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1929 e 2009: due crisi commensurabili?

di - 4 Giugno 2009
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Per singoli paesi piccoli o emergenti il quadro è in realtà altamente variegato, con punte anche molto più gravi rispetto ai due casi appena evocati. Già l’Austria nel 1931 accusò perdite bancarie legate al Kredit-anstalt – grossa banca in piccola economia – pari al 9 per cento del PIL. Nell’ultimo quarto del Novecento in Italia – merito di Via Nazionale – il costo cumulato delle crisi bancarie non ha superato l’1,5 per cento del PIL di un anno rappresentativo. Ma fra i paesi industriali che in quei venticinque anni hanno sperimentato crisi la cifra italiana è inferiore non solo ai casi limite della Spagna (17 per cento del PIL), del Giappone (12 per cento), della Finlandia (10 per cento), ma anche a quelli – compresi fra il 2 e il 5 per cento del PIL – di Svezia, Norvegia, Stati Uniti, Francia, Australia. Nello stesso periodo un centinaio di economie in via di sviluppo hanno sperimentato crisi finanziarie. In questi paesi i costi della crisi non sono stati inferiori a numerosi punti di PIL, con un valore modale di 15 punti. I costi sono giunti a commisurarsi a un terzo del PIL in Tailandia e Turchia, alla metà o poco meno nei casi estremi dell’Argentina e del Cile nei primi anni Ottanta. Nell’ultimo mezzo secolo 21 paesi avanzati hanno sperimentato 122 recessioni, almeno 15 delle quali associate a crisi finanziarie.

II

Non è facile situare la crisi finanziaria odierna in questa ampia scala di gravità. La crisi non è risolta, le stime delle perdite sono approssimative, parte di quelle sinora conteggiate – al fair value – riguardano titoli “tossici” che i mercati sottovalutano o addirittura per ora non prezzano. Soprattutto, la crisi è sorta e si è concentrata nella finanza anglosassone, ma ha anche assunto una vasta dimensione internazionale, se non “globale”.
La flessione dei corsi azionari deflazionati per i prezzi nelle principali borse valori – 50 per cento circa – è, già oggi, non dissimile da quella di ottanta anni fa. Secondo il FMI le perdite sinora subite dalle banche internazionali sono pari a circa 1.000 miliardi di dollari (interamente coperte con apporti di capitale, pubblico e privato). Le ulteriori perdite previste si ragguagliano a 1.700 miliardi. Nell’insieme, il sistema mondiale degli intermediari finanziari (banche, altri intermediari, fondi di investimento, società di assicurazione) potrebbero perdere 4 trilioni di dollari. Se – come non è – le perdite fossero limitate agli operatori finanziari statunitensi, essendo il PIL americano pari a 14 mila miliardi, il peso relativo delle perdite bancarie sarebbe ben maggiore (20 per cento del PIL) di quello degli anni Venti e Trenta, sempre negli Stati Uniti. Ma il PIL americano non supera di molto il 20 per cento di quello mondiale, che è prossimo ai 65 mila miliardi di dollari. E financo 2.700 supera non di molto il 4 per cento di 65 mila. Il denominatore conta. Se si cambia denominatore, capitale e riserve delle banche della sola Europa superano i 2 mila miliardi di dollari. La capitalizzazione dell’intero sistema bancario mondiale è stimabile in oltre 5 mila miliardi. Perché questo capitale, nettamente superiore al totale delle perdite, fluisca e ripiani gli utili negativi degli intermediari in difficoltà, le banche forti di qualunque paese – o i fondi sovrani – devono poter ricapitalizzare le banche deboli di qualunque paese.
Viviamo quindi una crisi finanziaria complessa e particolarmente estesa, anche se non ancora la più grave della storia. Al tempo stesso, si tratta di una crisi dalla tipologia essenziale inscrivibile nel modello standard. La specificità riguarda, come sempre nelle crisi, l’oggetto e le forme della speculazione: semplici mutui per l’acquisto di abitazioni modeste, complicati titoli “tossici”, contratti derivati incomprensibili ai più. Riguarda altresì – vero elemento nuovo – la modalità contabile del fair value: modalità concettualmente preferibile al costo storico, ma fondata sull’assunto che i mercati ai cui cespiti essa si applica non cessino di esprimere quotazioni, o quotazioni ragionevoli.
Come tutte le crisi finanziarie, anche quella attuale non era prevedibile – e non è stata prevista – quanto meno non nei tempi, nei modi, nell’entità, nelle sequenze. Soprattutto, non era prevenibile con regole, politiche economiche, controlli. Norme e supervisione sono capaci di fronteggiare i rischi noti, storicamente sperimentati, assunti da banche commerciali. Possono poco contro i rischi assunti nei mercati finanziari e contro i rischi di tipo nuovo di banche e mercati. Banche e soprattutto mercati non erano mai stati, su scala mondiale, tanto regolati per stabilità e segnatamente per trasparenza e correttezza di comportamento degli operatori. Ma nell’offerta di finanza una parte innovativa, opaca, smodatamente avida c’è sempre. Inoltre, non è possibile limitare – entro quali soglie critiche? – la propensione di imprese e famiglie a caricarsi di debiti.

