Crisi finanziaria: fallimenti del mercato, o – anche – fallimenti del regolatore?

In un recente editoriale, il direttore del Financial Times si chiede se i media abbiano “bucato” la crisi finanziaria globale, tenendo la “testa nelle nuvole” o restando “addormentati al volante”. E, tra vari esempi, cita: “Quanti giornali hanno dato notizia della cruciale decisione della Securities and Exchange Commission nel 2004, di allentare le regole [che limitano] la leva finanziaria?”[1]

Siccome la decisione fu veramente “cruciale” per l’evoluzione della crisi finanziaria, e siccome, in effetti, essa andò quasi totalmente sotto silenzio, vale la pena ripercorrerne brevemente la storia, prima e dopo di essa.

Pochi numeri per inquadrare la questione: negli SU la quota di mercato delle banche d’investimento (securities broker-dealers, SBD), rispetto a quella delle banche commerciali, è cresciuta in modo costante nell’ultima ventina d’anni: era del 4,6% nel 1988, ha raggiunto un picco del 27,6% nel 2007, prima di scendere al 16,5 nel 2008, a causa del precipitoso “de-leverage” delle stesse banche d’investimento: tale aumento è sicuro segnale di un orientamento crescente dell’intermediazione finanziaria verso i mercati. Il settore dei SBD è molto concentrato: a fine 2007, punta della loro massima espansione, tre di essi (Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley) detenevano circa l’88% dell’attivo dell’intero settore. Il bilancio della Goldman Sachs, il più grande SBD, era da solo pari a circa il 53 % del PIL italiano[2].

I SBD sono regolati e vigilati negli SU dalla SEC. Dal 1999, quando il Financial Modernization Act ha abolito il Glass Steagall Act del ’33, essi possono far parte di gruppi bancari/finanziari polifunzionali. In tal caso, rimangono vigilati dalla SEC, mentre la Federal Reserve ha acquisito la umbrella supervision sulla holding del gruppo (oltre a mantenere, ovviamente, la vigilanza della sussidiaria bancaria ove esistente). I tre SBD sopra menzionati, comunque, al pari di altri due di forte rilievo (Bear Stearns, Lehman Brothers), rimasero “indipendenti”, come tali soggetti alla sola SEC, mentre la loro holding company restò non regolata. Nel giudizio, successivo[3], del Presidente della SEC, Cox, ciò costituì un “significativo vuoto regolamentare”.

La adeguatezza del capitale dei SBD è stabilita dalla SEC con la c.d. net capital rule (Rule 15c3-1), che risale al 1975 e prevede un limite massimo al rapporto debito/capitale, pari per la generalità dei SBD a 15:1.

Nel 2003 è stata pubblicata la Financial Conglomerates Directive dell’UE, avente applicazione dal 2005, la quale ha previsto, a fini di stabilità, che ogni intermediario finanziario rientrante in un gruppo operante nell’Area Economica Europea-EEA abbia un’adeguata vigilanza a livello di holding, distinguendo due ipotesi: se la holding ha sede nell’EEA, l’organo di vigilanza “coordinatore” si identifica con quello dello Stato in cui ha sede la holding; se la holding dell’intermediario che opera in Europa ha sede fuori dell’EEA, occorre verificare se l’intermediario stesso abbia nel proprio paese d’origine un organo di vigilanza “equivalente” a livello di holding. In caso affermativo, quell’organo è il “coordinatore”; in caso negativo, l’art 18 della Direttiva ha previsto l’applicazione per analogia delle norme della Direttiva, oppure l’adozione di altri metodi “appropriati”: in particolare, la costituzione di una financial holding company avente la propria sede nell’Unione.[4]

I SBD americani operanti in Europa, restati indipendenti (cioè non rientranti nei gruppi polifunzionali previsti dalla legge del ‘99, la cui holding è, come sopra detto, vigilata a livello consolidato dalla Federal Reserve) e privi di una vigilanza a livello di holding, sarebbero stati assoggettati alla normativa della Direttiva, oppure, secondo l’art 18 della stessa, costretti a istituire una holding ad hoc, soggetta alla vigilanza del paese europeo ove essa avrebbe avuto sede (la sede centrale delle operazioni europee di questi SBD è generalmente Londra, e non a caso l’organo di vigilanza del RU, la FSA, avvertì sensibilmente questo problema[5]).

