Tra Darwin e Frankenstein: Alcune riflessioni sulle forme di gestione dei servizi pubblici

Il dibattito sulla gestione dei servizi pubblici appare stretto nella morsa di due leve principali: quella agitata dai fautori del più assoluto liberismo, che quindi propugnano forme di selezione competitiva per l’affidamento dei servizi secondo criteri di “mercato” – riservandosi poi di intervenire con la disciplina regolamentare per assicurare il conseguimento del pubblico interesse – e quella azionata invece dai più ferventi sostenitori dei principi solidalistici, per i quali la gestione dei servizi deve essere totalmente ricondotta alla mano pubblica anche in funzione di perseguimento della (presunta) equità sociale attraverso il contenimento tariffario.
Entrambe le tesi appaiono suggestive e meritevoli di considerazione; ma allo stesso tempo è doveroso osservare che nei confronti di entrambe possono esser mosse critiche anche di notevole rilevanza.

Prima di spiegare qualunque argomento in proposito, tuttavia, vale la pena di soffermarsi a sgomberare il campo dalla componente più rumorosa, e forse anche meno pertinente, del dibattito stesso. La primarietà ed essenzialità dei servizi pubblici, o almeno di alcuni fra essi (si pensi, p. es. al servizio idrico), non può essere confusa con la – peraltro infondata – pretesa di una loro gratuità. Se è vero che “non si può privatizzare la pioggia“, come afferma un efficace slogan, certo è altrettanto vero che non si debba confondere l’approvvigionamento d’acqua eseguito direttamente dall’utente che si rechi a riempire le damigiane alla fonte con il beneficio di ricevere l’acqua corrente, controllata e monitorata, direttamente presso il punto di prelievo, semplicemente azionando il rubinetto: risultato per il quale – a differenza del primo caso – sarà anche necessario che qualcuno progetti, realizzi, gestisca e manutenga l’acquedotto con tutti i servizi connessi.
Né può dimenticarsi come la giusta pretesa di tutelare l’ambiente e le risorse idriche non abbia fondamento senza una imponente attività di allontanamento dei reflui e senza il loro trattamento depurativo: ciò che, nuovamente, presuppone che fognature e depuratori vengano progettati, realizzati, eserciti e manutenuti. Nessuno vuole “privatizzare la pioggia”, né lucrarvi sopra. Ma non sembra che nelle dispute di piazza trovi mai cittadinanza una qualche riflessione sull’opportunità di “pubblicizzare i liquami”. Che pure esistono, e di cui qualcuno deve occuparsi. Nel costo al metro cubo c’è l’opera dei gestori nella realizzazione e conduzione delle infrastrutture, e non il costo della “materia prima – acqua”. Si potrebbe semplificare affermando che la tariffa del servizio idrico copre l’uso delle condutture e dei relativi servizi/attività di gestione.
Che l’erogazione del servizio comporti un costo è (dovrebbe essere) fuor di dubbio. Il tema riguarda le modalità di copertura del costo stesso: tariffarlo all’utenza, sulla base di qualsivoglia parametro (es.: il consumo) o sommarlo alla fiscalità generale.
Il metodo tariffario, su cui si potrebbe opinare a piacere, ha almeno il pregio di lasciare ogni utente arbitro dei propri consumi e, quindi, dei costi che dovrà sopportare.
La necessità di una scelta, a ben vedere, non dovrebbe neppure porsi: stanti, da un lato, la profonda iniquità di un riversamento dei costi di gestione sulla fiscalità[1]; dall’altro lato, per la violazione che verrebbe ad integrarsi del principio costituzionale secondo cui ognuno è tenuto a concorrere alle spese pubbliche in ragione della sua capacità contributiva, fermo che il sistema tributario è ispirato a criteri di progressività[2]. Per l’effetto di tale riversamento, infatti, si verificherebbero due situazioni altrettanto intollerabili: che i consumi maggiori operati da un singolo siano solo parzialmente (o magari per nulla) sovvenuti con i versamenti fiscali da questi operati e, quindi, che i costi eccedentari siano distribuiti su tutta la base dei contribuenti; e che – al contrario – singoli redditieri si trovino assoggettati ad un prelievo tributario per finanziare i servizi assolutamente non rapportato alla loro fruizione dei servizi stessi. È fuori dallo scopo di queste considerazioni, ma non per questo inattuale, ogni commento sulla ricostituzione di soggetti gestori sottratti a qualunque efficace controllo o vincolo di economicità del proprio operato stante la certezza di poter traslare i deficit gestionali sulle casse pubbliche, che li copriranno con appositi trasferimenti.
In nessun caso, dunque, la fruizione del servizio potrebbe essere gratuita; e confondere il bene con il servizio può servire forse ad animare un dibattito, non ad illuminarne i contenuti nell’ottica di avvicinare il confronto ad una conclusione costruttiva.
La pretesa gratuità dei servizi pubblici (sembra sufficientemente dimostrato) non esiste, ed al più essa costituirebbe un fenomeno distorsivo delle politiche di equità sociale cui si vorrebbe asservirla; allo stesso tempo la richiesta di contenimento delle tariffe cozza irreparabilmente con la pretesa di efficienza, efficacia ed economicità nella gestione dei servizi stessi.

