Un problema irrisolto:
la Cassazione e i giudici speciali

1. Premessa. Il nostro Paese ha vissuto e sta tuttora vivendo una singolare esperienza giuridica. Essa riguarda il rapporto tra i c.d. giudici speciali ed il giudice supremo del nostro ordinamento, la Corte di Cassazione. L’art. 102 della Costituzione dispone perentoriamente che non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali, (anche se è forte il sospetto che qualche cosa di questo genere sia stata fatta con la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura). Molti giudici speciali preesistevano però alla Costituzione. I giudici tributari costituiscono il fenomeno più rilevante, come è intuitivo. Ma accanto ad essi ci sono i commissari per la liquidazione degli usi civici ed un buon numero di consigli nazionali di ordini e collegi professionali, che si occupano della disciplina degli iscritti. I più noti e per così dire storicamente consolidati sono il Consiglio di Stato e la Corte dei conti.
Il fatto singolare, cui queste note sono dedicate, è che tra Consiglio di Stato e Corte dei conti da un lato, e tutti gli altri giudici speciali, dall’altro, corre una profondissima differenza: le sentenze di questi ultimi, nessuno escluso, sono impugnabili per cassazione, mentre questo è espressamente escluso per le pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Possono essere impugnate solo per motivi inerenti alla giurisdizione, con la chiara finalità di garantire l’inviolabilità della giurisdizione loro affidata. Come è palese, questo determina una loro posizione assolutamente particolare nel sistema costituzionale della tutela giurisdizionale. Essa è definita dagli artt. 103, 1° e 2° comma e dall’art. 111, penultimo comma, con le seguenti parole:
Art. 103, 1° co.: “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa (i Tri­bunali amministrativi regionali, previsti dall’art. 125, n.d.r.) hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.
Art. 103, 2° co.:”La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”.
Art. 111, penultimo co. (non modificato dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2): “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
Il sistema è dunque questo: il Consiglio di Stato ha una propria giurisdizione, defi­nita direttamente dalla Costituzione, per la tutela dei c.d. interessi legittimi, degli inte­ressi cioè lesi da un provvedimento autoritario dell’amministrazione. “In particolari materie”, la legge ordinaria può affidargli la tutela nei confronti della pubblica ammi­nistrazione anche dei c.d. diritti soggettivi: vale a dire, degli interessi le cui vicende si svolgono su un piano se non proprio paritetico, certo non caratterizzato dall’esercizio di poteri discrezionali da parte di un’autorità. La Corte dei conti ha la giurisdizione, definita dalla Costituzione, “nelle materie di contabilità pubblica“. La legge ordinaria può affidargliene altre (“nelle altre specificate dalle legge“).
Le materie in cui il giudice amministrativo ha giurisdizione estesa ai diritti sogget­tivi (la c.d. giurisdizione esclusiva) sono molte: fondamentali sono oggi la concor­renza, le telecomunicazioni e l’energia, oltre a molte minori. Per la Corte dei conti il discorso è più semplice: la legge ordinaria le attribuisce oggi la materia delle pensioni e della responsabilità per il danno recato alla pubblica amministrazione da persone o enti legati ad essa da un rapporto di servizio, vale a dire il c.d. danno erariale.
A norma dell’art. 111 u.c., le sentenze del Consiglio di Stato sono impugnabili in Cassazione solo per motivi attinenti alla giurisdizione, esattamente come lo sono le sentenze della Corte dei conti. Nessuno sembra dubitare che questo limite alla impu­gnabilità delle sentenze dei due giudici speciali valga indifferentemente per le sen­tenze pronunciate nelle materie fissate nella Costituzione (“tutela degli interessi legit­timi”, “contabilità pubblica“) e per quelle pronunciate in tutte le altre – dall’antitrust alla responsabilità erariale. [1]
Sennonché la nostra Costituzione dà copertura, costituzionale appunto, solo alla giu­risdizione amministrativa “a tutela degli interessi legittimi” ed alla giurisdizione della Corte dei conti “nelle materie di contabilità pubblica“, per l’insuperabile ragione che solo queste due attribuzioni sono esplicitamente previste dall’art. 103. La giurisdizione amministrativa a tutela dei diritti soggettivi può dunque essere dilatata o ridotta se­condo valutazioni puramente discrezionali del legislatore ordinario, come dimostrano le vicende della giurisdizione esclusiva degli ultimi dieci anni, esattamente come secondo la sua discrezionalità può essere estesa ad altre materie la giurisdizione della Corte dei conti (ad es. non si può affatto escludere che, prima o poi, le venga affidata la materia delle scommesse, visti da un lato la struttura rigida che è stata impressa al loro esercizio ed il prelievo tributario immediato che consentono e, dall’altro, la loro straordinaria rile­vanza nella nostra economia, pubblica e privata).
