Intervento alla giornata di studio su Sergio Steve, promossa dalla Società italiana di economia pubblica, tenutasi a Roma presso l’Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Economia, il 27 febbraio 2009

Il magistero intellettuale, morale e scientifico di Sergio Steve nella prospettiva personale di un allievo

1.     Magistero oggettivo e soggettivo
2.     Magistero di vita e di pensiero
3.     Indipendenza, responsabilità, etica laica
4.     La responsabilità dell’intellettuale verso se stesso. Il conflitto con il ‘wishful thinking’
5.     La responsabilità dell’intellettuale verso gli altri. Il conflitto con gli interessi estranei
6.     La cultura dell’indipendenza. Il conflitto con l’imitazione-ripetizione
7.     L’economia è storia ma la storia non è economia
8.     Il conflitto con l’ideologia. La confusione tra economia e moralità
9.     Storia e teoria. L’economia è scienza ma non la fisica della società
10.   Gli interessi comuni, la scienza delle finanze, lo stato

1. Magistero oggettivo e soggettivo

In questo intervento mi propongo di spiegare per quali ragioni e in che senso Steve è stato un maestro di vita, di pensiero e di scienza economica. Per evitare di essere frainteso, e per minimizzare eventuali noiose ripetizioni di ciò che hanno detto e diranno altri in questa e in altre sedi, chiarisco per prima cosa un punto. Non mi riferisco a un ipotetico suo magistero in senso oggettivo, ossia, per così dire, con valenza erga omnes. Mi riferisco al magistero da lui esercitato su di me, e dunque ben delimitato in due sensi. La prima delimitazione riguarda il carattere soggettivo dei suoi contenuti. Si tratta di cose che io, sulla base della mia frequentazione con lui, come allievo nella mia giovinezza, come amico e collega di professione nella mia maturità, come lettore dei suoi scritti, ho creduto e sono stato capace di ricevere ed ereditare da lui, non nella forma passiva – morta – dell’imitazione e ripetizione, ma in quella indipendente – viva – della loro trasformazione in convincimenti e sentimenti miei personali. Sono segni che egli ha impresso nella mia personalità, e che si sono trasformati in fattori di sviluppo del mio atteggiamento verso la vita, gli altri, il mestiere di insegnante e ricercatore. E’ dunque un magistero dichiaratamente filtrato dalla mia esperienza e interpretazione personali. La seconda delimitazione segue dalla prima. Altri che hanno conosciuto, frequentato e letto Steve in un contesto umano, generazionale, professionale simile o diverso dal mio, possono aver raccolto da lui un magistero diverso per contenuti e enfasi da quello che ho raccolto io, o anche – perché no – non riconoscere affatto in lui un buon maestro. In via di principio ritengo che le più diverse posizioni al riguardo possano tutte essere altrettanto rispettabili. Può darsi che un profilo oggettivo, erga omnes, del magistero di coloro i quali sono da una larga opinione riguardati come maestri esista, e che si possa cercare di ricostruirlo. Ma può anche darsi che un tale profilo oggettivo semplicemente non esista, perché un magistero esiste solo nei segni viventi che lascia in coloro che lo raccolgono, e questi segni ne sono dunque i soli contenuti, in generale diversi a seconda della personalità dei loro portatori. Sulla disputa non ho certezze. La richiamo soltanto per sottolineare che propendo per la seconda posizione e che la adotto qui come metodo di lavoro. Il mio discorso sarà volto non tanto a ricostruire scrupolosamente elementi oggettivi della sua figura, quanto appunto a mettere a fuoco alcune cose che io ho ereditato da lui, senza pregiudizio di eredità diverse e forse anche in contrasto con la mia.