Così riformulata, la dicotomia appare riconducibile alla prioritizzazione degli obiettivi che la politica normativa intende perseguire rispetto ai servizi stessi: fruibilità sociale o efficacia gestionale?[3]
Anche questa potrebbe essere definita un’alternativa mal formulata (e che, astrattamente, non dovrebbe esistere); si pensi, a titolo esemplificativo, al comparto del trasporto pubblico. Un massiccio aumento del ricorso ai mezzi pubblici non potrebbe che giovare al contesto socio-economico delle città, decongestionando il traffico e favorendo, di conseguenza, gli spostamenti, siano essi per lavoro, studio, piacere. Ma la leva tariffaria, da sola, non è certo sufficiente ad incentivare il ricorso al trasporto pubblico. A Roma il cd. “BIT – Biglietto Integrato a Tempo” consente di usufruire di mezzi di superficie e sotterranei per tutte le tratte percorribili in settantacinque minuti al costo di un solo euro: non è chi non veda come, dal punto di vista meramente economico, tale costo sia di gran lunga il minore tra quelli che si debbono sopportare ricorrendo alle diverse alternative di trasporto. Eppure il ricorso al mezzo pubblico è ancora relativamente scarso, comunque insufficiente, ed il traffico si aggroviglia vieppiù nelle strade.

Le ragioni di questo, pur molteplici, sembrano evidenti, ed alcune in effetti alimentano una perversa spirale di causa ed effetto. Ma l’essenza può ricondursi all’insufficienza dell’infrastruttura di trasporto pubblico, intesa come insieme dei mezzi, delle reti e della capillarità dei punti di accesso, che complessivamente determina tempi “commerciali” insostenibili, rispetto alle esigenze che si trovano, più o meno fondatamente, costrette ad integrare con il ricorso al mezzo privato le potenzialità del trasporto pubblico. Sono in corso grandi opere di ampliamento delle reti e, negli ultimi anni, si è assistito ad un imponente ammodernamento dei mezzi. Ma le aspettative dei possibili fruitori sono ancora lungi dall’essere soddisfatte, e l’obiettivo di riduzione del traffico urbano (e dell’inquinamento che ne consegue) è ancora fuori dalla reale portata. Sarebbero necessari enormi investimenti per colmare il divario fra richieste e possibilità – e sarebbero altresì necessari i fondi per realizzare tali investimenti.
Non c’è, tuttavia, disponibilità nelle casse pubbliche per finanziarli, né disponibilità di credito bancario – a prescindere dalla crisi della finanza – alle attuali condizioni di redditività negativa. Mentre la struttura del rapporto di affidamento in concessione, con investimenti da realizzare nel corso dell’intero periodo di gestione a fronte di flussi di cassa costanti, ma spalmati nel tempo, rende impossibile il ricorso all’autofinanziamento. Il servizio di trasporto pubblico è oggi strutturalmente in perdita, nonostanti i coraggiosi interventi di alcune amministrazioni, e comunque largamente inadeguato al bisogno. Considerazioni più o meno analoghe potrebbero svolgersi per altri servizi – dallo smaltimento dei rifiuti al ciclo delle acque – senza che le conclusioni facciano registrare sostanziali varianze.
La leva tariffaria è, di per sé, inidonea ad incentivare il ricorso al servizio, quindi ad incrementarne la fruizione[4]; questa è relativamente più sensibile a parametri come qualità ed efficienza (fruibilità) del servizio stesso, parametri che dipendono, però, da investimenti il cui costo di realizzazione non trova copertura in dimensioni avulse dal rapporto di fruizione. L’equilibrio economico-finanziario delle gestioni, come assicurabile da un corretto esercizio di pianificazione degli interventi e ponderato controllo dei costi a fronte di un corrispondente intervento sulle tariffe, ancorché nei limiti della sostenibilità sociale[5], rende, invece, disponibile lo strumento di copertura degli investimenti e la bancabilità dei progetti. Occorre solo operare la scelta giusta. Per altri versi, la tariffa che le amministrazioni determinano nelle diverse sedi in cui operano, da un lato si vorrebbe “bassa”, per ragioni di politica sociale; dall’altro – dovendo coprire i costi di gestione ed investimento – è destinata ad aumentare, per sovvenire l’istanza (di cui sono portatrici le stesse amministrazioni) di nuove realizzazioni, migliorie qualitative, tutela ambientale. Ma sempre della stessa tariffa si tratta!