Il fatto singolare e rilevantissimo è che la specialità del giudice sotto il profilo della garanzia costituzionale di inviolabilità della sua giurisdizione – e quindi dei limiti po­sti all’impugnazione delle sue sentenze – si estende a tutte le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Ex art. 111, u.c. esse sono impugnabili in Cassazione solo per motivi inerenti alla giurisdizione tanto se riguardano la tutela di “interessi legittimi” o materie di contabilità pubblica, quanto se investono “diritti soggettivi” o una materia diversa dalla contabilità pubblica, come la responsabilità per danno erariale e le pen­sioni.

Questa è chiaramente un’anomalia del sistema costituzionale. Se il giudice, ammini­strativo o contabile, pronuncia in ordine a posizioni giuridiche o in materie che non sono oggetto di esplicita previsione costituzionale, non è dato comprendere perché le sue sentenze debbano essere assistite dal privilegio dell’insindacabilità. I TAR ed il Consiglio di Stato e la Corte dei conti sono giudici speciali, con copertura costituzio­nale della loro giurisdizione limitatamente alle decisioni relative ad interessi legittimi ed alla contabilità pubblica. Per il resto, sono giudici che, per una ragione o per l’altra, sono stati sostituiti al giudice ordinario, le cui sentenze in grado di appello possono essere impugnate per cassazione.
In altri termini, letto ed interpretato alla lettera, l’art. 111 u.c. attribuirebbe al legi­slatore il potere di sottrarre al controllo della Cassazione tutte le questioni relative a diritti che decida di attribuire al giudice amministrativo o al giudice contabile, sottra­endole al loro giudice naturale, il giudice civile.
2. Una breve cronistoria. Per comprendere la gravità del problema è opportuna una breve cronistoria delle vicende relative alla nostra giustizia amministrativa negli ul­timi dieci anni. In questo decennio si è consumato infatti un rilevante processo di ri­strutturazione del nostro sistema di tutela giurisdizionale, in cui tutti sono intervenuti, le­gislatore, Corte costituzionale, Corte di Cassazione. Si tratta della riforma del processo amministrativo introdotta con la legge 21 luglio 2000, n. 205, dei suoi antefatti e delle vicende giudiziarie che ne sono scaturite.
Il d. l.vo n. 80 del 1998 aveva ampliato l’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa, attribuendola, come subito si disse, per interi “blocchi di mate­rie” (la formula usata fu “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministra­tivo tutte le controversie in materia di …”). Questo disponeva l’art. 33, con un seguito nell’art. 34, per le controversie in materia lato sensu edilizia.
Non solo: l’art. 35 dettava poi una norma di straordinario rilievo: “il giudice ammini­strativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. Per la prima volta, al giudice amministrativo veniva consentito di disporre il risarcimento del danno.
L’anno successivo, il 1999, vide “il grande pentimento” delle Sezioni Unite della Cassazione. Per oltre un secolo esse avevano affermato che il danno recato con lesione degli “interessi legit­timi” non fosse risarcibile. In centinaia, forse migliaia di sentenze, esse aveva detto che addirittura nessun giudice poteva avere giurisdizione su una domanda di risarci­mento del danno causato da un atto amministrativo. La motivazione era che la tutela degli interessi legittimi era devoluta al giudice amministrativo; poiché questi aveva il potere di annullare gli atti amministrativi – ciò che era interdetto al giudice ordinario -, l’annullamento dell’atto lesivo esauriva la tutela riconosciuta agli “interessi legit­timi”. Sotto la pressione sia di un certa parte della dottrina, sia, forse soprattutto, di una direttiva comunitaria che aveva prescritto agli Stati membri di introdurre sistemi di tutela contro la violazione del diritto comunitario degli appalti che prevedessero anche il risarcimento del danni, con la sent. n. 500 del 1999 le Sezioni Unite ammisero per la prima volta, formalmente ed in termini generali, che il danno ingiusto, anche se recato con lesione di interessi legittimi, doveva essere risarcito. Con il chiaro intento di dare un indirizzo al legislatore, la sent. n. 500/1999 disse che, per il risarcimento del danno, la giurisdizione sarebbe stata del giudice ordinario.