In relazione a ciò, secondo notizie di stampa, fin dalla stessa approvazione della Direttiva vi fu una intensa attività di lobbying delle banche d’investimento americane sulla SEC per evitare la giurisdizione europea, paventata come più restrittiva[6].

La SEC approvò il 28 aprile 2004 – Donaldson presidente – il Consolidated Supervised Entities Program.  Con esso, da un lato i SBD avrebbero sottoposto la loro (sin’allora) unregulated holding alla vigilanza della SEC, dall’altro la SEC avrebbe fissato per loro specifiche, più leggere, norme di adeguatezza del capitale. Le banche d’investimento, aventi cospicui interessi in Europa, avrebbero così evitato la giurisdizione europea grazie alla intervenuta supervisione della loro holding, e avrebbero alleggerito i propri vincoli di capitale. Si noti che si trattava di un “programma”, non di una norma vincolante erga omnes: l’adesione al Program era volontaria. Si realizzò così la condizione perché i SBD aderenti al Program, ormai assoggettati a vigilanza consolidata negli SU, non venissero assoggettati alla normativa europea.

La normativa adottata dalla SEC per attuare il programma fu una appendice alla citata Rule 15c3-1 (Appendix E: Alternative Capital Requirements for Broker/Dealers that are part of Consolidated Supervised Entities, CSE, pubblicata come Federal Regulation 34428). Essa prevedeva che le CSE – cioè, le banche d’investimento aderenti al nuovo programma – detenessero un capitale minimo: un tentative net capital di almeno 1 mld di dollari, e un net capital ( cioè il tentative capital al netto delle deduzioni per rischi di mercato e di credito) di almeno 500 mil. Se il tentative net capital fosse sceso sotto 5 mld, inoltre, la banca ne avrebbe informato la SEC per la necessaria remedial action.  Questo capitale minimo sarebbe stato determinato utilizzando un metodo alternativo, che – secondo la SEC – avrebbe comportato: un rafforzamento del capitale netto, un “enhanced net capital“; un sistema di early warning; accresciuti obblighi di tenute contabili e di reporting in misura coerente con le norme di Basilea 2. Il metodo alternativo faceva leva sull’utilizzo di modelli matematici interni di gestione del rischio (di mercato e di credito), inclusi i modelli c.d. Value-at-risk -VAR, per calcolare le deduzioni dal capitale netto per questi rischi[7].

Il General Accounting Office – la “Corte dei conti” americana – nel fare il preventivo esame del provvedimento della SEC prima della sua entrata in vigore, mentre non sollevò obiezioni allo stesso, notò il vantaggio regolatorio che sarebbe derivato alle CSE (alle banche d’investimento aderenti) dalla sottrazione alla normativa europea, e l’accrescimento potenziale della loro redditività[8].

La liberazione di capitale conseguente al metodo alternativo e all’uso dei propri modelli di gestione del rischio consentì un flusso di risorse alla holding, la quale avrebbe potuto investire nel mercato, in forte espansione, dei derivati e di altri strumenti “esotici”, e così una più alta redditività. Tutti e cinque i principali SBD indipendenti (Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers, Bear Stearns) aderirono (la SEC aveva in precedenza stimato che le adesioni fossero 11). Il loro leverage andò, di fatto, assai oltre il rapporto di 15:1 sopra ricordato. Al momento dell’insolvenza, Bear Stearns aveva un rapporto di 33:1[9]. Secondo notizie di stampa, al momento della fusione con Bank of America, Merrill Lynch aveva un rapporto di 40:1.