La L. 36/94 (Legge Galli) che istituì il servizio idrico integrato prese coscienza di tale vincolo all’ottimizzazione del sistema e – segnatamente a fronte dell’ingente mole degli investimenti da realizzare per migliorare l’infrastruttura, oggi stimata in circa 46 miliardi di Euro – pose coraggiosamente l’obiettivo che le gestioni rispondessero ai criteri di economicità, efficacia ed efficienza, per affrancare lo sviluppo del servizio dalle disponibilità finanziarie dei soggetti gestori. Con una tariffa costruita in modo da coprire i costi di esercizio, la quota corrente degli investimenti e la remunerazione vincolata del capitale investito, con l’obbligo di trasferire a beneficio degli utenti i recuperi di efficienza, il Servizio Idrico Integrato veniva consegnato già quindici anni or sono all’economia di mercato, dove il gestore è tenuto ad esercitare la propria funzione ed organizzare i mezzi di cui dispone per realizzare gli obiettivi del Piano d’Ambito assicurando la gestione del servizio. Può dirsi che, in tale contesto, il coinvolgimento dei privati nelle gestioni assolvesse al bisogno di competenza imprenditoriale e di gestione finanziaria.
Dopo tanti anni, e nel fiorire di iniziative legislative e regolamentari spesso disorganiche e contraddittorie, la formula – si può dirlo – non ha mai decollato, e si vuole adesso rivoluzionarla. Senza aver chiarito gli obiettivi della riforma.

Nel discutere fra gratuità e remuneratività del servizio si affaccia ogni tanto, più o meno palesemente, il dubbio sulla natura soggettiva del gestore del servizio medesimo: che si vuole, per le medesime ragioni sin qui in commento, ora emanazione diretta della parte pubblica, ora invece espressione dell’iniziativa capitalistica privata. Con l’avviso, però, che – se sarà gestione pubblica (in-house) – questa dovrà farsi carico delle istanze sociali (gratuità, o comunque contenimento tariffario), mentre l’efficacia della gestione (ammodernamento delle infrastrutture, investimenti, finanziamento) rientrerebbe nel dominio di competenza imprenditorial – privatistico. Il contesto regolatorio delle due ipotesi gestionali, tuttavia, non viene diversificato, assumendo che obiettivi tanto diversi possano raggiungersi con gli stessi mezzi, si trovino in fondo al medesimo percorso: one size fits all.
A cavaliere fra le due ipotesi, non però come ideale ponte fra di esse ed in realtà più simile al meticcio che viene respinto da entrambe le etnie di cui è espressione, sta il modello che incarna le utilities company oggi in circolazione, la società mista. Ideale punto di incontro e camera di compensazione fra le opposte esigenze, la società di capitali compartecipata dalle istituzioni pubbliche e dai privati sconta, in questa fase storica, una crisi di rigetto da parte di tutte le anime del dibattito sull’economia di diritto pubblico. E viene spontaneo andare ad investigare le ragioni di tale crisi.
Il modello di intervento delle finanze pubbliche nel capitale di impresa non è certo nuovo. Ma tra l’IRI di Beneduce e le società miste (ex municipalizzate) affidatarie di concessioni di servizio pubblico esistono forse più differenze che punti di contatto.
Intanto, non c’è l’IRI, cioè la holding finanziaria a capitale interamente pubblico[6] in cui scatenare le forze della politica per ricavarne le direttive di gestione da trasferire alle società operative; né l’identità soggettiva tra Stato-Azionista e Stato-Regolatore, che protegge gli interessi in gioco, nel bene e nel male. È diversa la caratura dell’azionariato pubblico, locale e non statale, ed è diversa la natura delle attività “sottostanti”: che nei casi qui in esame riguardano servizi di pubblica utilità (accessoriamente) gestiti in forma di impresa, mentre ai tempi delle Partecipazioni Statali comprendevano l’esercizio di imprese nelle loro forme più variegate, dalle autovetture ai panettoni, ed (accessoriamente) i servizi (la SIP). Nessun pubblico interesse veniva tutelato nella gestione delle imprese di Stato, salvi la generale salute dell’economia, il mantenimento dei livelli occupazionali, il presidio di alcuni settori strategici.

