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Tra Darwin e Frankenstein: Alcune riflessioni sulle forme di gestione dei servizi pubblici

di - 13 Luglio 2009
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Nell’economia dei servizi pubblici – che sono intrinsecamente business di costi, a remuneratività vincolata, in cui la sfida gestionale riguarda il recupero di efficienza (a parità di qualità del servizio) e l’attrazione di fonti di finanziamento – la partecipazione delle amministrazioni locali assolve con ogni evidenza allo scopo di assicurare il perseguimento delle finalità di interesse generale, fra cui la fruibilità del servizio, la sua sostenibilità dal punto di vista degli utenti, lo sviluppo delle infrastrutture, la funzione di volano del tessuto economico di riferimento. Pietra dello scandalo, viene riservata alla componente privata la sola estrazione della quota di competenza dei profitti della gestione, quasi un esercizio parassitario rispetto all’insieme di forze positive che si applicano alla gestione mista[7].
Ma l’azionista di matrice pubblica recita numerose altre parti nella medesima commedia: esso è committente/concedente del servizio e delle infrastrutture strumentali, controllore della sua qualità e determinatore del regime tariffario. Ruoli in (potenziale) conflitto di interessi al loro interno e con la natura di contitolare del rischio/beneficio associato all’attività di impresa che è propria del soggetto gestore costituito in forma lucrativa.
Alla composizione del conflitto si tende con la stratificazione di norme e regolamenti, oltre che con il ricorso a pattuizioni parasociali con la componente privata, per imbrigliare l’operatività nella gestione dei servizi, dubitando, evidentemente a ragione, della capacità del conflitto di auto-dirimersi con l’individuazione di un equilibrio stabile al suo interno[8]. Ma l’esperienza rivela come anche la regolamentazione subisca il pendolo ideologico fra i due estremi, sicché il conflitto si acuisce o entra in temporanea latenza, ma non si risolve davvero.
Maggiore è il livello di coinvolgimento del capitale privato, più aspro il conflitto che si registra: quando si verifichi anche almeno una delle due condizioni limite, cioè quando il capitale privato sia stato reperito attraverso il collocamento in borsa di parte del capitale del gestore (e/o di una sua eventuale holding) o allorché il socio privato sia anche (potenziale) fornitore dell’azienda, la tensione si accresce a dismisura.
Alle norme di presidio del servizio pubblico (e delle società a prevalente partecipazione dello Stato, ove applicabili) si sommano quelle dettate a tutela del pubblico risparmio; agli interessi “di servizio” si contrappongono quelli “di profitto”. E la bagarre, normativa quanto ideologica, deflagra in rivoli la cui composizione, sovente, non riesce più. Si arma la mano di associazioni consumeristiche che osteggiano qualunque iniziativa, si ritarda l’attuazione dei piani, si alimenta l’attenzione della magistratura penale, poco interessata al dibattito fondamentale del servizio e, invece, doverosamente puntuale nel registrare i danni all’ambiente, le violazioni in commesse pubbliche, etc.

Quando gli amministratori locali – concedenti – azionisti intervengono nella governance di una società quotata, il cui capitale è dunque parzialmente detenuto da soggetti affatto estranei agli interessi locali, per influenzarne la determinazione delle strategie industriali in ottica di coerenza con gli interessi di cui tali amministratori sono legittimi portatori, essi stanno usando di poteri e mezzi propri dell’imprenditoria di mercato per coltivare finalità di politica economico – sociale: anch’esse certamente legittime, ma altrettanto estranee al veicolo utilizzato per il loro dispiego. E – potenzialmente – in conflitto con gli interessi degli altri azionisti.
In altre parole, quasi con un intervento di bio-ingegneria, si cerca di modificare la struttura genetica dello strumento “società lucrativa” per piegarlo a fini diversi da quelli che gli sono ontologicamente propri[9]. Senza avvisarne i cointeressati.
Senza scomodare la bioetica, l’incrocio delle razze in funzione della selezione di nuovi tipi biologici per soddisfare bisogni nuovi è sempre esistito, ed appare perfettamente legittimo nei limiti che le scienze biologiche hanno imparato ad applicare a se stesse. Il diritto dell’economia pubblica, nell’avventurarsi sulla strada dell’eugenetica, non si è guardato intorno, ed ha lasciato che nel proprio laboratorio venissero sperimentati gli innesti più arditi. Si può sostenere che qualche creatura sia sfuggita al controllo e si aggiri oggi pericolosamente a terrorizzare i cittadini.

