Dopo Keynes, dopo Sraffa: il pensiero “critico” e l’economia italiana*

Una riflessione sul pensiero post-keynesiano “di Cambridge” e più in generale sul pensiero critico di quello neoclassico, avendo presenti sullo sfondo i profili di teoria, può estendersi al rapporto fra quel pensiero e i nodi dell’economia italiana dal secondo dopoguerra. La riflessione conduce alle seguenti conclusioni.

1.    L’apporto del pensiero critico ha molto ampliato lo spettro delle soluzioni per interpretare e risolvere i problemi che in Italia si sono nel tempo posti.

2. In più aspetti tale contributo ha analiticamente corrisposto, meglio di quello neoclassico, alle condizioni dell’economia italiana.

3. Gli economisti “pratici” e i policy makers non hanno ignorato il pensiero critico. In alcuni casi lo hanno posto in atto o hanno cercato di farlo. Ciò è avvenuto sebbene le indicazioni che ne emergevano non fossero sempre esplicitate, empiricamente suffragate, direttamente riferite all’esperienza italiana.

4. Il quadro effettuale, storico, che ex-post ne è risultato presenta luci e ombre. Le ragioni, però, hanno spesso travalicato l’ambito della scienza economica.

5. Guardando all’oggi e al futuro, di fronte alla contrazione che è in atto e al depauperamento incombente sulla società italiana, il pensiero critico può ben essere di ausilio.

Nell’argomentare queste tesi, muovo da un convincimento di metodo e da una valutazione.
Il convincimento è che sul piano strettamente analitico poco vi sia da respingere fra gli apporti delle famiglie di teorie che costituiscono la storia alta dell’economia politica. Corrisponde, questo convincimento, all’insegnamento di Federico Caffè, sapiente cultore di un eclettismo dei distinguo, non additivo. Dato il problema da affrontare, esso va analizzato con lo strumento più idoneo scelto fra le diverse migliori teorie evitando di confonderle, di tentare improbabili combinazioni fra esse. Se si tratta di allocazione di risorse date (gallette, scatolame, latte in polvere, la razione standard dei prigionieri di un campo di concentramento, ciascuno con bisogni diversi), valga Walras. Se ci si interroga su configurazione istituzionale, permanenza, evoluzione, prospettive di un sistema che produce merci – forza lavoro inclusa – a mezzo di merci, ci si rivolga ai classici, a Schumpeter, a Sraffa. Se tocca di vivere una crisi reale e finanziaria aspra come l’attuale, o una disoccupazione pertinace, si prenda spunto da Keynes. Spesso l’errore è nel selezionare il problema da analizzare – anche se poco rilevante – in funzione dello strumento che si padroneggia o, peggio, nell’applicare al problema urgente uno strumento inadatto.
La valutazione – il giudizio di valore implicito – consiste quindi nella preferenza per una cultura economica variegata, piuttosto che per un “pensiero unico”, per quanto fondato. Nessuna delle teorie solo economiche disponibili è bastevole di fronte alla molteplicità di questioni – allocazione, crescita, stabilità, distribuzione, ambiente – che possono porsi in una economia di mercato capitalistica. Specie se coltivata a fini di politica economica, l’economia politica è scienza con fortissime venature “d’arte”. Non è riconducibile a un paradigma escludente gli altri. Postula il raccordo con altre scienze sociali.
Un pregio del moderno pensiero economico italiano è sempre stato – sin da Francesco Ferrara, il capostipite – quello della varietà dei punti di vista. Tale pregio persiste, grazie al pensiero critico. È ancor più raro e prezioso oggi.
L’analisi dei post-keynesiani “di Cambridge” è divenuta già negli anni Sessanta una componente significativa del dissenso italiano dall’economia neoclassica. Dagli anni Settanta la cultura economica vedeva invece affermarsi altrove nel mondo la tendenza opposta: il prevalere delle posizioni più convinte della funzionalità del mercato, negatrici dell’intervento dello Stato.
Il caso italiano è in tal senso un’eccezione. Presenta quindi speciale interesse la cultura critica posta di fronte ai principali passaggi dell’Italia post-bellica. Semplificando, il problema economico ha assunto da noi natura diversa lungo tre fasi: crescita squilibrata nel 1950-1973; instabilità nel 1969-1995; ristagno produttivo dal 1992 a oggi.