2. Magistero di vita e di pensiero

Come figura pubblica Steve è stato un uomo della cultura, del pensiero, degli studi, dell’insegnamento. Quando parlo del suo magistero di vita e di pensiero mi riferisco a lui in tale sua veste, nella quale i due piani non sono scindibili. Dico questo perche il concetto di magistero di vita è in realtà molto comprensivo. Sappiamo bene che anche un uomo senza lettere, senza notorietà, senza particolari doti di intelligenza può essere stato, per le azioni che ha saputo compiere, le scelte che ha saputo fare, la generosità, il coraggio, la modestia, ecc., un maestro di vita molto più di un illustre scienziato ed educatore. Poiché molti hanno definito Steve un maestro di vita, e poiché non amo le celebrazioni rituali, voglio precisare che io non uso qui il concetto in questo senso generale, bensì in quello rigorosamente ristretto di cui sopra. Della vicenda umana complessiva di Steve ho sempre saputo pochissimo e dunque non posso dire praticamente nulla circa la sua esemplarità.

3. Indipendenza, responsabilità, etica laica

Io, come tutti o quasi i presenti, sono per formazione e mestiere un intellettuale. In una precedente occasione commemorativa ho già detto in quale senso profondo l’intellettuale Steve è stato per me un maestro di vita e di pensiero. Riprendo quei concetti per spiegarli meglio e svolgerne alcune implicazioni. Nel corso di tanti anni il dialogo a tutto campo con Steve mi ha educato a capire il senso profondo dell’accettazione e della pratica del primato assoluto della ragione critica nel lavoro intellettuale, ossia nella comprensione dei fatti del mondo. In particolare esso mi ha educato a capire che tale accettazione ha non soltanto una componente teoretica, bensì anche una componente morale, e che entrambe sono le due facce inseparabili di un unico modo di concepire l’esistenza. Accettare il primato assoluto della ragione critica nella comprensione del mondo significa accettare che questa può esclusivamente basarsi su, ed estendersi mediante, l’argomentazione razionale (la logica) e l’esperienza (i fatti). Dal punto di vista teoretico a ciò corrisponde una concezione del mondo assolutamente laica. La realtà della concezione laica è il mondo naturale, quello fisico della natura e quello psicologico, sociale e culturale della storia umana, perché è solo questa la realtà la cui comprensione può essere supportata, criticata, corretta, ed estesa, mediante l’argomentazione razionale e l’esperienza. Ma al fondamento teoretico di quella accettazione – la concezione laica del mondo – si accompagna in modo inscindibile un fondamento morale – un’etica laica, unica e inconfondibile. Accettare il primato assoluto della ragione critica, ossia avere fede nella sola ragione, impone a chi ha il coraggio e l’onore (perché di questi abbiamo bisogno) di accettarne anche pienamente tutte le implicazioni esistenziali una coscienza e un sentimento della propria e altrui indipendenza, e della propria responsabilità verso se stesso e verso i propri simili, di natura molto speciale. Sono l’indipendenza, la responsabilità e l’onore iscritti nell’accettazione di un mondo senza dio, senza speranze in un’altra vita, senza promesse di una giustizia finale. Dal magistero di Steve, e da quello di pochi altri uomini del presente e del passato (che non nomino perché questo incontro è dedicato a Steve e non a loro), ho ereditato il convincimento che questa etica laica, incompresa da chi la vilipende con la qualifica ottusa di relativismo, è in realtà infinitamente più forte e nobile di qualsiasi etica religiosa o ideologica.

4. La responsabilità dell’intellettuale verso se stesso. Il conflitto con il ‘wishful thinking’

Mi soffermo ora su alcune implicazioni di questa responsabilità, concernenti specificamente il lavoro intellettuale, e il suo posto nel sistema degli interessi della nostra vita. Il primato della ragione critica comporta la speciale responsabilità che l’esercizio del lavoro intellettuale non sia inquinato dal cedimento alla tentazione – subdola e potente – del ‘wishful thinking’. I contenuti del nostro lavoro culturale, di insegnamento e di ricerca devono essere dettati, nei limiti dell’umanamente possibile, esclusivamente dall’esercizio incondizionato della ragione critica, anche e specialmente quando così facendo essi risulterebbero difformi da quelli che avremmo giudicato più soddisfacenti, o ci avrebbero fatto più comodo, o ci avrebbero dato più ascolto, più consensi, più successo, più gratificazione personale. Questa è strettamente una responsabilità verso se stessi, ossia verso il proprio lavoro intellettuale. Nessuno sarà in grado di liberare interamente la sua riflessione da qualche componente di wishful thinking, perché siamo tutti condizionati, in ogni momento della nostra vita, da un’infinità di esperienze, passate e presenti, e di interessi di cui non abbiamo neanche piena consapevolezza. Ma proprio per questo l’intellettuale, lo studioso, lo scienziato deve, nel lavoro che svolge in tale sua veste, sentirsi per così dire sempre in trincea contro l’insidia del wishful thinking. Per l’intellettuale che si riconosce nella moralità del primato della ragione critica, quella di non soccombere al wishful thinking è una responsabilità morale grave, verso se stesso, e tanto più grave in quanto onorarla può essere ben più difficile e costoso di quanto si creda. Questo penso di aver ereditato da Steve.

