L’impresa e le sorti dell’economia

Dal dopoguerra l’economia italiana ha attraversato tre fasi, stilizzate:
– 1950-1969: crescita rapidissima e stabile, dovuta solo per un terzo ad aggiunte di capitale e di lavoro e per ben due terzi al contributo della produttività: dinamismo d’impresa, innovazione, progresso tecnico, ottenuto anche imitando, importando, adattando le tecnologie delle economie più avanzate.
–    1969-1992: inflazione forte, prevalentemente da costi (del lavoro, dell’energia, della P.A.). I costi salivano a ritmi pari a tre – quattro volte quello della produttività. La produttività, pur rallentando, aumentava ancora, più che altrove in Europa.
Segnatamente, negli anni Ottanta la produttività del lavoro nella manifattura progrediva del 4,5 per cento l’anno (contro il 3 per cento in Francia e il 2 per cento nella Germania federale). Si continuava a innovare, ma meno intensamente. Soprattutto si sostituiva capitale alla manodopera, il cui utilizzo veniva “razionalizzato”.
– 1992-2008: crescita deludente, con netta tendenza al ristagno, non degli investimenti e dell’occupazione, ma della produttività, il motore dello sviluppo. L’innovazione ha latitato: il contributo del progresso tecnico è tendenzialmente sceso a zero, se non a valori addirittura negativi. Nonostante le ripetute revisioni al rialzo dei dati di contabilità nazionale da parte dell’Istat, il quadro è confermato dagli ultimi dati della Banca d’Italia sulla dinamica della produttività del lavoro: 1,9 per cento l’anno nel 1991-1995, 0,7 per cento nel 1996-2000, zero per cento negli anni Duemila. Il crollo è accentuato nella manifattura: il 4,5 per cento d’incremento della produttività del lavoro negli anni Ottanta è sceso a 2,6 nel 1991-95, a 1 nel 1995-2000, a -0,3 negli anni Duemila! Una performance di produttività peggiore nella manifattura rispetto al terziario, privato e ancor più pubblico, non trova riscontri fra le principali economie.
In un libro recente – Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia, 1796-2005, Bollati Boringhieri, Torino, 2007 – ho tentato una sintesi esplicativa del disastro produttivo del Paese dopo il 1992 con il concorso negativo, econometricamente tracciabile, di quattro fasci di forze. I primi due attengono al contesto esterno, sfavorevole, in cui le imprese hanno dovuto operare. I secondi due concernono invece più direttamente i limiti della intrinseca capacità/propensione delle imprese nell’esprimere produttività, in senso sia quantitativo sia qualitativo.
Richiamo brevemente gli ostacoli di contesto, riconducibili allo Stato e alla P.A. e che toccherebbe allo Stato di rimuovere, per poi dir di più sul tessuto produttivo.
a) Il primo impedimento alla crescita esterno all’impresa è stato e resta la finanza pubblica. Risparmio negativo o trascurabile, investimenti netti nulli in infrastrutture e opere pubbliche, tassazione inasprita e distorsiva costituiscono i tre canali attraverso cui la deplorevole condizione finanziaria della P.A. ha frenato e frena la crescita dell’economia.
b)       L’ulteriore palla al piede dello sviluppo economico del Paese è costituita dalle norme, la giurisprudenza e la dottrina che presiedono all’attività d’impresa. L’“esperienza giuridica” della economia italiana (per usare l’espressione cara a Giuseppe Capograssi e Riccardo Orestano) è assolutamente inadeguata, ostativa ai fini dell’espansione produttiva. Nonostante recenti parziali riforme ciò è soprattutto vero, e documentabile, per il diritto societario, le procedure concorsuali, il processo civile, l’ordinamento del lavoro. A mio avviso, è vero anche per la disciplina introdotta nel 1990 a tutela e protezione della concorrenza.
A questi fattori di cornice, a questi impedimenti esterni, si sono unite, con effetti negativi non additivi ma moltiplicativi, carenze organiche interne al sistema delle imprese. Le riassumo in due slogan che provo poi a sciogliere in un linguaggio meno impressionistico: “piccole donne che non crescono”, “profitti facili”.
Piccole donne che non crescono. Il capitalismo italiano, storicamente, “vien dalla campagna”. La sequenza è stata: media borghesia agraria (soprattutto padana), braccianti, operai, piccoli imprenditori. All’origine ottocentesca vi fu una modesta e solo graduale “accumulazione primitiva”: ridotta concentrazione di ricchezza mobiliare e lenta polarizzazione fra capitale industriale/finanziario, da un lato, e proletariato urbano, di fabbrica, dall’altro. Degli attuali 4 milioni di aziende anche le manifatturiere – mediamente più grandi – raggiungono a malapena il valore modale di 10 addetti. Le imprese manifatturiere sono tendenzialmente diminuite nel numero. Soprattutto, sono scemate in numerosità e in peso quelle di maggiore dimensione. Cinquanta anni fa i complessi con più di 1.000 addetti erano quasi 300 e ad essi faceva capo il 25 per cento circa degli addetti dell’intero settore manifatturiero. Oggi, sono poco più di 200 e impiegano solo il 10 per cento degli addetti. Ciò che è più grave, solo una decina di unità superano i 10.000 addetti, una volta che si escludano le imprese dei servizi, le banche e le utilities. Gli indici dei livelli di produttività media del lavoro attualmente stimati dalla Banca d’Italia sono pari a 