Nell’economia dei servizi pubblici – che sono intrinsecamente business di costi, a remuneratività vincolata, in cui la sfida gestionale riguarda il recupero di efficienza (a parità di qualità del servizio) e l’attrazione di fonti di finanziamento – la partecipazione delle amministrazioni locali assolve con ogni evidenza allo scopo di assicurare il perseguimento delle finalità di interesse generale, fra cui la fruibilità del servizio, la sua sostenibilità dal punto di vista degli utenti, lo sviluppo delle infrastrutture, la funzione di volano del tessuto economico di riferimento. Pietra dello scandalo, viene riservata alla componente privata la sola estrazione della quota di competenza dei profitti della gestione, quasi un esercizio parassitario rispetto all’insieme di forze positive che si applicano alla gestione mista[7].
Ma l’azionista di matrice pubblica recita numerose altre parti nella medesima commedia: esso è committente/concedente del servizio e delle infrastrutture strumentali, controllore della sua qualità e determinatore del regime tariffario. Ruoli in (potenziale) conflitto di interessi al loro interno e con la natura di contitolare del rischio/beneficio associato all’attività di impresa che è propria del soggetto gestore costituito in forma lucrativa.
Alla composizione del conflitto si tende con la stratificazione di norme e regolamenti, oltre che con il ricorso a pattuizioni parasociali con la componente privata, per imbrigliare l’operatività nella gestione dei servizi, dubitando, evidentemente a ragione, della capacità del conflitto di auto-dirimersi con l’individuazione di un equilibrio stabile al suo interno[8]. Ma l’esperienza rivela come anche la regolamentazione subisca il pendolo ideologico fra i due estremi, sicché il conflitto si acuisce o entra in temporanea latenza, ma non si risolve davvero.
Maggiore è il livello di coinvolgimento del capitale privato, più aspro il conflitto che si registra: quando si verifichi anche almeno una delle due condizioni limite, cioè quando il capitale privato sia stato reperito attraverso il collocamento in borsa di parte del capitale del gestore (e/o di una sua eventuale holding) o allorché il socio privato sia anche (potenziale) fornitore dell’azienda, la tensione si accresce a dismisura.
Alle norme di presidio del servizio pubblico (e delle società a prevalente partecipazione dello Stato, ove applicabili) si sommano quelle dettate a tutela del pubblico risparmio; agli interessi “di servizio” si contrappongono quelli “di profitto”. E la bagarre, normativa quanto ideologica, deflagra in rivoli la cui composizione, sovente, non riesce più. Si arma la mano di associazioni consumeristiche che osteggiano qualunque iniziativa, si ritarda l’attuazione dei piani, si alimenta l’attenzione della magistratura penale, poco interessata al dibattito fondamentale del servizio e, invece, doverosamente puntuale nel registrare i danni all’ambiente, le violazioni in commesse pubbliche, etc.

Quando gli amministratori locali – concedenti – azionisti intervengono nella governance di una società quotata, il cui capitale è dunque parzialmente detenuto da soggetti affatto estranei agli interessi locali, per influenzarne la determinazione delle strategie industriali in ottica di coerenza con gli interessi di cui tali amministratori sono legittimi portatori, essi stanno usando di poteri e mezzi propri dell’imprenditoria di mercato per coltivare finalità di politica economico – sociale: anch’esse certamente legittime, ma altrettanto estranee al veicolo utilizzato per il loro dispiego. E – potenzialmente – in conflitto con gli interessi degli altri azionisti.
In altre parole, quasi con un intervento di bio-ingegneria, si cerca di modificare la struttura genetica dello strumento “società lucrativa” per piegarlo a fini diversi da quelli che gli sono ontologicamente propri[9]. Senza avvisarne i cointeressati.
Senza scomodare la bioetica, l’incrocio delle razze in funzione della selezione di nuovi tipi biologici per soddisfare bisogni nuovi è sempre esistito, ed appare perfettamente legittimo nei limiti che le scienze biologiche hanno imparato ad applicare a se stesse. Il diritto dell’economia pubblica, nell’avventurarsi sulla strada dell’eugenetica, non si è guardato intorno, ed ha lasciato che nel proprio laboratorio venissero sperimentati gli innesti più arditi. Si può sostenere che qualche creatura sia sfuggita al controllo e si aggiri oggi pericolosamente a terrorizzare i cittadini.