Il programma è completamente fallito, ed è stato dismesso dalla SEC il 26 settembre 2008[10]. Questo fallimento è messo in risalto dalla crisi gravissima di tutte e cinque la banche d’investimento che vi avevano aderito, e dalla crisi sistemica che esso ha probabilmente contributo ad approfondire: la Lehman è andata in bancarotta, la Bear Stearns e la Merrill Lynch sono state acquisite da altri istituti col sussidio pubblico, la Goldman Sachs e la Morgan Stanley si sono trasformate in financial holding companies, così rientrando nel quadro del Financial Modernization Act e quindi sotto la vigilanza consolidata della Fed, e ricapitalizzate dallo Stato.

Fallimento del mercato o fallimento del regolatore?

Vi è consenso nell’individuare un fallimento del mercato, frutto di un uso azzardato del leverage, definito come rapporto tra attivo di bilancio e valore netto (equity) della banca. E’ utile vedere brevemente come esso opera. Se il valore dell’attivo si espande – come è stato a lungo il caso, grazie a una forte ondata di domanda speculativa su titoli, anche derivati -, si espande anche il valore netto della banca, e il leverage, come appena definito, scende (in analogia, se la nostra casa aumenta di valore, a parità del mutuo contratto per il suo acquisto, il nostro valore netto sale e il nostro leverage scende). Le banche hanno decisamente risposto a questa tendenza aumentando il loro passivo, la loro provvista di fondi, per domandare e acquisire altri titoli, espandendo l’attivo totale e riportando così il leverage verso il rapporto iniziale (allo stesso modo, proseguendo nell’analogia, il comportamento del mutuatario è stato sovente, ad es. in America e nel RU, di contrarre nuovi prestiti, i c.d. equity loans, a valere sul maggior valore della propria casa).

Questa attiva gestione del leverage inverte la “normale” risposta della domanda e dell’offerta a variazioni dei prezzi: un aumento del prezzo dei titoli finisce per stimolarne ancora la domanda, in un contesto fortemente pro-ciclico. Quando una qualsiasi causa “occasionale” interrompe la fase espansiva (ad esempio, la realizzazione che il mercato immobiliare è in una bolla speculativa e che molti mutuatari sono potenzialmente insolventi), i titoli, a iniziare da quelli legati alla causa occasionale, cioè al valore degli immobili sottostanti al mutuo che i titoli stessi rappresentano, scendono di prezzo, o – se tecnicamente assai complessi come certi derivati -non sono neppure più prezzati sul mercato. Inizia il processo inverso: l’attivo in bilancio scende, il leverage sale, le banche vendono, o cercano di vendere, i titoli per restituire il proprio debito (de-leverage); ciò ne deprime ancora il prezzo, nello stesso processo circolare sopra descritto, ma invertito rispetto ad esso. Il valore netto della banca si riduce[11].

Fallimento del regolatore? Ancora nel maggio del 2008, col programma della SEC in vigore e prima del fallimento della Lehman (settembre), un approfondito studio sulla crisi finanziaria, lungi dal criticare il programma stesso, neppure lo menziona[12]. Il programma fu approvato all’unanimità, nonostante notizie di stampa parlino, a posteriori, di forti voci di perplessità entro e fuori la Commissione, che paventarono un'”orribile confusione” (an awful mess). Un commissario, Goldschmid, critico dell’operato della Commissione, si dimise un anno dopo.

Può apparire un paradosso ma, come sopra detto, la SEC presentò il programma come un potenziale rafforzamento della base capitale dei SBD, proprio in quanto si affidava ai raffinati modelli di gestione del rischio elaborati dalle stesse banche (questo affidamento si ritrova, del resto, anche nelle regole di Basilea 2, come rilevò la stessa SEC). L’affermazione che il regolatore (la SEC) fu “catturato” dal mercato (dal lobbying delle cinque maggiori banche d’investimento) è contestata da chi sostiene che l’intento della SEC era stato, viceversa, quello di colmare il vuoto regolatorio lasciato dall’Act del 1999, che aveva lasciato la holding delle banche d’investimento priva di regolazione e supervisione. L’intento, cioè, non fu di deregolazione, anche se la conseguenza “unintended” fu, di fatto, un’assenza di controllo[13].