100 per le imprese oltre i 200 addetti, a 90 per le imprese da 50 a 199 addetti, a 80 per quelle da 20 a 49 addetti. Sempre secondo Via Nazionale, negli ultimi anni anche la dinamica della “produttività totale dei fattori” è stata presso le piccole aziende pari solo a un terzo di quella, pur mediocre, riscontrata presso le maggiori grandi. Scarse in assoluto, o inferiori al passato, sono risultate la spesa per ricerca e sviluppo, le innovazioni di processo e ancor più quelle di prodotto, le nuove quotazioni in borsa. Si sono fatti rari i casi di aziende piccole divenute medie e di aziende medie divenute grandi, come pure i casi di acquisizione di piccole imprese innovative da parte di gruppi capaci di applicare l’innovazione su larga scala. La graduatoria delle imprese secondo dimensione e performance è mutata poco o nulla.
Il sommerso continua a congelare il 15 per cento del prodotto interno lordo. Il distretto non riesce a far volare l’intero “calabrone” dell’economia; rappresenta solo il 40 per cento di una manifattura che a propria volta non esprime più del 20 per cento del Pil; il differenziale positivo di saggio di profitto sul capitale non supera il 2 per cento rispetto alle imprese non riunite in distretti; rischia di ossificare le posizioni relative delle aziende distrettuali, paghe della posizione occupata nello spazio locale. Non è ancora nato in Italia un vero mercato secondario dell’innovazione, a cui partecipino imprese medie, imprese grandi, università, altri centri di ricerca. Le stesse poche grosse imprese, oltre a recepire scarsa “innovazione originaria o radicale” da aziende medio-piccole ad alta imprenditorialità, hanno espresso dosi relativamente modeste di “innovazione incrementale, imitativa, replicativa”. Uso concetti e termini di William J. Baumol, a cui si deve uno splendido ulteriore libro su questi temi (Capitalismo buono, Capitalismo cattivo, scrittoinsieme con R.E. Litan e C.J. Schramm,appena tradotto in italiano dalla Bocconi).
In sintesi, l’economia italiana negli ultimi 15-20 anni si è allontanata dal “capitalismo buono” che Baumol contrappone ai “capitalismi cattivi”, cioè a) diretti dallo Stato, b) dominati da oligarchie, c) influenzati dalle grandi corporations. L’economia italiana non ha operato come una “economia imprenditoriale”: la forma di capitalismo migliore perché capace di “combinare imprenditori innovativi con imprese più grandi che rifiniscano e propongano su larga scala le innovazioni radicali che gli imprenditori e occasionalmente le stesse grandi imprese generano e offrono al mercato” (p. 4 del volume di Baumol).
Lo slogan “piccole donne che non crescono” vuole appunto cogliere questo terzo fascio di forze che ha frenato la produttività italiana dopo lo spartiacque del 1992, l’anno terribile per la politica, per le istituzioni, per l’economia.
Profitti facili. Lo slogan “profitti facili” allude invece al quarto fascio di forze che ha frenato la produttività. Hanno certamente influito gli impedimenti connessi con la finanza pubblica e con le carenze nelle infrastrutture materiali e giuridiche. Ma questi ostacoli oggettivi non erano insormontabili. Lo dimostra il fatto che almeno 5.000 fra le aziende campionate dalla Banca d’Italia “consolidano il primato tecnologico e diversificano gli sbocchi di mercato” nella crisi in corso (Banca d’Italia, Relazione annuale sul 2008, Considerazioni finali, p. 10). In più, vi è stata una risposta nella forma della delocalizzazione all’estero di attività che impegnano quasi un milione di addetti, pari a circa un quarto degli occupati totali nella manifattura in Italia.
Suffragata dai fatti sembra un’ulteriore ipotesi. Le vie agevoli al profitto che si sono dischiuse alle imprese italiane dopo il 1992 hanno attenuato la sollecitazione alla ricerca da parte loro della redditività lungo la via maestra, ancorché più impervia, delle innovazioni e dell’efficienza, quindi della produttività.
Sino alla recessione 2008-2009, la profittabilità – comunque misurata – è stata mediamente più alta rispetto al decennio precedente il 1992. Il leverage è diminuito, e con esso il peso del servizio del debito. La quota dei profitti sul prodotto – una delle misure – si è attestata sugli elevati livelli del 1950-70. La stranezza di un saggio di crescita in calo e di un tasso di profitto in ascesa è indicativa dell’attenuarsi degli stimoli in senso lato concorrenziali, micro e macroeconomici. Il profitto atteso è stato reso più certo dalla cedevolezza del cambio (deprezzatosi del 30 per cento fra il 1992 e il 2002 e apprezzatosi meno del 10 per cento in seguito); dalla moderazione sindacale (dopo l’“accordo Ciampi” del 1993 l’incremento delle retribuzioni lorde reali per unità standard di lavoro ha rallentato dall’1,7 per cento l’anno del 1983-92 allo 0,4 per cento del 1993-2005); da una spesa pubblica corrente larga e disponibile (non inferiore al 43 per cento del prodotto); da un grado di oligopolio in aumento (nonostante l’antitrust, nei mercati delle merci gli “indici di Lerner” sono saliti mediamente dal 15 per cento del 1970-90 al 19 per cento); ancor più della concorrenza di prezzo è diminuita quella, più significativa e rilevante per la crescita dell’economia, attraverso l’innovazione dei prodotti.

