Riflessioni sulla sostenibilità globale

Queste note sono suscitate dalle lettura di un importante volume uscito di recente: “Global Sustainability: Social and Environmental Conditions” di Alessandro Vercelli e Simone Borghesi (Palgrave Macmillan, New York, 2008).Il volume riguarda la sostenibilità della globalizzazione, nei suoi due aspetti di sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale.
Affrontare il problema della sostenibilità globale richiede un approccio interdisciplinare, data la indiscutibile importanza dei fattori istituzionali, e quindi anche di quelli di natura giuridica, nell’analisi e nelle implicazioni di “policy” per una globalizzazione sostenibile.
Concordo con la visione che emerge dal volume di Vercelli e Borghesi, che l’impatto della globalizzazione sulla sostenibilità dello sviluppo è potenzialmente benefico, purché si realizzino alcune condizioni, che sono in primo luogo condizioni di natura istituzionale.
La globalizzazione consiste in una crescente integrazione dei mercati di diverse economie. Ora, la “buona teoria economica” ha messo da tempo in luce le condizioni che devono verificarsi perché i mercati, il cui ruolo la globalizzazione progressivamente estende, producano risultati di aumento del benessere collettivo.
Queste condizioni sono state sorprendentemente sottovalutate dai sostenitori acritici ed incondizionati dei benefici automatici della globalizzazione.
Gli autori mettono bene in evidenza come questo abbia a che fare con un mutamento nella concezione liberale in rapporto all’economia, caratterizzata dal passaggio da liberalismo classico, ad un liberalismo aggiornato al neoliberalismo.
Caratteristica del neoliberalismo è appunto una sottovalutazione delle condizioni necessarie perché i mercati svolgano in modo appropriato la loro funzione di meccanismi di allocazione efficiente delle risorse (lasciando da parte l’aspetto redistributivo).
L’idea fondamentale che ha caratterizzato questa visione neo liberale si può sintetizzare nel cosiddetto “Washington Consensus” ed è quella della bontà ed efficacia dell’autoregolamentazione dei mercati.
Secondo questa visione, i concetti che devono ispirare l’organizzazione delle istituzioni economiche sono quelli di privatizzazione, liberalizzazione e soprattutto fiducia nella capacità dei mercati di autoregolarsi, e quindi, per converso, sfiducia nel ruolo regolatore del governo.
Come dicevo, la “buona” teoria economica ha però da tempo messo in luce quanto stringenti devono essere le condizioni per confidare nella capacità di autoregolazione dei mercati (perfetta concorrenza, trasparenza, simmetria e diffusione dell’informazione).
Il realizzarsi di questa complessità di condizioni è estremamente difficile, se non impossibile: il premio Nobel Stiglitz dice che la “mano invisibile” del mercato è invisibile perché non esiste.
Ne consegue che, sempre per la “buona” teoria economica, un intervento pubblico è necessario.
Ma resta aperto il problema della natura che questo intervento pubblico deve assumere. Nel passato era prevalsa l’idea di un intervento pubblico sostitutivo rispetto al mercato. Ma questa impostazione ha portato a molte delusioni.
Così oggi la “buona” teoria economica, pur non escludendo del tutto, un intervento sostituivo, si pronuncia decisamente a favore di un intervento regolativo. In altre parole, al governo spetta di stabilire le regole del gioco del mercato.
In questo non è tanto importante la quantità delle regole, ma la loro qualità; troppe regole possono essere controproducenti; occorrono magari poche, ma buone regole.
Inoltre, per rispondere alla tentazione di chi opera nel settore pubblico di fare i propri interessi invece che quelli della collettività, occorre anche un sistema di autorità indipendenti che facciano rispettare queste regole.
Si tratta di una architettura molto complessa e per nulla facile da costruire, nella quale chiunque può vedere l’importanza del ruolo dell’etica.
Purtroppo questa complessità è stata di fatto ignorata da troppi economisti che oggi svolgono il ruolo di consulenti o che influiscono sull’opinione pubblica, e che hanno finito per puntare su indicazioni troppo semplicistiche e parziali.
Il problema della sostenibilità della globalizzazione è quindi un aspetto del problema del ruolo appropriato della regolazione nei confronti dei mercati.
Il libro di Vercelli e Borghesi si sofferma su due aspetti dello sviluppo sostenibile, quello ambientale e quello sociale. A ben vedere l’applicazione di questa idea generale di una regolazione appropriata vale per entrambi gli aspetti.
In fondo anche dalla loro analisi delle condizioni per l’aspetto sociale della sostenibilità dello sviluppo emerge l’insufficienza di un approccio del tipo “trickle down”. Di qui l’importanza di politiche volte a ridurre la disuguaglianza e la povertà, specialmente all’interno delle economie che entrano a tassi di crescita elevati nel processo di globalizzazione; tenendo anche conto delle probabili implicazioni negative che questo può avere sulla sostenibilità economica del processo di crescita (tensioni sociali, effetti negativi del basso livello di salute).
A ciò deve aggiungersi lo sforzo di evitare la marginalizzazione di interi paesi dal processo potenzialmente benefico della globalizzazione.