Il 2000 fu poi l’anno della svolta definitiva. Con la legge del 21 luglio, n. 205, a pre­scindere da numerose disposizioni volte a migliorare il processo amministrativo, venne razionalizzato il criterio di attribuire al giudice amministrativo una giurisdizione esclusiva per blocchi di materie; ma soprattutto, grazie ad un singolare ed abile gioco di abrogazioni e modifiche di alcuni articoli della legge sui TAR, del 1971, il potere del giudice amministrativo di disporre il risarcimento del danno ingiusto anche mediante la reintegrazione in forma specifica non fu più limitato alle materie devolute alla giurisdizione esclusiva, ma divenne di applicazione generale. Il danno recato con lesione degli interessi legittimi era insomma definitivamente diven­tato risarcibile; disattendendo l’indicazione della sent. n. 500/1999, il legislatore aveva incorporato la pronuncia sul risarcimento del danno nella giurisdizione amministra­tiva.
Come sempre succede, un’innovazione così profonda, quale la razionalizzazione della giurisdizione esclusiva e l’estensione del risarcimento del danno anche agli inte­ressi legittimi, suscitò entusiasmi e reazioni. Gli entusiasmi si spiegano facilmente. Più difficili da comprendere sono le reazioni. Ci si deve fermare qui alle loro manifesta­zioni formali: con una serie di ordinanze vennero rimesse alla Corte costituzionale due questioni. La prima era se fosse conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclu­siva del giudice amministrativo di “blocchi di materie”, in cui quindi si poteva discu­tere di questioni relative a diritti anche senza un loro immediato collegamento ad “inte­ressi legittimi”. La seconda, se conforme a Costituzione fosse la devoluzione al giudice amministrativo delle questioni relative al risarcimento del danno recato ad interessi legittimi.
La Corte si pronunciò ben quattro anni dopo, nel 2004. La sua complessa sentenza – nota ormai con il suo numero, 204 del 2004 – si può riassumere in poche parole: è contraria a Costituzione l’attribuzione al giudice amministrativo di blocchi di mate­rie, e non di controversie in singole materie, quando ricorra un collegamento diretto tra “interessi legittimi” e diritti. In positivo, questo significa che, per ammettere una giurisdizione del giudice amministrativo estesa ai diritti, deve comunque preesistere la sua giurisdizione naturale. È viceversa conforme a Costituzione l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione sul risarcimento del danno provocato con lesione degli interessi legittimi, perché questa non è una “materia”, ma una necessaria conseguenza che deriva dalla più piena attuazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Su questo tema la Corte è tornata anche qualche anno dopo, ad es. con la sent. n. 161 del 2007; la Cassazione ha poi accolto in pieno il dictum della Corte costituzio­nale giungendo a dire che è talmente piena la giurisdizione del giudice ammi­nistrativo sul risarcimento del danno, che esso si deve pronunciare anche se il provve­dimento lesivo non era stato tempestivamente impugnato.
3. E ora? Non ci si può qui fermare sulle conseguenze della pronun­cia secondo cui è incostituzionale disegnare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per “blocchi di materie”. Chi scrive le ritiene semplicemente deva­stanti: basta osservare su quali questioni si sono aperti, quasi scatenati, i problemi di giurisdizione, divenuti fine a se stessi.

L’attenzione deve invece concentrarsi sul tema del risarcimento del danno per lesione recata ad “interessi legittimi”, che il legislatore ordinario ha attribuito alla giurisdizione amministrativa – si ricordi, alla giurisdizione generale di legittimità , non a quella esclusiva.
Il risarcimento del danno pone infatti per definizione, si vorrebbe dire, questioni relative a “diritti soggettivi”, perché si tratta di reintegrare un assetto di interessi esprimibile in termini patrimoniali, leso dal fatto di un terzo. L’atto ammi­nistrativo illegittimo è questo “fatto” [2]; se ha recato danno, chi lo ha posto in essere, l’amministrazione, lo deve risarcire. Che questo principio si dovesse introdurre nel nostro ordinamento è pacifico. Il punto cruciale è che la competenza a pronunciare su queste domande di risarcimento del danno è stata affidata al giudice amministrativo: al quale dunque è stata attribuita una giurisdizione generale su diritti.