L’incrocio di finalità diverse sul medesimo strumento si verifica anche indipendentemente dal collocamento sui mercati del capitale azionario, posto che l’esercizio dei diritti corporativi spettanti al socio pubblico per il perseguimento di finalità politiche è sempre la risultante di un uso dello strumento difforme da quello originario, uso che inevitabilmente ha luogo in danno dell’altra componente del capitale. Ma potrebbe ritenersi, in un ambiente più ristretto quale quello di una closed corporation con pochi azionisti per giunta vincolati fra loro da pattuizioni contrattuali specifiche, che sia almeno teoricamente più facile individuare un possibile minimo comun denominatore fra le diverse istanze. Quando l’obiettivo politico impinge nell’interesse privato che è stato attratto da finalità e strumenti che all’uso politico sono, o dovrebbero rimanere, affatto estranei, e pertengono invece alla “proprietà privata” nel senso che pare di poter leggere nella Carta Costituzionale, questo non è più accettabile.
Recita l’art. 42 Cost.: “La proprietà è pubblica o privata. I beni appartengono allo Stato, ad enti o a privati”. Qualcosa vorrà pur dire. La società (di capitali) costituita “per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili” (C. C., art. 2247) è per definizione e natura strumento di esercizio del fare imprenditoriale, avente fini di lucro. Essa rientra nel novero di beni che possono bensì appartenere “allo Stato, ad enti o a privati”, ma nell’ambito della “proprietà privata”, non di quella pubblica. Non si può ricondurla al novero dei mezzi di attuazione delle finalità politiche, a livello sociale e nemmeno economico – novero che rientra nell’ambito della “proprietà pubblica”.
L’attribuzione di obiettivi pubblici a strumenti di carattere privato è l’artificioso incrocio, forse anch’esso figlio di una stagione della storia, con cui si è tentato di ridurre l’intervento pubblico nell’economia, uscendo dal “panettone di Stato” e restituendo una pretesa di efficienza al sistema; così come l’impiego dei poteri di corporate governance – di cui tanto più si parla quanto meno si comprende – per la socializzazione dell’attività di impresa appartiene forse alla successiva fase in cui “un po’ di Stato fa bene”. Ma sempre di incrocio di laboratorio si tratta.
Nell’evoluzione naturale si tende per prove ed errori alla specializzazione in funzione delle circostanze (“la funzione crea l’organo”), fortificando gli individui rispetto ai progenitori e dotandoli di un migliore apparato di capacità per gestire l’ambiente e prosperare. I casi in cui queste evoluzioni hanno successo rientrano però, senza eccezioni, nell’ambito della commistione di ceppi della medesima specie (incroci intra-specifici). Quando si sono invece tentati gli incroci di specie diverse (inter-specifici) si sono magari ottenuti esemplari in possesso delle caratteristiche ricercate, ma funzionalmente incapaci dal punto di vista biologico: gli ibridi, che generalmente sono anche sterili.
Secondo i maggiori dizionari della lingua italiana, e secondo gli insegnamenti delle scienze biologiche e naturali, “ibrido” è l’incrocio di razze o specie diverse, che mal si fondono tra loro, in cui quanto maggiore è l’identità filogenetica tanto più alta è la probabilità di ottenere esemplari funzionali; ibridi di individui appartenenti a specie differenti sono sterili (si pensi al mulo).