1950-1973: una crescita squilibrata
Il progresso economico che trasformò la società italiana in questo periodo presentava tre principali squilibri: Nord-Sud, profitti-salari, consumi privati-consumi pubblici. Gli economisti neoclassici confidavano che, procedendo, lo sviluppo provvedesse di per sé, se non a “risolvere”, a “eliminare” quegli squilibri (la distinzione è di Claudio Napoleoni).
Merito del pensiero critico, dalla SVIMEZ ai post-keynesiani, fu l’aver posto in discussione questo quadro irenico, che poteva giustificare l’inazione dei governi. Alla denuncia si unì la prospettazione di soluzioni, lungo due direttrici: riforme di struttura e governo della domanda effettiva.
Il tentativo della programmazione – civilissima intenzione – fu il luogo istituzionale in cui i suggerimenti strutturali degli economisti critici almeno in parte confluirono negli anni Sessanta. Il tentativo fallì, ma per ragioni politico-istituzionali, e non certo perché allora sia mancato l’apporto del pensiero critico.
L’accento sul governo della domanda effettiva assunse almeno due tonalità, strutturale l’una, anticiclica l’altra. Quanto alla prima, la domanda era vista come generatrice di risparmio anche nel lungo andare: una condizione necessaria affinché lo sviluppo proseguisse e la disoccupazione “keynesiana”, da eccesso di capacità produttiva, non si trasformasse in disoccupazione permanente, da carenza di capacità produttiva.

Riguardo al breve periodo, il pensiero critico sottolineò la necessità di più strumenti per il governo macroeconomico. Un riferimento era nella testimonianza resa nel 1958 da Richard Kahn al Radcliffe Committee. Una politica monetaria antinflazionistica, che sacrificasse investimenti, produttività e crescita era da riguardare come estrema ratio. A fortiori, in assenza di politiche di bilancio e dei redditi, era monca la politica economica affidata alla sola banca centrale, al solo strumento creditizio. Purtroppo, è quanto sarebbe avvenuto in Italia, con Via Nazionale lasciata sola per trenta lunghi anni, dal 1963 al 1993.
Si dovette attendere un quinquennio affinché i rilievi mossi all’azione restrittiva della Banca d’Italia nel 1963 – una stretta che bloccò l’inflazione, ma anche gli investimenti – si traducessero da parte degli stessi critici in organiche proposte per attrezzare la politica economica di breve termine con gli strumenti regolatori del bilancio e dei redditi.
Nei fatti, dal 1964 al 1972 la bilancia dei pagamenti registrò sistematici attivi di parte corrente. Il Paese cedette al resto del mondo cospicue risorse reali, 20 per cento del PIL di un anno, cumulativamente. Investiti in Italia, quei mezzi sarebbero risultati preziosi per rafforzare l’economia.
Venne persa una storica occasione, nonostante i richiami al principio della domanda effettiva provenienti dai post-keynesiani.