In quanto segue intendo però concentrarmi sull’aspetto ambientale della sostenibilità della globalizzazione.
Ma anche qui emerge l’importanza del ruolo della regolazione. In fondo se noi guardiamo allo strumento che, anche secondo Vercelli e Borghesi, viene invocato a favore di una visione ottimistica del rapporto tra crescita economia, globalizzazione di tale crescita e ambiente, e cioè la “Curva di Kuznets Ambientale”, noi ci rendiamo conto che nell’operare di tale curva è bene presente il ruolo della regolazione.
Nei paesi in via di sviluppo la regolazione è debole; in quelli più avanzati la regolazione è più forte. Perché? Anche per la diversa sensibilità all’ambiente in rapporto all’obiettivo della crescita. Importante il ruolo della elasticità della domanda di qualità ambientale rispetto al reddito.
Date le troppo parziali evidenze empiriche della curva di Kuznets, è meglio interpretarla come menu di politiche: anticipare la regolazione alle prime fasi della crescita; ma quali sono le condizioni?
Un punto da non ignorare in questo dibattito è il ruolo della transizione nei tassi di crescita; i tassi sono prima molto elevati, ma poi inevitabilmente scendono.
Un aspetto importante del libro di Vercelli e Borghesi riguarda la “contabilità della sostenibilità”. Qui emerge il ruolo del progresso tecnico. Non è automatico che quello che innalza la produttività del lavoro riduca anche l'”emission intensity” o l'”energy intensity”.
Emerge allora la necessità di accoppiare la regolazione ambientale (tasse o standard) con una politica attiva del progresso tecnologico ambientale. Utilizzando ad esempio i ricavi dalle tasse ambientali (o da un sistema permessi di inquinamento venduti all’asta) per investimenti che sostengano il progresso tecnico favorevole all’ambiente. Oppure assegnando un ruolo specifico alla spesa pubblica mediante le pratiche del “green procurement”.
Un ruolo importante è svolto dalla responsabilità sociale ambientale: dei consumatori, che sono anche elettori, e delle imprese che possono diventare sostenibili per i principi etici affermati dagli stakeholder; ma anche per il ruolo della regolazione, per la necessità di essere accreditabili presso l’opinione pubblica e per la possibilità di incorrere in azioni di responsabilità civile.

Dove è difficile avere una autorità di regolazione, è nei problemi ambientali globali. Vercelli e Borghesi dedicano parte del libro al più importante di questi problemi: il cambiamento climatico.
Qui l’integrazione tra aspetto economico e istituzionale è particolarmente evidente perché c’è un problema di disegno delle istituzioni.
Come portare i PVS, in particolare i potenziali grandi emettitori di GHGs, dentro l’accordo? Il cambiamento climatico è un problema globale e bisognerebbe includere tutti, per evitare che le riduzioni di emissioni di qualche paese siano più che compensate dagli aumenti di altri più grandi. Non possiamo eludere quello che Stiglitz chiama il problema dell'”equitable burden sharing”.
Kyoto è stato criticato molto. Ma se ci poniamo in una logica Post-Kyoto vediamo quanto le cose siano difficili. Qualsiasi approccio veramente globale deve tener conto che passare da una situazione i cui costi sociali vengono incorporati nei prezzi cambia i prezzi relativi con inevitabili effetti distributivi.
Le cose si complicano dato che questa inclusione dei costi sociali nei prezzi relativi avviene mediante decisioni che sono necessariamente politiche.
Basta un minimo di riflessione per capire gli enormi problemi che avrebbe un sistema globale di strumentazione, sia esso basato su una tassa globale sul carbonio o su un sistema globale di permessi.
Se si decidesse di usare come strumento una tassa sul contenuto di carbonio, il primo problema sarebbe quello di come convincere tutti i paesi ad imporla. E qui c’è il ben noto problema di asimmetria informativa del regolatore in presenza di tasse ambientali. Poi c’è il problema di come usare a livello globale il reddito della tassa, in modo da favorire l’accettazione dei PVS.
Se si usano i permessi, il problema è quello della loro distribuzione iniziale. Darli sulla base delle emissioni passate è ingiusto; è come allocare la redistribuzione degli aiuti in un sistema federale sulla base della spesa passata. Un principio di equità suggerirebbe di allocarli in proporzione alle emissioni pro-capite, che oggi favorisce i PVS.
La corrispondenza tra un sistema di permessi e la tassa globale sul carbonio si ha solo se i permessi sono venduti all’asta, anche perché questo assicura un gettito al regolatore, gettito che può essere ridistribuito.

Questo va bene tra paesi avanzati: ad es. il sistema europeo dovrebbe essere basato sull’asta e per renderlo più accettabile dovrebbe essere garantito l’uso del gettito per supporto R&D e per scopi redistributivi.
Che dire di un sistema applicato a livello globale? I paesi ricchi dovrebbero pagare per avere i permessi. Se pagano, i più ricchi che emettono di più hanno più permessi, ma almeno danno luogo ad un gettito che può essere utilizzato per i meno ricchi in una logica di sviluppo sostenibile. Inoltre i ricchi possono vendere i permessi ai più poveri, ma a che prezzo? Di fatto potrebbe essere così alto da non favorire i PVS. Non sono del tutto sicuro che applicato a livello globale funzionerebbe e favorirebbe i PVS. C’è anche il rischio di un eccesso di offerta con un prezzo troppo basso.
In ogni caso c’è un enorme problema di implementazione di un mercato globale dei permessi, nonché di “monitoring” e di “enforcement”.
Ci sono poi ancora altri problemi. Un paese in via di sviluppo che ha costi marginali di abbattimento più bassi vende permessi al paese avanzato e riceve redditi; come evitare che vengano usati per politiche di crescita non sostenibili? Ecco un altro esempio di come la regolazione ambientale vada associata con una politica, in questo caso, di trasferimento di tecnologie.

In conclusione, specialmente quando consideriamo i problemi ambientali globali, ci rendiamo conto che la globalizzazione dello sviluppo, benché possa essere promossa dai mercati, non può essere lasciata solo ai mercati: essa richiede politiche coordinate, specialmente nella direzione di una immissione delle tecnologie più adeguate a garantire la sostenibilità del processo di globalizzazione, e la diffusione di un’etica della responsabilità sociale nei vari paesi, diffusione che può essere promossa utilizzando il meglio delle diverse culture e tradizioni che in questi paesi si esprimono.