5. La responsabilità dell’intellettuale verso gli altri. Il conflitto con gli interessi estranei

Per chi accetta il primato della ragione critica il suo rispetto deve anche costituire l’interesse prioritario perseguito nel proprio lavoro culturale, di insegnamento e di ricerca. Ognuno di noi vive immerso in una galassia di interessi, propri ed altrui, che, pur essendo in sé legittimi e rispettabili, sono comunque totalmente estranei all’imperativo della ragione critica. La speciale responsabilità morale cui mi riferisco esige – senza ammettere compromessi – che nello svolgimento del proprio lavoro intellettuale il rispetto della ragione critica abbia la priorità assoluta relativamente ad ogni altro interesse con cui tale lavoro intellettuale può entrare in relazione. Onorare questa responsabilità può apparire a prima vista un fatto scontato, ma non è così. Gli interessi personali, economici, di carriera, di prestigio, di auto-affermazione, che possono spingere a mettere il proprio lavoro intellettuale prima al loro servizio, e solo in secondo ordine al servizio della ragione critica, possono avere una forza enorme. E anche qui, la difficoltà e il costo di non cedere a una tale alterazione delle priorità possono essere alti. In punto di logica voglio sottolineare che la responsabilità precedente, quella relativa al wishful thinking, è distinta da questa seconda. La prima è una responsabilità dell’intellettuale verso se stesso, contro l’auto-inganno. Questa seconda è invece una responsabilità morale non solo verso se stessi, perché tale è sempre per definizione la responsabilità morale laica, ma anche e principalmente verso gli altri, perché il lavoro intellettuale ha un posto nella società. Ho ereditato da Steve il convincimento che il primato assoluto della ragione critica non è un interesse, ma un valore morale. Dunque non può mai, pena la sua auto-negazione, collocarsi al di sotto degli interessi, anche i più grandi o nobili, ma sempre e soltanto al di sopra di essi. Tale primato dei valori sugli interessi nella coscienza laica mi rimanda, oltre che a Steve, anche a Croce. Dopo la firma del Concordato tra lo Stato e la Chiesa egli si richiamò in Senato al detto famoso di Enrico IV di Francia con queste parole: ‘di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente di più di Parigi, perché è affare di coscienza’. Una messa, aggiungo io, appartiene alla vita morale, Parigi invece a quella non morale degli interessi, e dunque una messa dovrà sempre venire prima anche di Parigi.