La disciplina di mercato non ha funzionato: sul lato dell’attivo, “Il settore operativo [della banca] era più concentrato nell’ottenimento dell’approvazione della transazione [da parte del settore di gestione del rischio della banca stessa] che nell’identificazione dei rischi della transazione che stava proponendo”; sul lato del passivo, “la possibilità che la liquidità si prosciugasse all’improvviso era un nostro problema costante, ma ciò che potevamo vedere era solo una crescente liquidità che si rendeva disponibile sul mercato”[14].

Il carattere volontario del programma non sembra determinante per l’argomento di un eventuale regulatory failure. E’ osservato che se l’intento della SEC era quello di colmare un vuoto lasciato dal  Congresso, sottoponendo a vigilanza anche la holding dei SBD indipendenti, il difetto di potere legislativo non poteva che renderne volontario, consensuale l’intervento. “La vera lezione è che l’autorità della SEC dev’essere espressa e non consensuale”[15].

La volontarietà del programma avrebbe impedito alla SEC di esercitare un’azione più vigorosa della SEC sulle banche che aggiustavano i loro modelli per giustificare un crescente leverage[16]. Ma – c’è da chiedersi – quale incentivo avrebbero avuto le banche, se scontente delle pressioni della SEC, ad abbandonare il programma, assoggettandosi anche alla Direttiva europea che avevano cercato di eludere?

C’è infine da notare che la SEC non poteva efficacemente far rispettare il programma, non solo per la predetta volontarietà, ma anche per inadeguatezza delle risorse umane disponibili; il personale della SEC è in larga parte di formazione legale[17]; essa avrebbe avuto solo tre persone per ciascuna delle cinque banche d’investimento più grandi e solo 13 nel suo Office of Prudential supervision and risk analysis: indizio di una vigilanza più orientata alla trasparenza e al rapporto dell’intermediario con la clientela, che al controllo prudenziale di stabilità. Per lungo tempo i SBD non avrebbero subito ispezioni[18]. Una visione più critica riporta queste carenze all’attitudine politica di laissez-faire a lungo prevalente nell’amministrazione americana. Un fallimento di vigilanza, più che di regolazione?

Note

1.  Barber L., A flawed first draft of history, in F.T., 22 aprile 2009. L’articolo è una versione abbreviata di una conferenza alla Yale University

2.  Fonti: FedReserve flow-of-funds; relazioni annuali degli istituti; World Bank

3.  “a significant regulatory gap“, cfr. www.sec.gov : Chairman Cox Announces End of Consolidated Supervised entities Program, 26 settembre 2008

4.  Vds commento della Freshfield Brukhaus Deringer, Financial conglomerates: the new EU requirements, gennaio 2004

5.  Un consultation paper sull’argomento fu prodotto nel 2003 dalla FSA

6.  New York Times, 2 ottobre 2008

7.  SEC Holding Company Supervision Program Description, modified 6 May 2008

8.  GAO, SEC: alternative net capital requirements for broker/dealers that are part of consolidated supervised entities, 25 giugno 2004

9.  SEC, Inspector General report

10.  SEC, Chairman Cox announces end of consolidated supervised entities program, 26.9.08

11.  Adrian T., Shin H.S., Liquidity, Monetary Policy and Financial Cycles, Federal Reserve Bank of New York, Currency Issues, 14, 1, Jan.-Feb. 2008

12.  Baily M.N.,Elmendorf D.W., Litan R.E., The Great Credit Squeeze, The Brookings Institution, discussion paper, 2008

13.  Coffee J.C., Analyzing the Credit Crisis: Was the SEC Missing in Action, New York Law Journal, 5 dicembre 2008

14.  Dichiarazioni di un anonimo risk manager: Professional gloomy, The Economist, 15 maggio 2008; Confessions of a risk manager, ibidem, 7 agosto 2008

15.  Coffee, cit

16.  È questa una sorta di autodifesa del Presidente della SEC Cox al momento dell’abbandono del programma: Cox C., Testimony Concerning Turmoil in US Credit Markets, before the Committee on Banking, Housing and Urban Affairs, US Senate, 23 settembre 2008

17.  Coffee, cit.

18.  New York Times, cit.