebbe un errore (…) confidare eccessivamente nella capacità delle leggi antitrust (…). Esse rimangono importanti per prevenire le collusioni nella fissazione dei prezzi e per impedire le fusioni che determinerebbero un’indebita concentrazione in certi mercati. Ma sono molto meno efficaci quando si tratta di mantenere viva la concorrenza tra coloro che hanno conquistato una posizione dominante o di monopolio” (pp. 152-153).
La lettura che abbiamo proposto, orientata al nesso crescita/diritto, non rende completa giustizia a un libro ricco anche di considerazioni analitiche e propositive d’ordine strettamente economico. Esse sono quasi tutte condivisibili, alcune opinabili. Ad esempio, la fiscalità – come Baumol afferma – frena e distorce le scelte imprenditoriali. Al tempo stesso, tuttavia, alimenta la spesa pubblica per servizi produttivi e infrastrutture che possono offrire all’impresa un ambiente favorevole alla crescita. La finanza è, sì, schumpeterianamente essenziale alla “distruzione creatrice” che – anche per Baumol – dello sviluppo economico costituisce l’essenza: trasferisce le risorse da chi le possiede e non sa usarle a chi le prende in prestito per realizzare validi progetti. Ma la instabilità che nella finanza è radicata comporta costi produttivi e sociali i quali in parte annullano l’apporto positivo di banche e borse al progresso economico. Le crisi finanziarie sono imprevedibili, non prevenibili, solo lenibili con le regole, la supervisione, la politica monetaria. Persino uno studioso del calibro di Baumol non allude affatto, in questo libro chiuso nel 2007, alla catastrofe che solo poche settimane dopo ha colpito l’industria finanziaria degli Stati Uniti. Di questa stessa industria il libro vanta, con ottimi argomenti, l’efficienza nell’allocazione delle risorse…

Il punto di forza del contributo di Baumol, Litan e Schram è – a mio avviso e in conclusione – nella indicazione, per la crescita economica, di una politica dei meccanismi, piuttosto che degli strumenti. La crescitaè in ultima analisi questione di assetti strutturali e giuridici orientati al progresso tecnico: il “ben oliato motore”, da costruire per tempo e nel tempo. Gli strumenti della politica fiscale, monetaria, dei redditi, industriale possono essere, al più, di ausilio alla crescita. Al tempo stesso, gli assetti strutturali del sistema produttivo sono meno facilmente influenzabili di quelli giuridici. Norme, giurisprudenza, dottrina sono maggiormente disponibili per le istanze riformatrici. Alla fine, è attraverso il diritto – un diritto nutrito di cultura anche economica – che si può provare a dare al sistema capitalistico, per sua natura recalcitrante, la forma più dinamica. Le interazioni, il terreno di confine, fra l’analisi giuridica e l’analisi economica sono davvero aperta contrada.

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