1969-1995: instabilità
L’autunno caldo inaugurò una interminabile stagione di prezzi crescenti, disavanzi con l’estero, deprezzamento della lira, disoccupazione.
Tra il 1970 e il 1984, rivendicazioni reiterate impressero ai salari nominali una dinamica del 18 per cento l’anno con picchi inauditi – dell’ordine del 25 per cento – nel 1974, 1977, 1981: in media 3 punti oltre l’inflazione, 15 punti oltre la produttività. Con quello salariale interagirono altri due impulsi destabilizzanti: i rincari dei prodotti primari e il dilatarsi della spesa pubblica.
Se la crisi petrolifera di fine 1973 – a cui l’Italia era particolarmente esposta – colse tutti impreparati, l’esplosione salariale non sorprese gli economisti critici. La visione neoclassica delle relazioni industriali cozzava con il dato di una inflazione di salari e prezzi coincidente con una disoccupazione in ascesa, dal 5 per cento del 1970 al 12 per cento del 1987-89. La natura politico-istituzionale del salario – un ‘non prezzo’ – era invece da sempre al centro dell’analisi degli economisti critici, sebbene con diversità di toni anche profonde. Per lo più ne derivava una indicazione forte di politica dei redditi, alla maniera di Kahn. All’estremo opposto, forzando il pensiero di Sraffa, ne scaturì la peculiare suggestione di un salario “variabile indipendente”, svincolato da ogni compatibilità.
L’inefficienza della spesa pubblica e l’onerosità della tassazione erano pur esse fattori di stagflation. Non vi fu nulla di keynesiano nella mala gestio ultraventennale, sconsiderata negli anni Ottanta, della pubblica amministrazione. In particolare, è stridente il contrasto fra il risparmio pubblico negativo dal 1971 al 1994 e l’auspicio di Kahn per politiche fiscali rigorose, capaci di “contrastare l’inclinazione di una società democratica verso una miope preferenza per il consumo immediato”.
Inoltre, nel caso dell’Italia – ancor più che in altre economie avanzate – le interpretazioni da sintesi neoclassica in chiave di “aggregate supply shocks”, sottovalutavano le inefficienze di allocazione dinamica da cui un sistema di mercato può essere afflitto.
Su questo aspetto il pensiero critico offrì almeno due schemi di riferimento ricchi di implicite indicazioni di policy.
Il primo schema scaturiva dalla lettura di Ricardo attraverso Piero Sraffa e Luigi Pasinetti. Nella analogia – perché di analogia si trattò – con la rendita ricardianamente assicurata dalle terre meno fertili, i settori meno produttivi potevano gravare sulla manifattura, il settore più produttivo.
Il secondo schema chiamava in causa le carenze intrinseche ai meccanismi dell’allocazione dinamica delle risorse: il mercato con i suoi “fallimenti”; le grandi corporations con il burocratismo delle loro gerarchie; il sistema bancario e finanziario con le prassi del passato; la pubblica amministrazione con le sue inefficienze.
Questi due schemi, ben distanti dalla economics neoclassica, trovarono più di una eco presso gli economisti “pratici” e le istituzioni. Esemplifico con un caso di insuccesso e con un caso di successo, rispettivamente negli anni Settanta e negli anni Ottanta-Novanta.
Guido Carli, prima di succedere nell’estate del 1976 a Gianni Agnelli alla Confindustria promosse presso l’Ente Einaudi di Roma una serie di ricerche, poi raccolte in due volumi. L’impostazione era conforme a una linea “ricardiana” di lotta alle inefficienze oligopolistiche da parte dei produttori efficienti – capitalisti e lavoratori – almeno pro tempore uniti in tale impegno. Le proposte di Carli non ebbero seguito nell’azione dei governi. Lasciarono tuttavia un segno nel dibattito sulle cause delle difficoltà che l’economia incontrava.

Il caso positivo segue di pochi anni. Dopo i risultati solo parziali delle restrizioni creditizie del 1974 e del 1976, la Banca d’Italia dal 1979 guidata da Carlo Ciampi maturò il convincimento che l’inflazione era perpetuata da carenze nei meccanismi allocativi prima richiamati e da asimmetrie nelle variazioni dei prezzi assoluti. Vi corrispose un mutamento di strategia, basato sul freno imposto dai tassi d’interesse al deprezzamento della lira. Preclusa la scorciatoia alla competitività attraverso il cambio, le imprese industriali dovettero contenere i costi. L’inflazione scese, dal 21 per cento del 1980 a meno del 5 nel 1987. La politica della moneta e del cambio mutò le aspettative, la convenzione psicologica dominante: convention nel senso della pagina 152 della General Theory.
Il colpo definitivo all’inflazione fu pur esso inferto da un governo della moneta rigoroso, di stampo keynesiano. Nell’estate del 1994 l’inflazione aveva preso a risalire, verso il 6 per cento, movendo da livelli (3,7 per cento) già doppi rispetto a quello dei paesi europei più stabili. La Banca d’Italia diretta da Antonio Fazio attuò una stretta monetaria d’anticipo, la cui efficacia e credibilità ebbero pieno esito. L’inflazione ridiscese nel 1996 per situarsi al di sotto del 2 per cento nel 1997, entro il limite di Maastricht. Vennero abbattute le aspettative sui prezzi, ridotta la domanda di moneta, rilanciata la domanda di titoli. Al rialzo dei tassi a breve corrispose, non l’aumento, ma la flessione dei tassi a lunga.
L’episodio costituisce conferma del duplice convincimento espresso da Keynes nella General Theory: che il tasso a lunga dipende dalla moneta e dalle attese, non da produttività e parsimonia, e che una politica monetaria accorta – Keynes diceva “safe” – può controllarlo se controlla la moneta e le attese.