6. La cultura dell’indipendenza. Il conflitto con l’imitazione-ripetizione

La ragione critica è non solo e non tanto un concetto astratto, quanto un fatto reale del mondo: è la concreta capacità di pensare criticamente, di ciascuno di noi come individuo. Ho riflettuto spesso sull’enfasi quasi ossessiva di Steve sulla distinzione tra le cose già dette e quelle nuove, tra la ripetizione e il ripensamento personale, tra l’imitazione e l’originalità, sulla sua insofferenza verso la riproposizione sterile di ciò che è già noto, sulla sua censura di una modalità di insegnamento e formazione (culturale e professionale, specie a livello universitario, ma non solo), nella quale anziché promuovere la capacità delle persone di distinguere il lavoro intellettuale proprio da quello altrui, la si vanifica. Ma in fondo, si potrebbe dire, che male c’è a ripetere e a educare a ripetere, a memorizzare e educare a memorizzare? Nel lavoro scientifico pochi hanno le doti per aspirare veramente all’originalità, alla scoperta, all’innovazione. Gli altri dovranno accontentarsi di studiare e imparare ciò che già si sa, di ripeterlo, e di farne corrette, meccaniche applicazioni. Nella vita professionale e ordinaria servono risultati, nozioni, tecniche, competenze per risolvere i problemi. L’esercizio della ragione critica è un optional di cui la stragrande maggioranza delle persone può fare a meno senza perdere nulla. E invece non è vero. Esso è il fondamento morale dell’indipendenza e dignità dell’uomo. La responsabilità di distinguere tra la ripetizione passiva e la comprensione critica è una responsabilità morale, verso sé stessi e verso gli altri, che tocca in modo particolare il mestiere di ricercatore e di insegnante. Nella ricerca non si devono utilizzare tesi o risultati solo perché sono state sostenute o ottenuti da altri, per quanto autorevoli. Bisogna comprenderli criticamente in modo da farli diventare propri, e allora non saranno più ripetizioni, ma elementi vivi del proprio lavoro indipendente e responsabile. Il vero pensiero critico, quello del genio come quello dell’uomo comune, è sempre per definizione originale. Una mente passiva non è un difetto dell’intelligenza, da cui solo i più dotati sarebbero immuni, bensì una colpa morale di cui tutti in uguale misura possono essere portatori. Nell’insegnamento, educare alla ragione critica significa educare all’indipendenza e responsabilità, nel lavoro e nella vita. La consapevolezza di questa potente valenza morale della ragione critica nella ricerca e nell’insegnamento è anch’essa un’eredità che ritengo di aver ricevuto da Steve.

7. L’economia è storia ma la storia non è economia

Diverso tempo fa, parlando con Steve di non ricordo quale problema dell’economia politica, egli rispose lapidariamente a una mia domanda dicendo che in verità l’economia è storia, e nient’altro che storia. In un recente scambio di idee con il mio amico e collega Stefano Fenoaltea gli confessavo quanto invidiassi il suo essere economista da storico anziché da teorico, e per dar forza alla mia dichiarazione gli riferivo di quel giudizio di Steve. Fenoaltea mostrò ovviamente di condividerlo, ma anche di ritenerlo insufficiente, dicendo che andrebbe integrato o sostituito con il giudizio, più forte, che in realtà anche la storia stessa è economia. Senza pretendere di dare qui un’interpretazione autentica del giudizio di Fenoaltea, mi sento tuttavia di dire che in quei termini Steve non lo avrebbe condiviso. Ritengo di aver ereditato da lui il convincimento che mentre è vero che l’economia è storia, non è vero che la storia sia economia. Gli interessi, le motivazioni, gli impulsi, i pensieri, i sentimenti che muovono le azioni e la vita degli uomini sono un mare senza fondo. Pensare che gli interessi economici, quelli che ruotano intorno al soddisfacimento dei bisogni tramite la produzione, lo scambio e il consumo, siano i soli che muovono la vita degli individui e della società, o comunque i soli che vi hanno un ruolo determinante, costituisce una visione riduttiva del mondo sociale. La realtà del mondo sociale è più complessa della realtà dell’economia, che pure lo è già molto. Anzi, attribuire ai fatti e interessi economici un ruolo esclusivo o assolutamente predominante nel determinare la dinamica storica della vita individuale e sociale può indebolire la capacità di analizzare e spiegare in modo soddisfacente quegli stessi fatti.