La natura pubblica e quella privata della proprietà non ha a che vedere con l’appartenenza a soggetti identitariamente differenti, ma a diverse prerogative che spettano, e doveri che incombono, al titolare. Nel caso di proprietà pubblica – è appena il caso di rilevarlo – l’antica definizione di ius utendi vel abutendi rei propriae è certamente inadatta: lo Stato non può distruggere una sua proprietà “per il gusto di farlo”. Divergono le prerogative, differiscono le finalità. Del resto lo “Stato” come soggetto amministrativo non è che il gestore di un patrimonio della collettività: cui deve render conto del proprio operato, com’è ovvio, e nel cui interesse deve, pertanto, agire.
La specie “proprietà pubblica” è solo remotamente parente di quella “proprietà privata”, magari in qualche modo l’una discende dall’altra e si sono diversificate e specializzate con l’evolversi della struttura sociale, dell’articolazione dello Stato, delle possibilità di iniziativa economica privata. Entrambe necessarie, pure devono rimanere distinte. Ben può lo Stato possedere a titolo privato, nelle circostanze opportune; in tali casi, tuttavia, esso deve agire non solo iure, ma anche finibus privatorum. Ne va dell’equilibrio dei ruoli, della certezza del diritto, in definitiva delle prospettive di sviluppo dell’intera economia. Oppure lo Stato può agire secondo ius publicum, lungo la propria strada istituzionale, perseguendo finalità pubblicistiche con gli strumenti che gli sono propri. Ma è un’altra storia, che non prevede il coinvolgimento (inconsapevole) di capitale privato.
Decida il Legislatore se confermare la natura imprenditoriale dei pubblici servizi o negarla, o lasciare alle singole amministrazioni la scelta fra i diversi regimi. Ma cessi il ricorso alle forme dell’una per l’attuazione degli obiettivi dell’altra e siano definite regole distinte per le diverse forme di gestione, in coerenza con i veri obiettivi che le vengono attribuiti.
La società mista, il partenariato pubblico – privato, è parsa una panacea, la coniugazione dell’efficienza imprenditoriale con il controllo sociale della proprietà pubblica. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, e le vicende di alcune tra le maggiori utilities nazionali destano scalpore negli ambienti della finanza come sulla stampa. Da una parte lo Stato si preoccupa di mondare questo apparato dal sovraccarico di costi ed oneri impropri che pure derivano dall’incrocio, effetti collaterali indesiderati; dall’altra la liberalizzazione del mercato spinge ad una sovrapposizione delle regole per correggere le asimmetrie, intervenendo in modo stringente su dettagli organizzativi, gestionali, etc., frustrando le prerogative privatistiche e, in qualche modo, limitandone la sovranità; dall’altra parte ancora si predica l’applicazione dei principi del governo di impresa (secondo cui il primo dovere degli amministratori è to enhance shareholders’ value) e, infine, si reindossa l’abito pubblicista per assegnare alla società mista compiti propri della politica, come se di questa essa fosse una strumentalità[10].
Il PPP è il frutto di un incrocio fra lontani parenti, specie ormai diversificate, forse ancor meglio un innesto, un contenuto pubblico dentro una veste privata, che stenta a rispondere alle esigenze dell’uno o dell’altro suo genitore. Non si discute della nobiltà degli intenti, ma del risultato: Προς τε Πλάτον, οπιτεν τε Πλάτον, μησσε τε Χιμαιρα[11].
Il derivato dell’incrocio di specie diverse, con patrimonio genetico distinto e scarsamente compatibile, è tendenzialmente sterile e – qualora funzionale – solo in grado di replicare l’uno o l’altro dei propri progenitori. Un ibrido infruttifero, insomma.
La sterilità delle società miste è, o dovrebbe essere, sotto gli occhi di tutti: mentre una parte largamente rilevante della “imprenditoria” di gestione dei servizi pubblici (e si potrebbe estendere il campione anche alle altre manifestazioni degli incroci in commento) langue tra risultati economici non certo soddisfacenti, mentre la moralizzazione dell’azione amministrativa stringe i cordoni della borsa da cui provengono le paghe dei manager cui si affida l’attuazione dei piani industriali di queste creature, mentre le Autorità di vigilanza sul territorio ed il servizio manifestano sempre più veementemente la loro insoddisfazione per le mancate realizzazioni di competenza dei gestori, e fanno fioccare procedimenti ed avvisi di garanzia, le società miste elevano un coro di lamentazioni, peraltro spesso del tutto inascoltate. I piani tariffari sono modellati su un sistema di costi elaborato a tavolino e che sottostima la realtà, i vincoli regolamentari non tengono conto dell’impegno necessario ad adeguarsi a soglie qualitative sempre più elevate, la crisi complessiva del sistema riduce la propensione al tempestivo pagamento delle quote a proprio carico da parte dell’utenza … E la qualità, l’efficienza, l’efficacia – l’economicità – della gestione dei servizi pubblici non prendono il volo.
Nel frattempo le diverse componenti dell’azionariato si confrontano sull’assunzione del potere, invece che sui fatti gestionali, travolgendo gli interessi dei risparmiatori e degli utenti – ma anche quelli dei lavoratori, dei fornitori, etc., insomma di tutti gli stakeholders, con buona pace dell’inserimento delle società miste nel novero delle istituzioni soggette ai più rigorosi standard di autodisciplina in materia di governo d’impresa.