In conclusione, è evidente come la crisi internazionale che è in atto costituisca una brutale mutazione anche per le imprese italiane. Nel 2008-2009 i loro profitti sono scesi, il grado di indebitamento si è innalzato. Il dollaro debole non offre vie di uscita, attraverso pronti recuperi di competitività di prezzo. Non le offre il salario, da anni compresso e di un terzo inferiore rispetto ai livelli di Germania e Francia. Non le offre la spesa pubblica, già prossima al 50 per cento del prodotto. La stessa azione antitrust diverrà, alla lunga, più incisiva: maggiormente attenta ai settori base, ai processi dinamici, ai consumatori di domani.
Se le imprese italiane, costrette dalla forza delle cose e dall’assenza di alternative, riusciranno a ritrovare la strada maestra dell’innovazione e della produttività, generate al loro interno, è impossibile dire. Anche se i governi risanassero la finanza pubblica, potenziassero le infrastrutture, riformassero il diritto dell’economia, non può non preoccupare il polarizzarsi della struttura produttiva in troppe aziende minuscole, poche aziende medie, troppo poche e poco diffuse imprese di grande dimensione. Soprattutto, non possono non preoccupare la soluzione di continuità strutturale, la pochezza dei legami, che nel tempo si sono determinate nel tessuto delle imprese italiane: fra l’azienda piccolo-media, a cui spetterebbe di innovare, e la grande impresa, a cui spetterebbe di selezionare, recepire, adattare l’innovazione promettente e di applicarla su larga scala, così diffondendo il progresso tecnico. Se non emergeranno imprese piccolo-medie capaci di inventare e/o grandi gruppi in grado di affinare e produrre in massa le novità, vi sarebbe più di un dubbio che gli italiani restino “ricchi per sempre”…

Conforta una considerazione d’ordine storico[1].
Per ragioni analoghe a quelle che hanno bloccato la crescita nell’ultimo quindicennio, l’economia italiana aveva attraversato almeno due precedenti, lunghe fasi in cui il contributo del progresso tecnico allo sviluppo era stato pressoché nullo: il 1887-1898 – l’età della Sinistra con e dopo Crispi – e il periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale, sotto il fascismo. Questo è l’aspetto ulteriormente negativo di un quadro che conferma come l’economia italiana possa ristagnare o regredire quando i quattro fasci di forze che abbiamo richiamato frenano l’accumulazione e l’innovazione. L’aspetto positivo è che nell’una e nell’altra occasione, mutato il contesto, il sistema produttivo seppe reagire. Sia nell’età giolittiana (1900-1913) sia nel 1950-70 vi fu un balzo in avanti nella tecnologia, nella innovazione, nella produttività di lavoro e capitale. Finanza pubblica; infrastrutture fisiche e giuridiche; dinamismo d’impresa; concorrenza e altre sollecitazioni ex ante sui profitti: i quattro fasci di forze interagirono in senso virtuoso, volgendo da negativo a positivo il segno dell’effetto sul tasso di crescita.
Che il segno cambi per il meglio nel futuro medio-lungo è arduo per l’economista antevedere. Sarà decisivo uno strato più profondo di determinanti principalmente metaeconomiche: istituzionali, politiche, culturali, simili ma certo non identiche a quelle che trassero l’Italia dalla povertà nel 1900-1913 e nel 1950-70.[2]

Note

1.  Cfr. P. Ciocca, Interpreting the Italian Economy in the Long Run, in “Rivista di storia economica”, 2008, pp. 241-246.

2.  Per una descrizione, se non una analisi, di tali determinanti metaeconomiche rinvio al già citato Ricchi per sempre?, cap. 13.