L’incrocio di finalità diverse sul medesimo strumento si verifica anche indipendentemente dal collocamento sui mercati del capitale azionario, posto che l’esercizio dei diritti corporativi spettanti al socio pubblico per il perseguimento di finalità politiche è sempre la risultante di un uso dello strumento difforme da quello originario, uso che inevitabilmente ha luogo in danno dell’altra componente del capitale. Ma potrebbe ritenersi, in un ambiente più ristretto quale quello di una closed corporation con pochi azionisti per giunta vincolati fra loro da pattuizioni contrattuali specifiche, che sia almeno teoricamente più facile individuare un possibile minimo comun denominatore fra le diverse istanze. Quando l’obiettivo politico impinge nell’interesse privato che è stato attratto da finalità e strumenti che all’uso politico sono, o dovrebbero rimanere, affatto estranei, e pertengono invece alla “proprietà privata” nel senso che pare di poter leggere nella Carta Costituzionale, questo non è più accettabile.
Recita l’art. 42 Cost.: “La proprietà è pubblica o privata. I beni appartengono allo Stato, ad enti o a privati”. Qualcosa vorrà pur dire. La società (di capitali) costituita “per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili” (C. C., art. 2247) è per definizione e natura strumento di esercizio del fare imprenditoriale, avente fini di lucro. Essa rientra nel novero di beni che possono bensì appartenere “allo Stato, ad enti o a privati”, ma nell’ambito della “proprietà privata”, non di quella pubblica. Non si può ricondurla al novero dei mezzi di attuazione delle finalità politiche, a livello sociale e nemmeno economico – novero che rientra nell’ambito della “proprietà pubblica”.
L’attribuzione di obiettivi pubblici a strumenti di carattere privato è l’artificioso incrocio, forse anch’esso figlio di una stagione della storia, con cui si è tentato di ridurre l’intervento pubblico nell’economia, uscendo dal “panettone di Stato” e restituendo una pretesa di efficienza al sistema; così come l’impiego dei poteri di corporate governance – di cui tanto più si parla quanto meno si comprende – per la socializzazione dell’attività di impresa appartiene forse alla successiva fase in cui “un po’ di Stato fa bene”. Ma sempre di incrocio di laboratorio si tratta.
Nell’evoluzione naturale si tende per prove ed errori alla specializzazione in funzione delle circostanze (“la funzione crea l’organo”), fortificando gli individui rispetto ai progenitori e dotandoli di un migliore apparato di capacità per gestire l’ambiente e prosperare. I casi in cui queste evoluzioni hanno successo rientrano però, senza eccezioni, nell’ambito della commistione di ceppi della medesima specie (incroci intra-specifici). Quando si sono invece tentati gli incroci di specie diverse (inter-specifici) si sono magari ottenuti esemplari in possesso delle caratteristiche ricercate, ma funzionalmente incapaci dal punto di vista biologico: gli ibridi, che generalmente sono anche sterili.
Secondo i maggiori dizionari della lingua italiana, e secondo gli insegnamenti delle scienze biologiche e naturali, “ibrido” è l’incrocio di razze o specie diverse, che mal si fondono tra loro, in cui quanto maggiore è l’identità filogenetica tanto più alta è la probabilità di ottenere esemplari funzionali; ibridi di individui appartenenti a specie differenti sono sterili (si pensi al mulo).

Note

7.  E quasi che l’amministrazione – azionista non abbia interesse (anche) ai dividendi.

8.  G. Wood,, nel suo saggio Governance, not Regulation, su www.apertacontrada.it ha brillantemente illustrato la relativa inefficacia dello strumento regolatorio, rispetto a quello di indirizzo/incentivo alla gestione, per il soddisfacimento del pubblico interesse.

9.  Bene osserva la Castellucci, nel suo saggio sopra citato, come allo Stato debba affidarsi il compito di “svolgere la funzione di vigilanza sul monopolio e (…) attuare il grado di equità che la collettività desidera“, mentre non c’è “(n)iente di più sbagliato, in termini di risultati economici (efficienza nell’uso e nella conservazione), che mischiare questi due aspetti (efficienza nella gestione ed equità nella fruizione, N.d.A.) e niente di più sbagliato quindi della posizione riassunta nello slogan: “l’acqua è un diritto” da cui discende che, come tale, la tariffa deve essere molto bassa.

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