8. Il conflitto con l’ideologia. La confusione tra economia e moralità

Nel corso di tanti anni Steve è diventato un nemico sempre più intollerante dell’approccio ideologico nello studio dei fatti sociali e nel disegno delle politiche pubbliche. Mi sono chiesto molte volte quale fosse nella sua mente il fondamento razionale di tale intolleranza. Può darsi che Steve non fosse interessato più di tanto a un chiarimento per sua natura di carattere filosofico. La sua mente lucidissima sapeva riconoscere a vista gli argomenti ideologici e i difetti tipici delle ideologie, senza bisogno di ricorrere alla filosofia. Per parte mia ritengo di poter individuare quel fondamento razionale nella capacità naturale di Steve di distinguere le questioni economico-sociali da quelle morali, fermo restando che distinguerle non significa negare che tra i due piani possano, o debbano, esistere relazioni. La moralità riguarda i valori o fini ultimi, ossia principi universali che danno alla vita un significato assoluto. L’economia riguarda gli interessi o bisogni strumentali, ossia i fatti, le cose e le condizioni contingenti del mondo considerate strumentalmente utili in relazione al perseguimento di fini ulteriori. Gli argomenti ideologici confondono i principi etici universali con i fatti sociali contingenti, attribuendo a determinati fatti e condizioni contingenti del mondo sociale un significato assoluto che essi come tali non possono avere. Smascherare gli argomenti ideologici significa semplicemente smascherare questa confusione grossolana, razionalmente insostenibile. Non significa affatto sostenere che il possesso di autentici valori morali non possa o non debba condizionare fortemente la vita privata e pubblica, economica e non economica, di un individuo. Tutt’altro. Non solo quel possesso (quando c’è) condiziona le preferenze e scelte economiche di ciascuno, ma ancor più, il possesso individuale diffuso di virtù morali e civili svolge sicuramente un ruolo importante, ancorché non sufficiente, nel buon funzionamento dell’economia e della politica.

9. Storia e teoria. L’economia è scienza ma non è la fisica della società

Ho già detto di aver ereditato da Steve il convincimento che l’economia sia fondamentalmente storia. Se è così, se l’economia è un programma di ricerca storica, qual è in esso il posto della teoria? La questione è stata tante volte autorevolmente dibattuta da economisti e storici economici. Per rimanere nei confini del tema di questo incontro – l’eredità di Steve – prendo spunto da Robert Solow, che scrive (Social Research, estate 2004) ‘… sorge spesso la domanda – è l’economia una Scienza, o dovrebbe essere tale? – Penso che la questione sia mal posta. […] Supponiamo che la mia risposta alla prima domanda sia ‘no’. Sono allora forse votato a credere che l’economia sia o debba essere non-scientifica? Qui qualcosa non torna. Parte del problema è la differenza tra la S maiuscola e la s minuscola […] Io non rivendicherei per l’economia il ruolo di fisica della società. Ma insisterei precisamente su un approccio scientifico all’economia, con il che intendo un’obbligazione intransigente alla logica e un assoluto rispetto per i fatti’. Credo che se in questa citazione si sostituisse il nome di Steve al posto di quello di Solow nessuno se ne accorgerebbe. Può darsi che nella prospettiva del riduzionismo e del progresso delle Scienze (con la S maiuscola) verrà un giorno in cui si potrà parlare di una fisica della società perché si potranno comprendere e spiegare i fatti economici e sociali nello stesso modo in cui la fisica comprende e spiega l’evoluzione dell’universo prima e dopo il big-bang, e la formazione dei buchi neri. Secondo alcuni ricercatori, ad esempio Colin Camerer del California Institute of Technology e Herbert Gintis del Santa Fe Institute (The Economist, 26 luglio 2008), il superamento dell’economia comportamentale (una branca della psicologia come scienza molle della mente) attraverso gli sviluppi delle neuroscienze e della neuroeconomia (una branca della biologia come Scienza dura) potrebbe consentire di fare un passo avanti verso quell’affascinante e inquietante traguardo, attraverso “l’integrazione di tutte le scienze comportamentali – l’economia, la psicologia, l’antropologia, la sociologia, la scienza politica, e la biologia del comportamento umano ed animale – in un modello comune, basato sulla macchina-cervello, di come gli esseri viventi prendono le decisioni”. Ma oggi siamo lontani da quel futuro, se mai verrà, e dobbiamo accontentarci di muoverci nello spirito di Solow e Steve. L’economia è un pezzo o aspetto della storia umana generale, e i fatti economici, presenti e passati, si possono e devono conoscere, comprendere e spiegare allo stesso modo in cui si conoscono, comprendono e spiegano i fatti storici in generale. Il programma di ricerca dell’economia politica offre un sistema sofisticato di concetti e modelli teorici che, insieme a quelli dei programmi di ricerca della psicologia, della sociologia, della scienza politica, dell’antropologia, della sociobiologia, possono aiutare a comprendere e spiegare i fatti economici come fatti storici. Se aiutano sono buoni, se non aiutano sono cattivi. Punto. Ma si tratta di concetti e modelli altamente stilizzati che hanno con i fatti da spiegare una relazione molto diversa da quella che la teoria ha con i fatti nei programmi di ricerca della fisica e delle altre Scienze dure della natura. Tale diversità, implicitamente riconosciuta nel famoso e citatissimo giudizio di Max Plank riferito da Keynes, non è in alcun modo sminuita dal fatto che taluni metodi e modelli provenienti da queste Scienze si siano rivelati utili a spiegare determinati fenomeni sociali, come i crolli borsistici. Come economista Steve non era né pro né contro la costruzione di modelli teorici. Per la mia esperienza di allievo e poi di collaboratore nell’insegnamento, egli possedeva e trasmetteva da pensatore i concetti e le teorie della sua generazione (ho imparato forse più da lui che da Joseph Stiglitz lo spessore e i limiti dell’economia del benessere), ma nel suo personale temperamento di intellettuale e studioso dominava l’interesse a ragionare sui fatti economici del suo tempo senza mai staccare, per così dire, i piedi da terra, mentre era praticamente assente l’interesse a pensare a quei fatti nei termini di una visione o modello teorico stilizzato. Fare ciò non interessava a lui personalmente, ma era pronto ad apprezzare chiunque lo facesse, purché all’altezza dei suoi standard di grande pensatore critico, il che per una persona normale era praticamente impossibile.