Dopo il 1992: una produttività spenta
Dalla crisi valutaria del 1992, l’economia italiana in un certo senso non è fuoruscita. Non ha più saputo essere produttiva. Un problema di instabilità è sfociato in un problema di crescita – di progresso tecnico – tuttora irrisolto.
Il ristagno non è prima facie riconducibile ai paradigmi “di Cambridge”. Non si configura come carenza strutturale di domanda effettiva. Inoltre, l’applicazione, anche solo per analogia, di uno schema ricardiano contrasta con almeno tre fatti. Mentre la crescita dell’economia rallentava, la profittabilità risaliva, anche nella industria. Il tasso di accumulazione si manteneva sui livelli pre-1992. La progressione della produttività nella manifattura scemava su ritmi, non solo prossimi allo zero, ma inferiori a quelli del terziario, privato e financo pubblico.
Nondimeno, di fronte alle difficoltà analitiche ancor più serie in cui incorre la ipotesi neoclassica è dal pensiero critico che possono desumersi spunti utili a sciogliere il “mistero” della produttività spenta nell’economia italiana. Mi riferisco alle teorie dell’impresa, della concorrenza in senso dinamico, del progresso tecnico.
Il pensiero critico opportunamente rifiuta l’idea neoclassica dell’azienda non monopolistica quale “scatola nera” ottimizzante. Nella funzione di comportamento delle imprese entrano, con diverso peso, sollecitazioni diverse, oltre al profitto di breve termine. Sul comportamento dei produttori influisce il contesto, al di là delle stesse forme di mercato. E’ quindi potenzialmente fruttuoso il riferimento alla visione dell’impresa e della funzione imprenditoriale più larga, articolata, storicizzante, secondo una linea che va da Downie all’ultimo Baumol.
Dinamicamente, la concorrenza costringe le imprese -in specie le grandi, oligopolistiche – a riallocare le risorse, a investirle nella ricerca sistematica delle innovazioni e nella loro profittevole diffusione. Oltre che per l’assenza di rivalità fra imprese, la sollecitazione può mancare se il tasso di cambio si deprezza, se il salario è cedevole, se la spesa pubblica è copiosa e gli aiuti di Stato disponibili. In sintesi, la sollecitazione manca se prevalgono certezze di agevole profitto, in alternativa alla sua più ardua ricerca attraverso efficienza e progresso tecnico.
Le spinte lato sensu concorrenziali possono essere variamente attive. Determinano le capacità potenziali dei produttori di dimostrarsi efficienti e innovativi. Al tempo stesso, il contesto esterno in diversa misura facilita, ovvero ostacola, l’espressione delle potenzialità dei produttori. Spesa pubblica corrente eccessiva, servizi della P.A. inefficaci, tassazione onerosa, infrastrutture fisiche carenti, diritto dell’economia inadeguato possono spegnere la propensione delle imprese alla produttività, renderne vana la ricerca.
Dalla interazione nella diade capacità/possibilità di produrre più e meglio dipende lo sviluppo economico. Applicando questo schema al caso dell’Italia post-1992 l’interazione è stata perversa. La crescita non è stata favorita dall’ambiente esterno all’impresa. Non lo è stata nella struttura dei conti pubblici e nella funzionalità dell’amministrazione statale, come pure nelle infrastrutture fisiche e giuridiche. Contemporaneamente, è scemata la concorrenza, e con essa il dinamismo d’impresa. Interagendo in negativo, questi quattro fasci di forze – Stato, infrastrutture, concorrenza, dimensione d’impresa – hanno ridotto alla stagnazione il sistema produttivo del Paese.
Il pensiero critico, peraltro, invita ad andare oltre questo stesso, pur utile schema. Invita a chiedersi perché i quattro fasci di forze che abbiamo enucleato hanno agito da freno alla crescita. Invita altresì a interrogarsi sulle condizioni – a questo punto meta-economiche – che potrebbero orientare quelle stesse forze nel senso opposto, di interagire promuovendo la crescita.

