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Il rito “semplificato” di cognizione

di - 29 Luglio 2009
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2. L’ambito di applicazione.
Nel disporre che nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica la domanda può essere proposta con ricorso al tribunale competente, l’art. 702-bis, comma 1°, c.p.c., individua nelle controversie riservate alla decisione del tribunale in composizione monocratica l’ambito oggettivo di applicazione del nuovo rito, mentre il comma secondo dell’art. 702-ter c.p.c. sanziona con l’inammissibilità la domanda che sia estranea a questo ambito. L’area di ammissibilità del procedimento semplificato coincide con le controversie nelle quali il tribunale giudica in composizione monocratica e da essa restano anzitutto escluse le eccezionali ipotesi nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale, elencate, con carattere di tassatività, dall’art. 50-bis c.p.c. [6].
Sembra possibile escludere dall’ambito oggettivo di applicazione del procedimento “semplificato” anche quelle controversie che sono sottoposte ad un rito diverso da quello ordinario, a cominciare da quelle sottoposte al rito speciale del lavoro, senza escludere le controversie su diritti soggettivi sottoposte al rito speciale camerale, da ritenersi alla stregua di un rito speciale a cognizione piena. La non compatibilità del rito “semplificato” rispetto ai riti speciali si ricava, per un verso, dai rilievi sopra svolti sulla natura e collocazione sistematica (a cominciare da quelli sui tre modelli di cognizione che non ammettono reciproche interferenze) e, dall’altro, dall’espresso richiamo all’art. 183 c.p.c. e, con esso, al solo processo di rito ordinario.
Tra le controversie escluse rientrano anche quelle davanti al giudice di pace, nonché i giudizi di appello davanti al tribunale monocratico.
Qualche dubbio potrebbe sussistere per i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, anche se le caratteristiche di specialità del relativo procedimento sembrano escludere la compatibilità con il rito semplificato.
Come si vedrà in seguito, la violazione dell’art. 702-bis c.p.c. comporta l’obbligo del giudice monocratico, alla prima udienza, di dichiarare l’inammissibilità del ricorso con ordinanza non impugnabile, con conseguente possibilità di riproposizione della domanda nelle forme del rito ordinario.

3. Il ricorso introduttivo.
L’art. 702-bis c.p.c. individua nel ricorso la forma dell’atto introduttivo, che, dovendo contenere le indicazioni di cui ai numeri 1, 2, 3, 4, 5 e 6 e l’avvertimento di cui al n. 7 del terzo comma dell’art. 163 c.p.c., ha un contenuto identico a quello dell’atto di citazione, fatta eccezione per la vocatio in ius. A differenza del ricorso che introduce i processi di rito speciale lavoristico, è qui previsto anche l’inserimento dell’avvertimento, oggi da integrare con il richiamo anche alle preclusioni di cui all’art. 38 c.p.c. [7].
La scelta a favore del ricorso sembra dettata in funzione delle esigenze organizzative del giudice, ma penalizza il ricorrente in relazione al tempo di produzione degli effetti sostanziali della domanda (che non può non coincidere con il giorno di notificazione del ricorso), tanto da rendere poco opportuno l’utilizzo delle forme del rito semplificato, soprattutto in caso di trascrizione della domanda.
Sempre in relazione al contenuto, riteniamo sia onere del ricorrente di indicare nel ricorso le ragioni – che il giudice sarà chiamato a valutare nel corso della prima udienza – in grado di dimostrare la compatibilità della controversia con l’istruttoria e con le forme di decisione semplificata: pur in assenza di espressa previsione sul punto (che sarebbe stata assai opportuna), l’interpretazione sistematica della nuova normativa fa ritenere che l’attore ricorrente abbia qui l’onere, fin nel ricorso introduttivo, di indicare espressamente le ragioni per le quali la controversia debba ritenersi compatibile con l’istruttoria e con le forme decisorie semplificate.
Tra i profili di criticità richiamati all’inizio, abbiamo accennato al possibile abuso del processo semplificato attraverso l’introduzione di controversie non compatibili con il rito, che, pur potendo far pronunciare l’ordinanza di fissazione dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., comprime fortemente e irrimediabilmente le garanzie difensive del convenuto. Infatti, è solo sul presupposto della utilizzabilità del procedimento per la decisione di controversie “semplici” che l’art. 702-bis c.p.c. prevede un termine minimo di comparizione (30 giorni) ben più ristretto rispetto a quello del processo di rito ordinario. Anche se si tratta dello stesso termine minimo previsto per il rito del lavoro, non va dimenticato che, se l’oggetto della controversia lavoristica, che fa sempre capo al rapporto di lavoro, può giustificare quel termine, lo stesso non può dirsi per controversie di complessità tale da rendere senz’altro insufficiente il termine di 30 giorni [8].
Questa forma di possibile abuso del processo può essere contrastata (oltre che con l’assegnazione di un termine più ampio per la costituzione del convenuto: v. infra), per un verso, facendo carico al ricorrente di specificare nel ricorso le ragioni di compatibilità e, per altro verso, applicando l’ormai generalizzato istituto della rimessione in termini di cui all’art. 153, comma secondo, c.p.c., essendo imputabili alla parte ricorrente le decadenze maturate a carico del convenuto in un lasso temporale non compatibile con l’esercizio delle garanzie difensive.
Per quanto riguarda le preclusioni a carico dell’attore, non vi è alcuna previsione normativa, al pari del rito ordinario (ma a differenza di quelli speciali modellati sul rito del lavoro) [9].

