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1929 e 2009: due crisi commensurabili?

di - 4 Giugno 2009
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Oggi siamo giunti alla crisi di finanza essenzialmente con uno squilibrio macroeconomico strutturale: l’enorme indebitamento netto verso l’estero del paese leader, gli Stati Uniti. La gravità potenziale di un vero e proprio crollo del dollaro, impennata dei tassi d’interesse, stagflazione dirompente e contagiosa negli Stati Uniti è stata denunciata per anni, in specie dagli europei. Nello stesso Financial Stability Forum, istituito nel 1999 per il coordinamento della supervisione finanziaria internazionale, i timori si sono appuntati su questo squilibrio macroscopico, oltre che sulla speculazione edilizia, sugli hedge funds e sugli off-shore centers. E tuttavia il rischio era calcolato. Era calcolato dall’oggi vilipeso Greenspan, la cui politica monetaria e di vigilanza bancaria ha peraltro consentito agli Stati Uniti una crescita annua del 3 per cento per due decenni e ha sventato in più occasioni crisi di finanza potenzialmente acute e diffuse. Nella ignavia europea lo sviluppo degli USA, insieme con quello cinese, ha tonificato l’economia mondiale. Quel rischio era soprattutto calcolato nel concerto di fatto fra la politica estera degli Stati Uniti – il grande debitore – e quella di Cina e Giappone, i principali creditori. Almeno sinora questo pur precario equilibrio ha retto e il crollo del dollaro non c’è stato. La scintilla che ha rovesciato le aspettative degli speculatori su mutui, titoli e derivati non è stata il dollaro, ma forse l’imprevedibile e difficilmente comprensibile decisione dell’amministrazione Bush di far fallire la casa finanziaria Lehman.

IV

Alcune considerazioni, disperatamente tese a intravedere barlumi di luce alla fine del tunnel, possono suffragare la previsione, forse relativamente benigna, del FMI:
1)        La Cina, nuovo motore della crescita mondiale, vero prestatore di ultima istanza, crescentemente consapevole di esserlo.
2)        La resilienza dei salari e quindi dei prezzi verso il basso nei paesi industriali.
3)        All’opposto, la flessibilità verso il basso delle quotazioni internazionali dell’energia.
4)        La moderazione dei tassi d’interesse reali a lungo termine, in assenza di deflazione dei prezzi.
5)        La condizione debitoria delle imprese, a differenza di quella delle famiglie relativamente contenuta. Nel 2007, alla vigilia della crisi, negli stessi Stati Uniti l’indebitamento delle imprese era – come in Italia e in Germania – inferiore ai ¾ del PIL, rispetto a valori prossimi o superiori al 100 per cento in Giappone, Francia, U.K., Spagna. Il debito delle imprese americane era altresì pari al 35 per cento delle loro passività (rapporti di leverage, ai prezzi di mercato) – come in Francia – rispetto al 40 per cento negli altri paesi menzionati: valori comunque non maggiori di quelli mediamente riscontrati nel decennio precedente. Sempre negli USA, l’indebitamento delle famiglie in rapporto al reddito disponibile si ragguagliava a 1,45 (1,03 nel 2000): un valore molto più elevato di quello medio nell’area dell’euro (0,93; 0,74 nel 2000), ancorché inferiore a quello dello U.K. (1,60; 1,03 nel 2000) e a quello, abnorme, dei Paesi Bassi (2,40; 1,60 nel 2000).
6)        Il prevalere del credito inside sul credito outside. Una quota maggiore che nel passato riguarda rapporti finanziari fra intermediari. Non tocca direttamente le unità finali di spesa, famiglie e imprese. Inoltre, i contratti derivati con finalità speculative, e non assicurative, si configurano spesso come scommesse, con un perdente che forse spenderà meno, ma anche con un vincente che potrà spendere di più. E’ l’analogo della critica 1944 di Kalecki – più inside money che outside money – al real balance effect di Pigou.
7)        Infine, copia della General Theory è in tutte le librerie, comprese quelle di Francoforte. E’ a disposizione di governanti e banchieri centrali, sperabilmente più pragmatici degli economisti neoclassici. Sappiamo, da Keynes e dall’esperienza, come evitare una contrazione forte dell’attività economica. Investimenti pubblici produttivi e detassazione temporanea e ad alta progressività, uniti a sblocco dell’interbancario e offerta di credito resa elastica dando liquidità, garanzie e capitale agli intermediari costituiscono la diga, da consolidare e da innalzare al più presto, per contenere l’ondata recessiva. L’ultima Thule è il “teorema di Haavelmo”, insito nel fatto che la spesa pubblica è oggi intorno al 40 per cento del PIL mondiale, non a meno del 20 come negli anni Trenta. Occorre una abilità non-keynesiana davvero speciale, affinché i policy makers di Stati Uniti, Europa e Giappone manchino di evitare una contrazione più profonda e lunga di quella, già grave, oggi prevista.
Naturalmente, neanche l’ottimismo più argomentato può escludere che questa crisi si riveli fortemente recessiva. L’esito finale è imprevedibile, come sempre sono state le crisi del capitalismo. Keynes ha in via definitiva chiarito che il capitalismo è intrinsecamente instabile, oltre che iniquo, inquinante, spesso ingovernabile. E’ tuttora socialmente e politicamente accettato perché in duecento anni si è dimostrato capace di moltiplicare per dieci il reddito medio pro capite dell’umanità: quel reddito che nei precedenti 18 secoli, da Cesare Augusto a Robert Malthus, non era salito più del 40 per cento.

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