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Dopo Keynes, dopo Sraffa: il pensiero “critico” e l’economia italiana*

di - 24 Aprile 2009
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Una riflessione sul pensiero post-keynesiano “di Cambridge” e più in generale sul pensiero critico di quello neoclassico, avendo presenti sullo sfondo i profili di teoria, può estendersi al rapporto fra quel pensiero e i nodi dell’economia italiana dal secondo dopoguerra. La riflessione conduce alle seguenti conclusioni.

1.    L’apporto del pensiero critico ha molto ampliato lo spettro delle soluzioni per interpretare e risolvere i problemi che in Italia si sono nel tempo posti.

2. In più aspetti tale contributo ha analiticamente corrisposto, meglio di quello neoclassico, alle condizioni dell’economia italiana.

3. Gli economisti “pratici” e i policy makers non hanno ignorato il pensiero critico. In alcuni casi lo hanno posto in atto o hanno cercato di farlo. Ciò è avvenuto sebbene le indicazioni che ne emergevano non fossero sempre esplicitate, empiricamente suffragate, direttamente riferite all’esperienza italiana.

4. Il quadro effettuale, storico, che ex-post ne è risultato presenta luci e ombre. Le ragioni, però, hanno spesso travalicato l’ambito della scienza economica.

5. Guardando all’oggi e al futuro, di fronte alla contrazione che è in atto e al depauperamento incombente sulla società italiana, il pensiero critico può ben essere di ausilio.

Nell’argomentare queste tesi, muovo da un convincimento di metodo e da una valutazione.
Il convincimento è che sul piano strettamente analitico poco vi sia da respingere fra gli apporti delle famiglie di teorie che costituiscono la storia alta dell’economia politica. Corrisponde, questo convincimento, all’insegnamento di Federico Caffè, sapiente cultore di un eclettismo dei distinguo, non additivo. Dato il problema da affrontare, esso va analizzato con lo strumento più idoneo scelto fra le diverse migliori teorie evitando di confonderle, di tentare improbabili combinazioni fra esse. Se si tratta di allocazione di risorse date (gallette, scatolame, latte in polvere, la razione standard dei prigionieri di un campo di concentramento, ciascuno con bisogni diversi), valga Walras. Se ci si interroga su configurazione istituzionale, permanenza, evoluzione, prospettive di un sistema che produce merci – forza lavoro inclusa – a mezzo di merci, ci si rivolga ai classici, a Schumpeter, a Sraffa. Se tocca di vivere una crisi reale e finanziaria aspra come l’attuale, o una disoccupazione pertinace, si prenda spunto da Keynes. Spesso l’errore è nel selezionare il problema da analizzare – anche se poco rilevante – in funzione dello strumento che si padroneggia o, peggio, nell’applicare al problema urgente uno strumento inadatto.
La valutazione – il giudizio di valore implicito – consiste quindi nella preferenza per una cultura economica variegata, piuttosto che per un “pensiero unico”, per quanto fondato. Nessuna delle teorie solo economiche disponibili è bastevole di fronte alla molteplicità di questioni – allocazione, crescita, stabilità, distribuzione, ambiente – che possono porsi in una economia di mercato capitalistica. Specie se coltivata a fini di politica economica, l’economia politica è scienza con fortissime venature “d’arte”. Non è riconducibile a un paradigma escludente gli altri. Postula il raccordo con altre scienze sociali.
Un pregio del moderno pensiero economico italiano è sempre stato – sin da Francesco Ferrara, il capostipite – quello della varietà dei punti di vista. Tale pregio persiste, grazie al pensiero critico. È ancor più raro e prezioso oggi.
L’analisi dei post-keynesiani “di Cambridge” è divenuta già negli anni Sessanta una componente significativa del dissenso italiano dall’economia neoclassica. Dagli anni Settanta la cultura economica vedeva invece affermarsi altrove nel mondo la tendenza opposta: il prevalere delle posizioni più convinte della funzionalità del mercato, negatrici dell’intervento dello Stato.
Il caso italiano è in tal senso un’eccezione. Presenta quindi speciale interesse la cultura critica posta di fronte ai principali passaggi dell’Italia post-bellica. Semplificando, il problema economico ha assunto da noi natura diversa lungo tre fasi: crescita squilibrata nel 1950-1973; instabilità nel 1969-1995; ristagno produttivo dal 1992 a oggi.

1950-1973: una crescita squilibrata
Il progresso economico che trasformò la società italiana in questo periodo presentava tre principali squilibri: Nord-Sud, profitti-salari, consumi privati-consumi pubblici. Gli economisti neoclassici confidavano che, procedendo, lo sviluppo provvedesse di per sé, se non a “risolvere”, a “eliminare” quegli squilibri (la distinzione è di Claudio Napoleoni).
Merito del pensiero critico, dalla SVIMEZ ai post-keynesiani, fu l’aver posto in discussione questo quadro irenico, che poteva giustificare l’inazione dei governi. Alla denuncia si unì la prospettazione di soluzioni, lungo due direttrici: riforme di struttura e governo della domanda effettiva.
Il tentativo della programmazione – civilissima intenzione – fu il luogo istituzionale in cui i suggerimenti strutturali degli economisti critici almeno in parte confluirono negli anni Sessanta. Il tentativo fallì, ma per ragioni politico-istituzionali, e non certo perché allora sia mancato l’apporto del pensiero critico.
L’accento sul governo della domanda effettiva assunse almeno due tonalità, strutturale l’una, anticiclica l’altra. Quanto alla prima, la domanda era vista come generatrice di risparmio anche nel lungo andare: una condizione necessaria affinché lo sviluppo proseguisse e la disoccupazione “keynesiana”, da eccesso di capacità produttiva, non si trasformasse in disoccupazione permanente, da carenza di capacità produttiva.

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