III

Di fronte a una crisi finanziaria grave, di dimensione internazionale, governabile ma certo non facile da governare si deve constatare che, stando alle previsioni più accreditate, una contrazione dell’economia mondiale stile 1929 non è alle viste. Non lo è se si condivide la previsione, in questo momento prevalente tra gli analisti, di una ripresa nello scorcio del 2009 e nel 2010. Perché? Dov’è la differenza profonda tra oggi e allora? Si può prospettare una duplice risposta. I preesistenti squilibri nell’economia reale sono diversi da quelli degli anni Venti. Inoltre, sia l’efficacia delle politiche stabilizzatrici dell’economia reale sia la fiducia in tale efficacia sono, grazie a Keynes, molto maggiori.
La gravità unica della contrazione degli anni Trenta affondava le radici negli squilibri del decennio precedente. Gli anni Venti videro quattro mutamenti di struttura che si rivelarono gravemente prociclici nel decennio successivo: a) la fragilità e la scarsa cooperazione nel ripristinato gold standard; b) gli scompensi nelle bilance dei pagamenti – fra cui le riparazioni tedesche – e l’assenza di un paese prestatore di ultima istanza, nel commercio e nel credito; c) l’accresciuto peso dei consumi durevoli negli Stati Uniti (finanziati a rate), l’ampia offerta di prodotti primari in Canada, Argentina, Nuova Zelanda e negli stessi Stati Uniti, come pure l’eccesso di capacità nelle produzioni industriali moltiplicatesi in Europa durante la prima guerra; d) infine, l’irrigidimento del mercato del lavoro statunitense. Queste e altre strutturali debolezze costituivano tendenziali motivi di ristagno della domanda effettiva. Come Steindl, Sweezy, Sylos Labini per vie diverse avrebbero poi teorizzato, tali fattori rendevano alla lunga insostenibili i profitti degli anni Venti. Infine, era dominante nel pensiero economico – con Pigou, Hayek, Einaudi, Robbins – l’idea pre-keynesiana che la crisi dovesse seguire un suo naturale decorso e che l’economia di mercato, con la flessibilità di prezzi, tassi d’interesse e salari, disponeva di meccanismi riequilibratori che era bene non turbare. Per i pratici e per i responsabili della politica economica, quindi, non ha senso parlare di “errori”, come invece ha fatto Friedman attribuendo la crisi del 1929 alla morte prematura di Benjamin Strong, il saggio capo della Fed di New York. Errata era la teoria di riferimento. Su di essa non potevano non fondarsi le decisioni dei policy makers, a cominciare da Herbert Hoover, lo sfortunato presidente degli Stati Uniti nella crisi, il “Grande Ingegnere”, il tecnocrate … purtroppo colto in economia, certo ben più dell’avvocato Roosevelt. Allora, la scintilla che innescò il potenziale di crisi accumulato negli anni Venti fu l’orientamento restrittivo assunto dalla politica monetaria americana nel 1928. Di fronte alla speculazione borsistica al rialzo, la Fed sterilizzò gli afflussi d’oro: una piccola coda agitata da un molosso.

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