Il pensiero “di Cambridge” unisce all’apertura alla storia una ulteriore, precisa indicazione di metodo. I due piani – quello dell’analisi in senso stretto economica e quello dell’analisi dello strato sottostante, meta-economico, che per brevità può dirsi “istituzionale” – vanno trattati almeno in un primo momento separatamente. La scansione che li distingue consentirà poi di meglio ricongiungerli in una sintesi compiuta. Pasinetti riconduce il progresso tecnico, motore dello sviluppo moderno, al più generale processo di apprendimento degli uomini riuniti in società, a propria volta connessa, credo, con la dimensione istituzionale e segnatamente con quella culturale.

La crisi in corso
La crisi finanziaria internazionale esplosa negli Stati Uniti, dalla seconda metà del 2008 si è unita a una profonda recessione delle economie avanzate, con rischio serio di deflazione e di una contrazione, nel 2009, dell’attività produttiva su scala mondiale. Analoghe previsioni, non meno incerte in un momento come questo, vengono dette per l’economia italiana.
Nella crisi attuale, davvero non si comprende quale possa essere la “ricetta” specificamente neoclassica, fatte salve ulteriori regole per la finanza. Nuove regole, che facciano tesoro delle esperienze più recenti, possono limitare crisi simili all’attuale in futuro. Al di là degli slogan sulla deregolamentazione, nel mondo banche e soprattutto mercati finanziari non erano mai stati in precedenza tanto regolati. Eppure la crisi finanziaria c’è stata. Le regole possono poco per prevenire l’instabilità che si annida nelle zone innovative e non regolamentate della finanza. A crisi scoppiate la “ricetta” di derivazione keynesiana è, invece, chiara. Occorre agire contemporaneamente – ciò è decisivo – sul fronte monetario e su quello reale: ristabilire la funzionalità della finanza, sostenere la domanda globale. Sul primo fronte gli interventi per evitare l’aggravamento della crisi e per superarla sono efficaci solo se discrezionali. Il crescendo delle azioni possibili verso il sistema bancario e finanziario è il seguente: liquidità; garanzie; acquisizione di titoli rischiosi; ricapitalizzazione con danaro privato; ricapitalizzazione con danaro pubblico; regole diverse, aggiuntive. Sul secondo fronte il crescendo degli interventi è il seguente: detassazione; spesa statale produttiva; socializzazione degli investimenti. Nella impostazione keynesiana, al di là degli atti di politica economica – opportunamente diversi da paese a paese – e della primazia della discrezionalità sulle regole, rileva il governo delle aspettative: l’efficacia degli interventi agli occhi degli autoreferenziali mercati, per il ripristino della fiducia.
Il caso italiano è anche nella presente crisi speciale. L’instabilità finanziaria – meno grave – e la recessione – non meno grave – si sono innestate su un – gravissimo – male risalente: il ristagno della produttività. In questo caso, governare le aspettative equivale a fondare su una corretta diagnosi, che distingua i diversi mali, un programma organico e pluriennale di attacco alle debolezze strutturali dell’economia, avviandone immediatamente l’attuazione. Nella misura in cui imprese, famiglie, mercati finanziari riterranno quel programma persuasivo, la propensione privata alla spesa risalirà con il ritorno della fiducia. Potrà essere anche sostenuta da un deficit spending che nella composizione delle minori entrate e delle maggiori spese pubbliche non contrasti con le linee basilari del programma pluriennale. Ma questo è prioritario.
Non giovano i rinvii. E’ esiziale l’oscillare tra manifestazioni di pessimismo e di ottimismo. Purtroppo è ciò che è accaduto e accade, non solo da noi.

*Versione orale della relazione tenuta al Convegno Convegno internazionale “Gli economisti postkeynesiani di Cambridge e l’Italia”, promosso dall’Accademia Nazionale dei Lincei, Palazzo Corsini – Roma, 11-12 marzo 2009