10. Gli interessi comuni, la scienza delle finanze, lo stato

Come studioso Steve concentrava interamente la sua attenzione e il suo lavoro interpretativo sui fatti economici così come offerti dalla storia presente e passata nella loro concreta e oggettiva complessità, e non sulla elaborazione di schemi interpretativi teorici stilizzati. Ciò non poteva che portarlo a dare la massima importanza al ruolo e alla natura degli interessi che di quei fatti costituiscono la vera sostanza. In particolare ricorre continuamente nel suo pensiero il potenziale e spesso effettivo contrasto tra gli interessi privati, individuali e di gruppo, e quelli diffusi dei cittadini, e la particolare disparità di forza tra i primi e i secondi nelle società e culture acquisitive. E’ proprio da questo suo approccio di studioso sociale che ritengo di aver ereditato una particolare comprensione di ciò che identifica dal punto vista sia scientifico che civile il programma di ricerca della scienza delle finanze. Pur consapevole dei rischi di travisamento insiti nel leggere il pensiero altrui con le proprie categorie mentali, ritengo che l’interesse di una vita di Steve per la scienza delle finanze fosse motivato e ispirato, in larga misura anche se non sempre espressamente, proprio da tale particolare comprensione. L’identità scientifica della scienza delle finanze è strettamente legata alla distinzione tra gli interessi individuali rivali, che in quanto contrapposti si prestano a essere soddisfatti, sia pure in modo incompleto e imperfetto, mediante transazioni commerciali di scambio, e gli interessi individuali comuni, condivisi dagli appartenenti a una comunità politica nella loro veste di cittadini. A me pare che esista una diffusa cultura economica che non apprezza fino in fondo questo punto fondamentale, e che continua a prospettare, ad esempio, la teoria dei beni pubblici come un caso, importante ma particolare, di fallimento del mercato. Il mercato per sua natura esiste o può esistere solo dove vi sono interessi contrapposti. Dove gli interessi non sono contrapposti bensì condivisi esso non fallisce, ma, semplicemente, non esiste e non può esistere. Gli interessi comuni condivisi dai cittadini non potranno mai essere soddisfatti mediante transazioni commerciali di scambio, ma solo attraverso la cooperazione, più o meno volontaria o coattiva. Da questa constatazione di fondo derivano alcune speciali conseguenze.
Gli interessi comuni condivisi dai cittadini coesistono con quelli rivali individuali e di gruppo in posizione di estrema debolezza comparativa, e vengono da questi largamente spiazzati. La causa più riconosciuta e studiata di tale debolezza risiede nella natura e struttura degli incentivi. Gli incentivi all’azione individuale e alla cooperazione di gruppo concentrata e organizzata per il perseguimento degli interessi rivali sono molto forti, mentre quelli all’azione cooperativa per il perseguimento degli interessi condivisi diffusi dei cittadini in quanto tali sono deboli, spesso praticamente inesistenti, e molto più manipolabili dei primi attraverso la suggestione, la disinformazione e la diseducazione. Lo studio ‘scientifico’ di questa drammatica fenomenologia sociale è forse il vero leit-motiv qualificante del programma di ricerca della scienza delle finanze.