Note

6.  Il principio di tassatività è pacifico anche in giurisprudenza: v., ad esempio, Cass. 13 ottobre 2005, n. 19892. Così, ad esempio, il procedimento per la liquidazione di onorari di avvocato, ai sensi degli artt. 28, 29 e 30 della legge 794 del 1942, si svolge in camera di consiglio e deve, pertanto, essere trattato dal tribunale in composizione collegiale, in quanto l’art. 50-bis, comma 2, c.p.c. prevede, per i procedimenti in camera di consiglio, disciplinati dagli artt. 737 e ss. c.p.c., una riserva di collegialità, dalla quale restano esclusi soltanto quelli, tra i procedimenti camerali, per i quali sia altrimenti disposto e, tra questi, i procedimenti in camera di consiglio già di competenza del pretore e ora attribuiti al tribunale (v. Cass. 26 luglio 2005, n. 15587). Nel senso che nei giudizi relativi all’azione revocatoria fallimentare il tribunale giudica in composizione monocratica, e non collegiale, non essendo i relativi giudizi menzionati tra quelli che l’art. 50-bis riserva al tribunale in composizione collegiale si veda Cass. 18 maggio 2007, n. 11647.

7.  Il ricorso deve contenere la procura ad litem, non essendo applicabile il secondo comma dell’art. 125 c.p.c. (il quale consente, al di fuori delle ipotesi nelle quali la legge richiede che la citazione sia sottoscritta da difensore munito di procura speciale, che la procura al difensore dell’attore possa essere rilasciata anche in data posteriore alla notificazione dell’atto di citazione, purché anteriormente alla costituzione della parte rappresentata) ai giudizi che s’instaurano con ricorso, nei quali la costituzione della parte rappresentata coincide con il deposito del ricorso: in questo senso Cass. 10 maggio 1995, n. 5119, che fa conseguire, dalla mancanza della procura al momento del deposito del ricorso, l’inesistenza dell’atto introduttivo, in quanto privo di presupposto indispensabile per la valida instaurazione del rapporto processuale.

8.  Anche secondo menchini, op. cit., 4, il termine a difesa di trenta giorni, se è ragionevole nell’ottica di un rito sommario-semplificato, pone problemi di disparità di trattamento, qualora il giudice disponga il passaggio alla trattazione ordinaria.

9.  Nel senso che l’attore può integrare e completare il proprio apparato difensivo all’udienza del rito sommario v. menchini, op. cit., 3.

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