È questo il mezzo cui si vuole affidare la sfida dei servizi del terzo millennio?

Consegnare la gestione dei servizi pubblici (trasporti, rifiuti, illuminazione pubblica, acquedotto-fognatura-depurazione, etc.) alla perenne tensione fra gestione imprenditoriale (come, almeno per alcuni di essi, prevede la legge) e quindi riconoscere che chi esercita tale attività è legittimato a ricavarne un profitto, peraltro regolato dalla legge stessa, non è una oscenità; come non lo è il prevedere che la gestione debba, invece, fungere da strumento di una più ampia operazione di amministrazione della res publica. Ma forzare la convivenza tra i due modelli, lasciando nel frattempo che il pendolo regolatorio oscilli fra i due estremi senza disegnare al contempo un sistema di regole comportamentali sostanziali e standard gestionali, garanzie funzionali, obiettivi compatibili, rientra, piuttosto, nella irrazionalità delle scelte: da cui sembra opportuno rifuggire.

Note

1.  E lasciando serenamente da parte ogni riflessione sulla trasparenza delle gestioni pubbliche negli affari che coinvolgono grandi movimenti di capitale.

2.  Così recita l’art. 53 Cost.

3.  Dove, per efficacia, si intende sia la capacità di tenere i costi sotto controllo, estraendo dall’attività imprenditoriale un giusto profitto, che la realizzazione delle azioni gestionali, tra cui gli investimenti, che migliorano qualità e fruibilità dei servizi.

4.  Per converso, almeno per i servizi che coinvolgono risorse scarse, quali possono essere lo smaltimento dei rifiuti o il servizio idrico, la leva tariffaria appare un efficace strumento regolatorio dei consumi.

5.  Cioè il principio del price cap, come – timidamente – attuato p. es. dal DM 1/8/96 in relazione al servizio idrico integrato, pur con tutti i limiti che di esso evidenzia L. Castellucci su www.apertacontrada.it, I servizi idrici in Italia ed i guasti della non-scelta.

6.  Né il Ministero delle Partecipazioni Statali, cioè il vero ambito di confronto fra esigenze politiche e compatibilità imprenditoriali.

7.  E quasi che l’amministrazione – azionista non abbia interesse (anche) ai dividendi.

8.  G. Wood,, nel suo saggio Governance, not Regulation, su www.apertacontrada.it ha brillantemente illustrato la relativa inefficacia dello strumento regolatorio, rispetto a quello di indirizzo/incentivo alla gestione, per il soddisfacimento del pubblico interesse.

9.  Bene osserva la Castellucci, nel suo saggio sopra citato, come allo Stato debba affidarsi il compito di “svolgere la funzione di vigilanza sul monopolio e (…) attuare il grado di equità che la collettività desidera“, mentre non c’è “(n)iente di più sbagliato, in termini di risultati economici (efficienza nell’uso e nella conservazione), che mischiare questi due aspetti (efficienza nella gestione ed equità nella fruizione, N.d.A.) e niente di più sbagliato quindi della posizione riassunta nello slogan: “l’acqua è un diritto” da cui discende che, come tale, la tariffa deve essere molto bassa.

10.  L’analisi di Amy J. Hillman e Gerald D. Keim, Shareholder value, stakeholder management and social issues: what’s the bottom line?, sullo Strategic Management Journal, Vol. 122, N. 2 (2001), pp. 125-139, che esamina i dati delle società costituenti l’indice S&P 500, conferma che “using corporate resources for social issues not related to primary stakeholders may not create value for shareholders“, concludendo che “social issue participation is negatively associated with shareholder value“.

11.  “(Visto) da davanti (sembra) Platone, da dietro Platone, all’interno c’è (solo) la Chimera“, F. W. Nietzsche, Al di là del Bene e del Male.