Ma la debolezza degli interessi comuni condivisi ha anche un’altra causa. Gli interessi, sia quelli contrapposti che quelli condivisi, hanno in comune il fatto di essere, appunto, interessi e non valori morali. In questo senso gli uni e gli altri rivendicano laicamente lo stesso, identico status morale, ossia nessuno. Nella mia frequentazione con Steve non ho mai rilevato in lui la minima traccia di quel moralismo deteriore e diffuso che tende ad attribuire agli interessi comuni condivisi una sorta di superiorità morale rispetto a quelli rivali contrapposti (penso in particolare a quel concentrato di ambiguità concettuale che va sotto il nome di ‘bene comune’, tanto caro ai predicatori di tutte le chiese). Anzi, mi ha sempre colpito la sua spassionata equiparazione, che ho imparato a riconoscere appunto come segno di autentica laicità, senza religione né ideologia. E tuttavia una diversità importante esiste, e non è morale, bensì più modestamente civile. Gli interessi rivali contrapposti dividono le persone, mentre quelli comuni condivisi, che sono tra l’altro infinitamente più numerosi, le uniscono. I primi deframmentano la società, mentre i secondi ne costituiscono il tessuto connettivo. La percezione che un individuo ha dei propri interessi rivali è antropologicamente spontanea e immediata. La sua percezione degli interessi che condivide con gli altri cittadini della comunità politica, e non solo della loro importanza, ma anche della loro stessa esistenza, è invece molto più carente, e spesso totalmente assente. Nella misura in cui l’esistenza stessa di tali interessi non viene debitamente compresa e apprezzata, neanche il più benevolente potere di governo e il più perfetto sistema di incentivi potrà mai assicurarne il soddisfacimento. La capacità di un individuo di percepire l’esistenza e importanza dei suoi interessi condivisi è certamente correlata con la sua capacità morale, ma prima, e indipendentemente da questa, essa è un fatto di ‘cultura’ e di educazione civile (in un senso non riduttivamente scolastico). Per imparare a percepire l’esistenza dei suoi interessi rivali un uomo non ha bisogno di una cultura ed educazione civile. Per imparare a percepire quella dei suoi interessi condivisi come cittadino esse sono invece necessarie. In questa prospettiva io ritengo di aver ereditato da Steve (e anche da altri, ma solo perché da lui già predisposto) la comprensione che la scienza delle finanze possiede una speciale dignità civile che la distingue – credo in maniera unica – da tutti gli altri rami dell’economia politica.
Chiudo con le forti parole di un altro maestro della materia. Per trasmettere un po’ di questa dignità civile agli ignari studenti di Tor Vergata sto provando – per la verità con scarsissimi risultati – a leggere loro durante il mio corso un drammatico passo tratto da un intervento di Stiglitz sulla nostra stampa all’indomani dell’11 settembre: ‘Dopo settimane dal terrore delle torri gli americani provano ancora un senso di ansia, non più provato dai giorni più bui della guerra fredda. […] Ma l’America ha ora sviluppato un maggiore senso di collettività e coesione sociale che ha portato a un riesame, atteso da troppo tempo, del ruolo del governo. Cresce la sensazione di aver smarrito la strada, di aver dato […] troppa importanza ai nostri interessi privati e troppo poca importanza agli interessi comuni. […] Alcune scelte delle amministrazioni Clinton e Bush sembrano ora particolarmente assurde. E’ stato insensato ‘privatizzare’ un’area vitale di interesse pubblico come la sicurezza negli aeroporti. I bassi salari corrisposti agli addetti alla sicurezza dalle società private che gestiscono il servizio hanno comportato un elevato turnover. Le compagnie aeree e gli aeroporti avranno anche avuto maggiori utili nel breve termine, ma come ben sappiamo, alla fine hanno perso, con nostro grande orrore, sia loro sia il popolo americano.