Conosciamo l’obiezione a questo rilievo, fondata su un’argomentazione della Corte: il risarcimento del danno non è una materia a sé, ma è strumentale per l’effettività della tutela giurisdizionale. L’obiezione non ha però pre­gio. A prescindere dal fatto che è difficile sostenere che la responsabilità civile non sia una “materia” (non si intitola “Dei fatti illeciti” il titolo IX del IV Libro del Codice ci­vile?), in linea di diritto rileva che, se perde la causa, in capo all’amministrazione nasce un’ob­bligazione risarcitoria esattamente come in capo al cittadino sorge un diritto. Forse è utile ricordare che queste cose venivano dette ai tempi della revisione dei prezzi negli appalti: finché si trattava di stabilire se spettasse o non spettasse e secondo quali criteri andasse quantificata, erano in gioco “interessi legittimi” dell’impresa; dopo la quantifi­cazione, divenivano “diritti”. Nihil sub sole novi. Si doveva solo cambiare giudice per farli valere.
A Costituzione invariata, dunque, il legislatore ha attribuito al giudice amministra­tivo una giurisdizione generale su diritti, la cui legittimità costituzionale è stata ripe­tutamente – e quindi irreversibilmente – affermata dalla Corte costituzionale. Natu­ralmente, trattandosi di diritti, ma di diritti di cui conosce il giudice amministrativo, essi sfuggono al sindacato di legittimità della Cassazione. Come si è detto e ripetuto, le sentenze del Consiglio di Stato sono impugnabili per cassazione solo per motivi atti­nenti alla giurisdizione.
Questo è il problema con cui si completa la serie di interrogativi posti dalla devoluzione ai giudici di questioni che, per loro natura, sarebbero di competenza del giudice ordinario. Ed è problema che, come gli altri, esige ormai urgente ed unitaria soluzione.
4. La coerenza dell’ordinamento. I punti cruciali sembrano essere due. Il primo è che l’art. 111 u.c. Cost. non può essere letto ed interpretato separatamente dall’art. 103. Sembra così pacifico che la garanzia di inviolabilità della giurisdizione, data al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti con la limitazione dei motivi di ricorso in cassazione a quelli che attengono alla giurisdizione, abbia un significato giuridico e costituzionale solo se circoscritta alla giurisdizione specificamente attribuita dall’art. 103 al giudice amministrativo ed alla Corte dei conti. All’uno ed all’altra è attribuita direttamente una giurisdizione ed una sola: all’uno la tutela degli interessi legittimi (e quindi l’impugnativa dei provvedimenti), all’altra la contabilità pubblica. Nella sua assoluta discrezionalità il costituente ha detto che il giudice amministrativo ed il giudice contabile hanno, uno per ciascuno, questi due blocchi di giurisdizione quale “patrimonio costituzionale”. Questo “patrimonio” la Costituzione garantisce. Tutto il resto è affidato in base a valutazioni di opportunità del legislatore ordinario.
Al secondo punto si è già accennato sopra: la scelta del legislatore ordinario di affidare altre, diverse materie a questi due giudici speciali, può aumentare e migliorare la tutela giurisdizionale, non certo ridurla. In altre parole, il legislatore ordinario non può disporre a piacere dell’estensione da dare alla tutela giurisdizionale dei diritti. E qui c’è poco da dire: se si parla di responsabilità e di risarcimento del danno e della loro attribuzione ad un giudice speciale, una riduzione di tutela c’è, se non altro perché i gradi di giudizio sono due e non tre, come nel giudizio ordinario.
Non si dimentichi che la Corte costituzionale è stata fermissima nell’affermare i limiti entro cui questioni relative a diritti possono essere devolute al giudice amministrativo. È incorsa in una sorta di aberratio ictus, come già altrove abbiamo scritto, perché ha affrontato il problema sotto il profilo della giurisdizione su situazioni giuridiche soggettive assunte come realtà assolute, anziché come strumenti di un difficile linguaggio: ne è derivato quello che è sotto gli occhi di tutti. Ma se si legge la sentenza in positivo essa ha un altro significato: i diritti non possono essere sottoposti ad una giurisdizione speciale, non perché si violano i suoi limiti, come ha detto la Corte, ma perché la tutela dei diritti viene sottoposta ad un giudizio lato sensu improprio, pensato per l’impugnativa di atti e provvedimenti e non per la definizione di rapporti tra pari.
Se si coordinano questi due punti, la conclusione è semplice e chiara. Fermo il sindacato di legittimità, tutte le sentenze dei giudici speciali che comportano condanna – che quindi investono diritti – devono essere impugnabili per cassazione.
Semplice? Difficile? Impossibile? Quanto lo è stato per introdurre il risarcimento del danno per lesione degli interessi legittimi?
Forse la via per la semplicità non è definitivamente sbarrata.

Note

1.  V. però R. TISCINI, Il ricorso straordinario in Cassazione, 2005, p. 568.

2.  Prescindiamo naturalmente da qualunque discussione sul tema della responsabilità civile della pubblica amministrazione.