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Quale riforma per l’avvocatura?

di - 12 Maggio 2009
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La seconda ipotesi che si può fare per spiegare l’interesse a perseverare in una attività apparentemente non remunerativa è che essa vada collocata in una prospettiva di lungo termine, vale a dire nell’ottica della pensione. A prescindere dal reddito e dalle contribuzioni degli interessati, la Cassa di previdenza degli avvocati eroga infatti una pensione di circa € 10.500 a tutti gli iscritti, che abbiano esercitato con continuità la professione per un certo numero di anni, versando il contributo minimo previsto. In sé tale contributo non potrebbe certo finanziare la pensione; essa viene riconosciuta comunque, in base al principio solidaristico e quindi utilizzando anche i contributi degli avvocati con maggior reddito per aiutare tutti coloro che hanno raggiunto i limiti di età con contribuzioni insufficienti. È ragionevole pensare che questa seconda ipotesi, che giustifica l’interesse ad esercitare la professione di avvocato pur senza trarne un reddito sufficiente per vivere, si accompagni alla prima, specie nella variante che si era prospettata (avvocatura come secondo lavoro).
Di fronte ad un quadro di questo genere, parlare di interventi per migliorare la professionalità degli avvocati, al fine di “avere, nell’interesse della comunità, una categoria aggiornata e con alto livello di formazione” non sembra appropriato. Il mercato sa scegliere e gli avvocati veri sanno benissimo che per continuare a lavorare e combattere occorre tenersi sempre aggiornati e quindi studiare sempre; dal canto loro, gli Ordini stanno svolgendo una assai meritevole opera per facilitare questo processo di formazione continua, in attuazione dell’art. 13 del Codice deontologico forense (“È dovere dell’avvocato curare costantemente la propria preparazione professionale…”). Il punto cruciale è un altro: ed è che gli avvocati, i quali dichiarano di trarre dalla professione un reddito ai limiti della sopravvivenza, non hanno alcun interesse a formazione ed aggiornamento, per l’insuperabile ragione che il loro vero interesse è un altro: nascondere i redditi veri e/o portarsi a casa una pensione.
Il thema disputandum diviene così molto preciso. Per un verso è fuori di ogni dubbio che la Cassa di previdenza debba fare il suo dovere e quindi verificare l’effettivo esercizio della professione ed i veri redditi dei suoi iscritti quasi nullatenenti, di concerto con la Guardia di finanza. Questo è un suo compito istituzionale, al quale deve attendere con la stessa sollecitudine con cui persegue chi versa i contributi con un giorno di ritardo. Si può dare per certo che verifiche fiscali condotte su un numero sufficientemente significativo di iscritti che non denunciano veri redditi produrrebbero l’effetto virtuoso di cancellazioni in massa dagli albi e quindi dalla Cassa.
Per un altro verso, si deve capire bene che cosa significhi solidarietà tra liberi professionisti sul piano previdenziale. Nessuno discute del suo fondamentale rilievo in linea di principio (non si dimentichi che tutti i grandi studi legali, non solo americani, hanno un proprio fondo pensioni). Il problema è quello della sua struttura e quindi dei suoi limiti. Sembra a noi che un sistema previdenziale finanziato integralmente da tutti i beneficiari delle prestazioni future, e da essi soltanto, debba fondarsi su un rapporto di proporzionalità con quanto versato da ciascuno, corretto dalla quotazione dei rischi, impliciti al sistema stesso: che vanno dalla durata residua della vita alla morte precoce, dall’invalidità ai superstiti. Vi sono insomma redditi diversi e rischi uguali per tutti, che devono essere condivisi. La matematica attuariale sa benissimo come si risolvono questi problemi.
Ciò che si colloca all’infuori di ogni principio di solidarietà è l’idea che una pensione minima debba essere assicurata a tutti gli avvocati liberi professionisti, a prescindere dall’entità dei loro guadagni e quindi delle contribuzioni – ed ovviamente all’infuori di sinistri invalidanti specifici. Questo significa infatti porre la pensione di avvocati che non hanno contribuito alla Cassa (o lo hanno fatto in misura risibile) a carico degli avvocati che contribuiscono in misura proporzionale al loro reddito: in termini brutali, espropriarli senza causa. Nulla, che faccia scattare il vincolo della solidarietà, è infatti accaduto a chi non ha sostanzialmente mai contribuito alla Cassa. Nell’ordinamento generale non vi è traccia di ciò: la pensione è commisurata alla retribuzione e quindi alla contribuzione; nessuno ha diritto ad una sorta di vitalizio per il solo fatto di essere in vita oltre una certa età. Certo esistono assegni di povertà; sono tutt’altra cosa.
La realtà è dunque che il problema degli avvocati (e della loro Cassa di previdenza) non è quello del loro numero in assoluto, ma quello degli avvocati che tali non sono, sia perché evadono tutto l’evadibile, sia perché dichiarano di esercitare questa professione al solo fine di sfruttare la struttura previdenziale che la accompagna.
Quali rimedi? Al primo si è già accennato. Chiunque dichiara redditi bassi o bassissimi deve essere indagato. Deve dimostrare di avere difeso, di avere reso pareri, di avere insomma assistito, poco quanto si vuole, ma di averlo fatto e di aver fatto questa attività e nessun’altra. Spetterebbe poi alla Cassa dimostrare che se questo anche fosse vero, l’interessato o l’interessata comunque non esercita con continuità o ha altri rapporti, fonti di reddito e porre il problema del permanere dell’iscrizione all’albo.
Il secondo rimedio è più sofisticato. Bisogna rendere la Cassa concorrenziale. Questo si può fare certo con norme positive sul funzionamento della Cassa che, come tutti sanno, durano l’espace d’un matin, nel senso che possono venir abrogate sei mesi dopo, magari con decreto legge. Ma la si può rendere concorrenziale in un altro modo: consentendo agli avvocati che vi abbiano interesse di trasferire la loro posizione all’INPS o, eventualmente, all’INPDAP. La Cassa insomma sappia gestirsi, sappia misurarsi con il mercato, non butti il danaro altrui per opere di dubbia beneficenza, sulle quali comunque nessuna condivisione è stata chiesta. Si vedrà presto che cosa succede.
Semplice a dirsi. Ma vi è una difficoltà. La vera sollecitazione al cambiamento dovrebbe venire dalla Cassa di previdenza. Essa paga ogni mese le pensioni a migliaia di iscritti da cui ha avuto contribuiti risibili, andando incontro a crisi sicura, come le tavole statistiche che essa pubblica inequivocabilmente dimostrano. Poiché il consiglio di amministrazione della Cassa è eletto dagli avvocati, e tra essi circa il 30% denuncia un reddito lato sensu sospetto, è facile pensare che la sollecitazione al cambiamento non sia a portata di mano.

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